Il nuovo Patto di Stabilità e Crescita. Much Ado About (Almost) Nothing?
1. Lo scorso 29 aprile il processo di riforma del Patto di stabilità e crescita ha trovato il suo epilogo con l’adozione, da parte del Consiglio dell’Unione europea, dei seguenti atti:
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- Direttiva (UE) 2024/1265 recante modifica della direttiva 2011/85/UE relativa ai requisiti per i quadri di bilancio degli Stati membri;
- Regolamento (UE) 2024/1263 relativo al coordinamento efficace delle politiche economiche e alla sorveglianza di bilancio multilaterale e che abroga il regolamento (CE) n. 1466/97 del Consiglio (cd. “braccio preventivo”);
- Regolamento (UE) 2024/1264 recante modifica del regolamento (CE) n. 1467/97 per l’accelerazione e il chiarimento delle modalità di attuazione della procedura per i disavanzi eccessivi (c.d. “braccio correttivo”).
Come noto, tale approdo giunge al termine di un dibattito prolungato, il quale ha avuto origine proprio da una diffusa insoddisfazione verso la filosofia di fondo che ispirava il precedente Patto. Il riferimento è, chiaramente, a quell’approccio che da più parti è stato accusato di aver concesso eccessivo credito rispetto alla funzionalità delle regole numeriche nell’ambito della governance economica (cfr. A. J. Menéndez; sul punto sia consentito anche il rinvio a quanto osservato precedentemente su questo Blog); approccio tuttavia non condiviso da coloro che – su posizioni antitetiche – rinvenivano in un’eccessiva politicità e discrezionalità nell’applicazione dello stesso, soprattutto con riguardo all’apparato sanzionatorio, il motivo del suo inefficace funzionamento (posizione, quest’ultima, fatta politicamente propria da Germania e Olanda).
In tale quadro di opposte critiche va inserita la sospensione dell’operatività delle regole del Patto dal 2020 al 2023, in virtù dell’attivazione della c.d. “clausola di salvaguardia generale”: nel contesto di un’economia europea fortemente condizionata dall’impatto della pandemia, le istituzioni dell’Unione hanno ritenuto opportuno sospendere il Patto in quanto il rispetto delle relative regole avrebbe provocato un irrigidimento nella gestione delle politiche economiche e fiscali dei singoli Paesi membri incompatibile con istanze di intervento – economiche e sociali – non eludibili.
È su questo sfondo che, nell’aprile 2023, la Commissione europea ha formalizzato la propria proposta di riforma nella quale – facendo seguito agli intendimenti di cui alla Comunicazione n. 9 del novembre 2022 (cfr. sul punto il nostro commento su questo Blog) – avanzava un complessivo aggiornamento del Patto.
È su questa proposta, che pure è stata qui commentata dettagliatamente (cfr. i contributi di A. Francescangeli e L. Bartolucci), che si è svolta la fase più propriamente politica di un dibattito che ha trovato la propria conclusione con l’adozione nell’aprile scorso degli atti indicati poco sopra.
2. Il risultato di tale dibattito, e dunque la riforma del Patto in commento in questa sede, consiste in quello che parrebbe un sostanziale irrigidimento del disegno originario della Commissione, in ragione di un compromesso con le istanze rigoriste di alcuni Paesi, fra cui la Germania.
Le diverse posizioni sostenute da altri paesi – in particolare dall’Italia – sembrano aver perso vigore con il procedere dei negoziati. Infatti, per quanto la riforma del braccio preventivo non necessitasse il voto unanime del Consiglio, sulla riforma dal braccio correttivo ogni stato ha disposto di un proprio potere di veto, che ha potuto utilizzare in modo complessivo nei negoziati. Le posizioni italiane, forse anche indebolite nella loro coerenza dall’alternanza di tre diversi esecutivi di diverso colore (Conte II, Draghi e Meloni), sembrano infine essersi concentrate su una posticipazione al 2027, cioè alla fine dell’attuale legislatura – tra l’altro al prezzo di specifiche condizionalità – dell’effettiva entrata in vigore della nuova traiettoria per la sostenibilità del debito e dei parametri sul debito relativi alla procedura di infrazione (considerando n. 23 del regolamento sul braccio correttivo, art. 36 di quello sul braccio preventivo, sul punto Corte dei Conti, p. 7). In tal senso, pare riscontrarsi una certa miopia politica nel barattare un irrigidimento del Patto sul lungo periodo rispetto a una sua attenuazione sul breve.
I segni di tale irrigidimento appaiono riconducibili sostanzialmente a un singolo aspetto, il quale assume, tuttavia, un peso non indifferente nel giudizio sul nuovo Patto. Si tratta delle nuove regole previste per il c.d. braccio preventivo in relazione alla traiettoria di riferimento di cui agli artt. 5, 6, 7 e 8 del regolamento (UE) 2024/1263.
Al fine di far valere la distanza dalle virtualità lasciate aperte dalla originaria proposta della Commissione, giova un confronto testuale fra il testo della proposta stessa e quello del regolamento adottato.
Per il primo, infatti,
«[l]a traiettoria tecnica garantisce che: a) il rapporto debito pubblico/PIL sia avviato o mantenuto su un percorso di riduzione plausibile o rimanga a livelli prudenti; b) il disavanzo pubblico sia portato e mantenuto al di sotto del valore di riferimento del 3% del PIL; c) lo sforzo di aggiustamento di bilancio durante il periodo del piano strutturale nazionale di bilancio a medio termine sia almeno proporzionale allo sforzo complessivo compiuto nell’arco dell’intero periodo di aggiustamento; d) il rapporto debito pubblico/PIL al termine dell’orizzonte di programmazione sia inferiore a quello registrato nell’anno precedente l’inizio della traiettoria tecnica; e e) nel periodo coperto dal piano, la crescita della spesa netta nazionale resti, di norma, mediamente inferiore alla crescita del prodotto a medio termine» (art. 5).
Il testo in vigore, invece, impone che «[l]a traiettoria di riferimento è basata sul rischio e specifica per ciascuno Stato membro e garantisce che: a) entro la fine del periodo di aggiustamento, ipotizzando l’assenza di ulteriori misure di bilancio, il rapporto debito pubblico/PIL previsto si collochi o si mantenga su un percorso di riduzione plausibile o rimanga a livelli prudenti al di sotto del 60% del PIL nel medio termine; b) il disavanzo pubblico previsto sia portato al di sotto del 3% del PIL nel corso del periodo di aggiustamento e sia mantenuto al di sotto di tale valore di riferimento nel medio termine, ipotizzando l’assenza di ulteriori misure di bilancio; c) lo sforzo di aggiustamento di bilancio durante il periodo del piano nazionale strutturale di bilancio di medio termine sia di norma lineare e almeno proporzionale allo sforzo complessivo compiuto nell’arco dell’intero periodo di aggiustamento; e d) vi sia coerenza con il percorso correttivo di cui all’articolo 3, paragrafo 4, del regolamento (CE) n. 1467/97, ove applicabile» (art. 6).
Se il confronto testuale non fosse sufficientemente esplicativo, sarebbe utile poi richiamare il contenuto degli artt. 7 e 8 del regolamento (UE) 2024/1263, i quali impongono che la traiettoria di riferimento assicuri una riduzione dei rapporti debito/PIL e deficit/PIL secondo misure numericamente definite (ad esempio, di un punto percentuale del PIL, per i Paesi il cui rapporto debito/PIL sia superiore al 90%, e di 0,4 punti percentuali del PIL ai fini del miglioramento annuo del saldo primario strutturale).
Ora, se è vero che anche nella proposta della Commissione non poteva dirsi assente l’utilizzo di regole numeriche (cfr. il riferimento dell’Allegato 1, lett. c), al valore di riferimento di cui all’articolo 3 del regolamento (CE) n. 1467/97), il dato testuale che emerge dalla lettura del nuovo regolamento è certamente quello di una rinnovata fiducia nell’utilizzo di regole numeriche come strumento di governo dei processi economici nell’ambito dell’Unione, e infine in una attenzione ancora tutta rivolta a parametri quantitativi e non qualitativi. Ciò è peraltro dimostrato dalla scelta di non comprendere nella spesa netta la spesa per investimenti, giacché l’art. 2 del regolamento in commento qualifica quest’ultima come «la spesa pubblica al netto della spesa per interessi, delle misure discrezionali sul lato delle entrate, della spesa per i programmi dell’Unione interamente finanziata dai fondi dell’Unione, della spesa nazionale per il cofinanziamento di programmi finanziati dall’Unione, della componente ciclica della spesa per i sussidi di disoccupazione, delle misure una tantum e di altre misure temporanee».
Sempre nel senso di un irrigidimento rispetto alla proposta della Commissione sembrano porsi le disposizioni relative ai piani nazionali strutturali di bilancio di medio termine, i quali devono contenere un percorso di riduzione della spesa netta compatibile con il percorso di aggiustamento di quattro o cinque anni prorogabile di altri tre soltanto quando lo Stato membro si impegni «a realizzare una serie pertinente di riforme e di investimenti», le quali abbiano, fra gli altri, ad oggetto «i) una transizione equa, verde e digitale, compresi gli obiettivi climatici di cui al regolamento (UE) 2021/1119; ii) la resilienza sociale ed economica, compreso il pilastro europeo dei diritti sociali; iii) la sicurezza energetica; e iv) se necessario, lo sviluppo di capacità di difesa» (cfr. il rinvio dell’art. 14, par. 2 all’art. 13, lett. c). Come evidente, ciò ripropone un meccanismo, quello della condizionalità, le cui virtualità sono già ben note alle dinamiche istituzionali dell’Unione; in questo senso, l’art. 11, par. 5, sembra provare ad evitare una probabile opacizzazione del rapporto di responsabilità che lega il governo nazionale al giudizio del proprio corpo elettorale, prevedendo che «[c]iascuno Stato membro rende pubblico il proprio piano nazionale strutturale di bilancio di medio termine al momento della presentazione dello stesso al Consiglio e alla Commissione».
Tuttavia, con riferimento a tale previsione, possono sorgere dubbi sull’effettiva portata della partecipazione democratica nell’elaborazione piani garantita dalle regole europee: il procedimento descritto risulta infatti simile a quello dei PNRR, ed è del tutto evidente che, come nel caso di questi ultimi, la pubblicazione degli stessi nel momento della presentazione alle istituzioni europee (cioè con un testo già definito) non comporta una effettiva partecipazione dell’organo rappresentativo che sarà poi obbligato a darne seguito (sul caso del PNRR si consentito il rinvio allo scritto in tema in questo volume). Non è chiaro se la disposizione in oggetto debba essere intesa nel senso letterale ovvero come termine minimo (“almeno al momento della presentazione”); non si può non osservare, in ogni caso, che un eventuale dibattito pubblico in Parlamento sarebbe da ultimo demandato alla capacità autonoma, sul piano interno, delle diverse assemblee elettive di “catturare” e orientare l’azione del rispettivo Governo.
In tal senso, una possibile maggiore localizzazione delle decisioni relative ai piani al livello nazionale – in realtà da dimostrare, visto l’accresciuto livello di condizionalità – sembra coincidere con un significativo rafforzamento dell’esecutivo sul piano interno; rafforzamento del quale il testo in commento esprime una certa consapevolezza, come è dimostrato appunto dell’attenzione – almeno formale – rispetto alla predisposizione di meccanismi che rendano meno agevole per i governi nazionali l’abusivo utilizzo delle Istituzioni dell’Unione come scudo rispetto alla propria responsabilità politica.
3. Se nei commenti precedenti (qui, qui, nonché qui) avevamo tracciato nel dettaglio le novità introdotte può ora farsi un bilancio più generale sull’effetto delle riforme.
Nonostante l’esperienza della pandemia – e della crisi economica precedente – l’approccio di fondo al coordinamento delle politiche economiche nazionali non sembra cambiato: l’obiettivo della governance economica in Europa è quello di rendere asseritamente sostenibile il debito attraverso la riduzione della spesa, lasciando sullo sfondo il primario obiettivo della crescita che pure nel periodo pandemico aveva trovato spazio nel contesto europeo. Pur con la consapevolezza del contrasto tra gli obiettivi ambiziosi di Next Generation EU e il nuovo patto – che non si applica subito “al fine di non compromettere gli effetti positivi del dispositivo per la ripresa e la resilienza” (considerando n. 23 del regolamento sul braccio correttivo) – la scelta dei paesi europei appare quella di portare l’economia dei paesi ad alto debito verso ulteriori forme di rigore fiscale solo di qualche punto percentuale minori rispetto a quelle che si sarebbero generate sotto la vigenza del precedente OMT (si veda l’analisi dell’Ufficio Parlamentare di bilancio, p. 22, in cui si evidenziano le differenze in proiezione con il “vecchio” OMT e la nuova traiettoria basata sulla spesa: entrambe prevedono un saldo primario in crescita che arriva al 3% già all’inizio dei prossimi anni ‘30), dimenticando così gli insegnamenti della crisi sul (determinante) ruolo della BCE nella sostenibilità del debito, sugli squilibri della bilancia dei pagamenti (che non vengono innovati), nonché della pandemia sul ruolo degli investimenti pubblici.
A cambiare, invece, sono aspetti secondari, ma non per questo meno rilevanti.
In primis, a mutare è il parametro per determinare il percorso di aggiustamento, questione che pare creare diverse problematiche – sul piano interno rispetto ai criteri di calcolo dell’«equilibrio di bilancio» fissati dal legislatore nel 2012. Ciò non tanto nel novellato testo dell’art. 81 Cost., quanto, piuttosto, nella legge n. 243 del 2012 che disciplina – pur nel rinvio mobile al diritto dell’Unione – i parametri di bilancio rispetto a indicatori calcolati al lordo e non al netto della spesa per interessi. In tal senso la Corte dei conti, per quanto riscontri una generale compatibilità tra il novellato quadro europeo e le fonti interne, suggerisce di apportare specifiche modifiche tanto alla citata legge del 2012 (da approvare ai sensi della procedura ex art. 81 Cost. u.c.), quanto alla legge di contabilità n. 196 del 2009 (in tal senso si vedano i documenti prodotti dalla Corte dei conti nell’ottobre 2023, pp. 21-24, e nel maggio 2024, pp. 8-11).
Ulteriori cambiamenti riguardano poi la maggiore e più penetrante condizionalità dovuta ai programmi a lungo termine, nonché il rafforzamento delle sanzioni e dei parametri automatici, che rendono senz’altro il nuovo patto più “efficace”, “applicabile” e “sanzionabile”.
La riforma, in tal senso, può senz’altro apparire un «passo in avanti» rispetto allo status quo ante. Ma se è vero che, come riconosciuto dallo stesso legislatore europeo, un effetto della vigente governance economica è stato quello di una «crescente eterogeneità delle posizioni di bilancio, del debito pubblico e delle sfide economiche nonché delle altre vulnerabilità tra gli Stati membri» (regolamento n. 2024/1264, considerando n. 5), verrebbe ulteriormente da chiedersi se la destinazione impostata nel “pilota automatico” delle regole – tanto del “vecchio” quanto del “nuovo” patto – sia quella effettivamente auspicabile ovvero se fosse stato ancora una volta necessario fare un passo indietro o verso un’altra direzione.
Molto – o forse troppo poco – rumore per (quasi) nulla?