Il passato che non passa e il relativismo culturale dei diritti fondamentali. Brevi considerazioni a margine della sentenza Peta Deutschland v. Germany.
Ci sono alcuni temi del passato che non costituiscono solo materiale di lavoro per gli storici. Essi travalicano la passione degli studi storiografici ed entrano nella memoria collettiva, dove rimangono, risvegliando, ogni volta che vengono richiamati all’attenzione pubblica, dolori e ferite mai completamente rimarginate. Ma il “passato che non passa” lascia anche lo spazio per delle suggestioni di più ampio respiro sulla portata dei diritti umani oggi, in particolare in un momento in cui sempre più si dibatte sugli effetti della globalizzazione sulle istituzioni giuridiche, sull’abbattimento dei confini nazionali, sul rapporto particolarismo vs. universalismo. Tematiche queste che coinvolgono non più solo il continente europeo, che era stato quello più direttamente coinvolto dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale.
È questa la cornice all’interno della quale deve essere letta la recente pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Peta Deutschland v. Germany (43481/09). Il cuore della questione portata all’attenzione del giudice europeo è ancora una volta l’Olocausto quale limite alla libertà di espressione. L’associazione animalista Peta Deutschland (ramo tedesco dell’organizzazione internazionale “People for the Ethical Treatment of Animals” che si occupa della tutela dei diritti degli animali) per sostenere la propria campagna contro il maltrattamento degli animali aveva utilizzato dei poster che riproducevano delle fotografie nelle quali erano raffigurati, accanto a degli animali maltrattati in modo evidente, dei detenuti nei campi di concentramento. Tale campagna, il cui obiettivo era sensibilizzare l’opinione pubblica alla causa dell’associazione stessa, fu invece percepita come offensiva e lesiva della dignità umana e dei diritti della persona da parte di alcuni sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti, che presentarono ricorso alle competenti autorità tedesche con la richiesta di una misura civile idonea a far desistere l’associazione Peta dal continuare a utilizzare tale pubblicità.
I ricorrenti ottennero ragione in tutti i gradi di giudizio, mentre qualunque istanza presentata da Peta basata sull’esercizio della propria libertà di espressione fu respinta. Difatti, anche se la campagna pubblicitaria contestata rappresentava comunque una forma di espressione garantita dall’art. 5 della Legge Fondamentale tedesca (posto che rappresenta un orientamento pacifico nella giurisprudenza tedesca, che tale norma protegge anche espressioni formulate in modo polemico o offensivo), le immagini denunciate, nell’accomunare animali maltrattati e persone internate in un campo di concentramento, trasmettevano il messaggio che si trattava di esseri posizionati sullo stesso livello. Allo stesso modo, tutte le autorità che si sono pronunciate sul punto hanno riconosciuto che non vi era motivo alcuno di pensare che l’obiettivo della campagna fosse quello di umiliare le vittime dell’Olocausto, posto che risultava evidente come il loro fine fosse quello di criticare le condizioni in cui gli animali vengono trattati.
Sulla questione si è pronunciata anche la Corte Costituzionale, la quale ha preferito non addentrarsi nella questione se la campagna pubblicitaria di Peta rappresentava anche la violazione della dignità umana, sia dei ricorrenti che delle persone ivi raffigurate, optando per le rive più sicure dei diritti della personalità.
Così, anziché procedere al bilanciamento tra interessi costituzionali tutti meritevoli di tutela (dignità umana vs. libertà di espressione), il giudice di Karlsruhe ha richiamato la precisa opzione effettuata dalla Legge Fondamentale tedesca che mette al centro la dignità umana (riconosciuta peraltro all’art. 1) e solo marginalmente tutela gli animali, concludendo quanto meno per l’arbitrarietà della similitudine effettuata tra animali ed essere umani, che di fatto banalizzava la sofferenza delle vittime dell’Olocausto. Tali conclusioni, secondo la Corte, sarebbero inoltre giustificate anche dall’idea che gli ebrei che vivono in Germania appartengono ad un gruppo nei confronti del quale lo Stato ha uno speciale obbligo morale.
Con una decisione presa all’unanimità e dopo aver speso poche parole circa la sussistenza dei requisiti formali previsti dal comma 2 dell’art. 10 della Convenzione per la limitazione del diritto alla libera espressione (e quindi che la restrizione sia prevista da una legge e che sia idonea a proteggere la reputazione o i diritti altrui), la Corte si è soffermata su quello che è il punto generalmente foriero di dibattiti e cioè se la limitazione ad un diritto possa essere considerata necessaria in una società democratica. Se da un lato, il test elaborato dalla Corte richiede che esista un pressing social need, dall’altro lato, gli Stati hanno comunque un margine di apprezzamento abbastanza ampio per valutare la sussistenza di tale necessità ed effettuare un bilanciamento dei vari interessi in gioco. Ciò non esclude comunque che vi sia un controllo europeo, essendo la Corte titolare del diritto all’ultima parola sulla compatibilità di atti normativi o decisioni giudiziali nazionali con le disposizioni della Convenzione.
Con riferimento alla libertà di espressione il discorso si complica ulteriormente, in particolare per quanto riguarda i discorsi politici e/o i temi di pubblico interesse. Infatti, in quest’ultima ipotesi solo weighty reasons possono giustificare la limitazione del diritto alla libera espressione.
Weighty reasons individuate nella strumentalizzazione delle vittime dell’Olocausto, per di più se mostrate in uno stato di profonda vulnerabilità. Difatti, nonostante la Corte, condivida con le diverse autorità tedesche che si sono pronunciate sulla questione la considerazione che la pubblicità contestata costituiva l’espressione di un’opinione protetta dal diritto ad una libera espressione su una materia di evidente interesse pubblico, condivide anche l’idea che si è avuta una violazione dei diritti dei ricorrenti in quanto ebrei sopravvissuti all’Olocausto che vivono in Germania.
Elemento imprescindibile nella risoluzione del presente caso è rappresentato dalla considerazione dal contesto sociale e storico di riferimento, che consente al giudice di Strasburgo di sottolineare le differenze con casi analoghi avvenuti in giurisdizioni diverse. Cosi qualunque riferimento all’Olocausto deve essere visto alla luce della storia tedesca e delle politiche adottate dal Governo che si considera sottoposto ad una speciale obbligo morale nei confronti degli ebrei che vivono in Germania. Ed è proprio tale contesto che quindi giustifica la restrizione di un diritto fondamentale, quale la libertà di espressione, seppure attraverso una sanzione civilistica, che comunque impedisce all’associazione Peta di pubblicare solo sette poster specifici, senza privarla peraltro di tanti altri mezzi per fare la campagna e convergere le attenzioni dell’opinione pubblica sul tema della protezione degli animali.
L’Olocausto continua quindi ad essere un tema tanto delicato, che nel contesto tedesco ancora oggi consente limitazioni alla libertà di espressione, seppur effettuate mediante lo strumento civilistico, anche laddove non si vuole mettere in dubbio la brutalità dell’evento e si voglia farne uso in senso positivo per interessi pubblici. Ma la decisione della Corte, anche a causa della scarna motivazione data, cela un pericolo nascosto, sapientemente messo in luce nell’opinione concorrente firmata dai giudici Zupančič e Spielmann. Si tratta della relativizzazione dei diritti fondamentali. Nessun problema si pone e la relativizzazione sarebbe solo un’ombra nel caso in cui la campagna pubblicitaria contestata fosse stata a sostegno del nazismo. Ma nel caso di specie, l’errore sarebbe da rinvenirsi proprio alla radice del problema: considerare la comparazione tra esseri umani e animali come una forma di espressione sarebbe un’aberrazione, sostengono i concurring judges, che rende difficile capire cosa non è coperto dalla libertà di espressione. Tale similitudine, che sarebbe di per se inaccettabile, nel caso di specie risulterebbe illegittima solo perché fatta nel particolare contesto tedesco.
In ogni caso, a prescindere dalla qualificazione della campagna come libertà di espressione o meno, tale relativizzazione risulta profondamente problematica da un punto di vista democratico e tale situazione risulta amplificata dal grande assente: il mancato riferimento alla dignità umana, infatti, mette in evidenza una forma di relativismo culturale dei diritti che avrebbe probabilmente condotto la Corte europea ad un risultato differente nel caso in cui teatro della vicenda fosse stato un altro Paese, seppur con una storia simile come l’Austria (a tale proposito si veda la sentenza della Corte suprema austriaca no. 6 Ob 321/04f, che nel decidere un caso analogo ha affermato che la campagna pubblicitaria in contestazione era protetta dalla libertà di espressione).
Rimane sempre la domanda alla quale non si riesce ancora a dare una risposta soddisfacente: qual è il limite della tolleranza? E la mancanza della risposta è legata ad una forma di relativismo culturale ancora troppo marcato che rende inaccettabile in Germania un qualcosa che inaccettabile non è (o non è più) in Austria, in Italia o in altre parti del mondo.