Il paradosso di Zenone, ovvero dell’adozione successiva per le Unioni civili al vaglio del Bundesverfassungsgericht
Era una decisione che si aspettava, se non altro per il percorso di sviluppo che la giurisprudenza del Tribunale costituzionale tedesco ha ormai intrapreso da alcuni anni in materia di unioni civili (se si vuole, cfr. F. Saitto, Ianus n. 4-2011). Ed appare però, in questa prospettiva, una sentenza ancora una volta problematica e molto cauta, che non esalta il piano dei diritti delle coppie del medesimo sesso, stigmatizzando piuttosto le discriminazioni irragionevoli. Resta, per di più, ancora in vigore il limite delle adozioni congiunte da parte delle coppie di persone dello stesso sesso legate da un’unione civile su cui il BVerfG si sofferma solo per un cenno con la finalità di sostenere come tale decisione non apra comunque all’istituto dell’adozione congiunta.
Con la pronuncia in commento (BVerfG 1 BvL 1/11), emanata peraltro lo stesso giorno in cui la Corte EDU si pronunciava su una questione per molti versi affine, ma nei fatti diversa, condannando sul punto l’Austria (sul punto cfr. A. Lecis, Forum Quaderni Costituzionali), un ulteriore tassello si è mosso quindi nella direzione di una totale equiparazione giuridica tra matrimonio e unioni civili riducendo lo scarto tra le due discipline e di fatto sancendo, per l’ennesima volta, l’altissima problematicità della tutela del matrimonio attraverso lo strumento della garanzia di istituto che già emergeva con forza dirompente dalla giurisprudenza più recente.
Grazie a questa sentenza, l’adozione successiva, ovvero l’adozione da parte dell’altro partner, di un figlio già adottato dall’altro, dovrà essere ritenuta possibile e il legislatore dovrà regolarla entro il 30 giugno 2014 perché l’attuale normativa viola l’art. 3, Abs. 1 della Legge fondamentale sia nel raffronto dei rapporti dei figli tra loro, sia nel confronto tra coniugi e partner, sia tra diversi tipi di partner (essendo già oggi nella condizione di poter adottare il figlio naturale del proprio compagno). La prospettiva accolta, tuttavia, più che valorizzare i diritti dei partner, privilegia – come detto – il diritto dell’adottato a non essere discriminato ed è su questo punto che si sofferma con maggiore attenzione il Tribunale.
Ribadendo sul punto la sua giurisprudenza più recente, il Tribunale costituzionale ha sottolineato come, al di là del semplice divieto di arbitrio, la normativa oggetto del ricorso, vista la sua importanza, deve essere sottoposta a un controllo particolarmente stringente perché eventuali divergenze nel trattamento incidono su diritti particolarmente sensibili. E in questo senso, la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 9, Abs. 7 Lebenspartnerschaftsgesetz, nella parte in cui non consente l’adozione successiva di un bambino già precedentemente adottato dall’altro partner, sembra preludere ad un ulteriore e continuo ampliamento dei diritti per le coppie che hanno contratto tale tipo di unione. D’altronde, il Tribunale si era già pronunciato sull’art. 7, Abs. 2 nel 2009 (BVerfG 1 BvL 15/09) salvando in quel caso la norma sotto attacco nella misura in cui utilizzava il termine di genitore anche per il partner adottivo del figlio naturale del proprio compagno o della propria compagna (Stiefkindadoption). Tale possibilità era stata introdotta nel 2004, senza prevedere, però, anche il diverso caso dell’adozione successiva.
Entrando nel merito della decisione, nel caso in esame, il Tribunale esalta la sua capacità di astrazione concettuale e, da un lato, pur riconoscendo lo status costituzionale di famiglia anche alla famiglia di fatto e anche composta da persone dello stesso sesso, ne ridimensiona i risvolti costituzionali esaltando la discrezionalità in proposito del legislatore ordinario; dall’altro, soffermandosi sui diritti del bambino, elude o, meglio, non prende di petto il tema forse più spinoso: la via prescelta consente infatti al Tribunale di non approfondire il tema della violazioni di eventuali diritti costituzionali del genitore partner di un’unione civile, trincerandosi dietro il formalismo sillogistico per cui si può essere genitori – e di conseguenza rivendicare diritti costituzionali derivanti da tale status – solo nel caso in cui esista un rapporto che vada oltre il dato socio-familiare e che giunga alla discendenza biologica o, almeno, a un qualche riconoscimento giuridico.
In tal senso, la pronuncia non sembra in alcun modo riconoscere un diritto costituzionale alla omogenitorialità, quanto semmai piuttosto, nel darlo quasi per sottinteso, ribadire, ottenendo in un certo qual modo il medesimo risultato, che eventuali discriminazioni, lungi dall’essere vietate tout court, debbono trovare però solide giustificazioni costituzionali che consentano effettivamente di riconoscere nella disciplina una qualche ragionevolezza, il cui controllo non può fermarsi – ci mancherebbe altro – ad un semplice Willkürverbot, ma deve essere effettuato nella forma dello scrutinio stretto. E d’altronde, sul punto il Tribunale è chiarissimo: il legislatore già adesso ammette che i bambini crescano in famiglie composte da partner del medesimo sesso in ragione dell’esistenza dell’adozione da parte dei singoli e ciò non può che far pensare che l’adozione sia considerata un istituto che è da intendersi comunque nell’interesse del minore. Non occorre in questo senso che si spenda a tutela dei diritti delle coppie di persone dello stesso sesso a diventare genitori. La prospettiva sempre privilegiata è quella del minore che però, sia pur indirettamente, produce infine il medesimo effetto: il Tribunale riporta come, sotto un profilo psicologico, per esempio, l’adozione successiva tendenzialmente produca stabilisierende entwicklungspsycologische Effekte.
Così posta la questione, la decisione permette di distinguere due piani. In un primo, il Tribunale si limita a riconoscere come, allo stato attuale, il divieto di adozione successiva strida del tutto con la normativa complessiva in quanto finisce per danneggiare il figlio, quando invece l’adozione è un istituto pensato per il suo bene e che trova nell’interesse del minore anche i suoi stessi limiti naturali. Sul punto però il Tribunale è al contempo anche cauto e ci tiene – come detto – a ribadire che il fatto che il bambino possa crescere e venir educato in un contesto omosessuale è già nelle cose, e in particolare in quel comma 6 dell’art. 9 della legge sulle unioni civili che delinea con chiarezza la possibilità che avvenga l’adozione di un bambino, sia pur del singolo, da parte di una persona unita in una unione civile.
Sul secondo piano del discorso, quello dei diritti delle coppie, poi, la sentenza non pare particolarmente innovativa sul piano dell’estensione e del riconoscimento diretto dei diritti delle coppie dello stesso sesso, cui non viene riconosciuto, nello specifico, un preciso ed autonomo diritto costituzionale, e però, al contempo, sembra preludere, con un’insolita pragmaticità, ad una sempre maggiore equiparazione del catalogo degli stessi a quelli riconosciuti alle coppie sposate da cui i diritti dei primi necessariamente rampollano. È davvero difficile, in questa prospettiva, vedere la differenza, che però c’è ed è sostanziale. Insomma, adelante con giudizio. Così a mio avviso è possibile spiegare il rigetto totale delle questioni concernenti l’art. 6 GG, che avrebbe dato già oggi un risvolto contenutistico chiaro e materialmente determinato, ma con il rischio drammatico di frustrare il difficile compromesso che si è andato definendo negli anni, e, invece, il più blando, ma al contempo più costituzionalmente gravido di promesse, accoglimento della questione sulla base dell’art. 3 che pone le basi di un’equiparazione per piccoli passi e per casi concreti, non chiudendo così su future possibili aperture all’adozione congiunta, questione comunque in tal modo abilmente evitata.
È certamente vero, dunque, che il Tribunale costituzionale sottolinea come il divieto di adozione successiva violi l’art. 3 GG perché discrimina non solo i bambini a seconda della famiglia in cui crescono, ma anche i partner delle unioni registrate, rispetto ai coniugi. Ma tale richiamo non sembra tanto sostanziale, quanto ancora una volta figlio di quella via prescelta dal Tribunale di riservarsi sempre, pur in un innegabile progressivo ampliamento del catalogo dei diritti, un’ultima parola sull’estensione e il riconoscimento dei diritti alle unioni registrate che non sono certo – in tal modo – costituzionalmente necessitati.
E allora, se quanto detto è vero, il lento percorso scavato valorizzando il controllo di ragionevolezza, pur per molti versi dimostratosi, senza dubbio, progressista, conciliante e aperto verso le unioni di persone dello stesso sesso, inaugurato ormai anni fa dal Tribunale costituzionale tedesco, sempre di più ricorda il paradosso di Zenone di Achille e la tartaruga, in cui Achille, alias le unioni civili, per quanto possa avvicinarsi, non potrà mai pienamente raggiungere la tartaruga, alias il matrimonio. Questi i rischi di una giurisprudenza costruita tutta sull’astrazione concettuale più difficile ormai da difendere – la garanzia di istituto – senza però, così facendo, avere l’ardire di negare i nuovi diritti che la società reclama.