Il nuovo Governo israeliano: l’inizio della controrivoluzione costituzionale?
Ponendo fine ad una prolungata crisi politica, lo scorso 29 dicembre il primo ministro Benjamin Netanyahu ha presentato il suo nuovo Governo alla Knesset e la cerimonia di giuramento si è svolta nel pomeriggio dello stesso giorno. L’ultimo Esecutivo israeliano, guidato da Naftali Bennett e successivamente da Yair Lapid (in base alle nuove norme sui Governi di rotazione inserite nelle Basic Laws israeliane), è durato infatti solo 18 mesi. Durante questo periodo, nonostante i processi pendenti per corruzione e frode, Netanyahu è stato capo dell’opposizione, ponendosi, ancora una volta, come il vero centro della politica israeliana. Eletto per la prima volta Primo Ministro nel 1996, dopo 15 anni non consecutivi di Governo, è alla guida del suo sesto Gabinetto ed è il Premier più longevo della storia dello Stato ebraico.
Con ben 30 membri (di cui solo 5 donne), il nuovo Governo israeliano sarà il più numeroso di sempre e godrà di una solida maggioranza di 64 parlamentari (su 120). Seguendo la traiettoria politica degli ultimi decenni, il nuovo Governo sarà il più a destra della storia del Paese, dando a Netanyahu un Gabinetto relativamente omogeneo dal punto di vista ideologico e un potere senza precedenti a figure estremiste che, fino a poco tempo fa, erano percepite come destinate a rimanere ai margini della politica. Oltre, infatti, al Likud di Netanyahu e ai suoi alleati ultraortodossi Shas e UTJ, la coalizione di maggioranza comprende per la prima volta le formazioni di destra radicale Otzmà Yehudit, Hatzionut Hadatit e Noam. Per la prima volta, dunque – ed è questo un dato tanto paradossale quanto significativo – sarà Netanyahu l’elemento più moderato della propria coalizione, segnando, nella polarizzata e volatile politica israeliana, una grossa cesura con l’Esecutivo precedente di unità nazionale (la coalizione “rak lo Bibi”, “tutti fuorché Bibi”), che vedeva al suo interno anche un partito arabo (Ra’am).
La nuova omogeneità della coalizione, tuttavia, non garantisce necessariamente la stabilità. Nel corso delle negoziazioni, durate molto più del previsto, Netanyahu – che ha provato con insistenza a dipingersi all’opinione pubblica come un cuscinetto contro leader e formazioni ancora più a destra – ha spesso ceduto alle richieste dei suoi nuovi partner. Dai diritti delle donne al conflitto con i palestinesi, gli alleati di Netanyahu hanno una visione chiara del Paese e lo hanno costretto ad adottarne gran parte, almeno secondo gli accordi di coalizione che il nuovo Premier ha stipulato con i singoli partiti alleati. Il Primo Ministro ha infatti pubblicato i principi guida e l’agenda generale della sua nuova coalizione, promettendo costruzioni in tutto il Paese, compresa la Cisgiordania, e misure per “ripristinare l’equilibrio” tra il Parlamento, il Governo e la Corte Suprema, tema scottante dell’attualità istituzionale israeliana.
Nonostante le critiche del Procuratore Generale e della coalizione uscente, secondo cui le politiche previste dal nuovo Governo potrebbero “erodere la democrazia israeliana”, tra le linee guida pubblicate non è esplicitata alcuna volontà di preservare i valori e le istituzioni democratiche. Se da un lato Netanyahu ha dichiarato che “difenderà i valori democratici”, il suo partito Likud persegue apertamente una riforma giudiziaria che intende stravolgere gli esistenti checks and balances tra il Parlamento e la Corte Suprema e ha raggiunto un accordo con Otzmà Yehudit per emendare il comma 2 dell’art.7A della Basic Law sulla Knesset, che impedisce la candidatura al Parlamento israeliano per chi inciti al razzismo. Una analisi approfondita delle possibilità e delle prospettive future supera ampiamente i limiti di queste note, ma alcuni nodi strategici sono sufficienti a mostrare direzioni e implicazioni delle riforme proposte.
Così, se Netanyahu è riuscito a convincere il leader del sionismo religioso di estrema destra Bezalel Smotrich a rinunciare al portafoglio della difesa, il leader di Hatzionut Hadatit, tra i più accesi sostenitori dell’annessione della West Bank, diventerà comunque Ministro delle Finanze e avrà competenza esclusiva sull’Amministrazione Civile (entità che sovrintende alla costruzione, alle infrastrutture e al coordinamento della sicurezza in Cisgiordania) all’interno del Ministero della Difesa. Nonostante le pressioni internazionali, Netanyahu ha offerto al leader nazionalista di Otzmà Yehudit Itamar Ben-Gvir, la carica di Ministro della Pubblica Sicurezza, che assume la denominazione di Ministero della sicurezza Nazionale. Ha anche concesso a Aryeh Deri, leader del partito ultraortodosso Shas, la carica di Ministro della Salute e degli Interni, con l’accordo che dopo due anni di legislatura Deri assuma anche la carica di Ministro delle Finanze e Smotrich quella di Ministro degli Interni.
Proprio attorno a queste tre nomine ruotano due blitz legislativi da parte della maggioranza, avvenuti prima del giuramento e che hanno avuto lo scopo di modificare la Basic Law sul Governo. Il primo emendamento approvato (Basic Law: The Government (Amendment No. 11, P/81/25, K/942) concede a Smotrich di esercitare un ruolo indipendente all’interno del Ministero della Difesa, assegnandogli vaste competenze nell’area C della West Bank senza alcun controllo da parte del Governo. Contestualmente, lo “strappo” legislativo consentirà a Deri, – che è stato condannato a gennaio per evasione fiscale e ha patteggiato la pena per evitare l’interdizione dai pubblici uffici – di esercitare nuovamente il suo ruolo ministeriale. Il secondo blitz della maggioranza (Law to Amend the Police Ordinance (No. 37),P/80/25,K/943) permetterà invece a Itamar Ben-Gvir (condannato in passato per atti di violenza ed istigazione all’odio razziale) di assumere il nuovo ruolo di Ministro della Sicurezza Nazionale, ampliando le competenze del Ministero, che ora controllerà anche la polizia di frontiera in Cisgiordania. Si tratta di tre modifiche politico-istituzionali di grande rilievo, che stanno suscitando pesanti critiche da parte dell’opinione pubblica internazionale. Cresce infatti la preoccupazione per la tenuta democratica dell’ordinamento israeliano, che mostra chiaramente un arretramento della rule of law e rischia di configurarsi come perfetto caso da laboratorio per gli studiosi di constitutional degeneration.
Peraltro, Netanyahu è attualmente sotto processo per tre diversi capi di imputazione. Non è dunque un caso che uno degli obiettivi principali della nuova coalizione sia quello di modificare le prerogative della Corte Suprema, in particolare attraverso l’approvazione della cosiddetta override clause. Si tratta di una riconfigurazione costituzionale che cambierebbe radicalmente l’equilibrio di potere tra il potere giudiziario e quello legislativo. La nuova norma, infatti, consentirebbe ad una maggioranza di 61 membri della Knesset di scavalcare il potere giudiziario e approvare leggi in contrasto con le Leggi Fondamentali del paese, limitando in modo critico le prerogative di controllo e garanzia della Corte Suprema.
Un’altra priorità per gli alleati di estrema destra di Netanyahu è rendere più difficile, per i gruppi a difesa dei diritti umani, presentare ricorsi alla Corte – che funge da Alta Corte di giustizia – contro le azioni del Governo. Della Corte, inoltre, il Likud vuole cambiare la composizione, attualmente quasi equamente divisa tra liberali e conservatori. La coalizione potrebbe raggiungere l’obiettivo abbassando l’età di pensionamento obbligatoria dei giudici e dando al Governo un maggiore controllo sulla nomina dei Giudici. A questo proposito, il Primo Ministro uscente Yair Lapid ha accusato il Governo entrante di “trascinare il Paese in una pericolosa spirale antidemocratica” e di minare lo stato di diritto “per motivi personali”. Le proposte di riforma del sistema giudiziario, tra cui l’imposizione di limiti al locus standi – e l’emanazione di una override clause, avrebbero realisticamente un grave impatto sulla società civile e soprattutto sui delicati e vitali rapporti tra gli enti e le istituzioni governative. Il colpo sarebbe più duro per le organizzazioni a tutela dei gruppi vulnerabili – chi vive al di sotto della soglia di povertà, gli anziani, le donne e le persone con disabilità – i cui diritti sono assai spesso stati riconosciuti o tutelati nelle sentenze della Corte Suprema, in risposta ai ricorsi presentati dalle organizzazioni della società civile.
Sul tema dei rapporti tra Stato e religione, va poi segnalata la controversa nomina del politico anti-LGBT Avi Maoz (leader di Noam), posto ora a capo del dipartimento – all’interno della Presidenza del Consiglio – che sovrintende all’”identità ebraica”, con riconosciuti settori di competenza – come la responsabilità della programmazione scolastica – e pericolose possibilità di oltrepassarli. Infine, sono da menzionare le forti spinte dei partiti ultraortodossi (Shas e UTJ) per modificare gli attuali equilibri in relazione ai fondi per le scuole rabbiniche (yeshivot), le disposizioni relative alle preghiere al Muro del Pianto, e sullo scottante tema della coscrizione militare per i giovani ultraortodossi. Sebbene si tratti ancora di una proposta, il fronte ultraortodosso ha addirittura ipotizzato di modificare la “Law prohibiting discrimination in products, services and entry to places of entertainment and public places” (anche nota come Anti-discrimination law), con conseguenze potenzialmente gravissime circa i diritti civili delle minoranze. Su ulteriori e preoccupanti proposte – come quelle di Simchà Rothman e Orit Strock – non è possibile, per ragioni di spazio, soffermarsi analiticamente: tutte, peraltro, segnalano un chiaro peggioramento delle garanzie costituzionali in termini di principio di uguaglianza. Da sottolineare, infine, le possibili modifiche restrittive alla Legge del Ritorno, dalla portata fortemente simbolica, e quelle sulle conversioni, chieste a gran voce da Smotrich. Processi di grande chiusura che segnerebbero non solo una frattura identitaria profonda nei rapporti tra Israele e le correnti ebraiche non ortodosse, soprattutto statunitensi, ma che – ancora più significativamente – manifestano una drammatica inversione rispetto alle aspirazioni costituzionali dello Stato di Israele, “democratico ed ebraico”, e che potrebbero condurre – complice un simile processo di arretramento costituzionale – a una riconfigurazione del rapporto ideale e culturale fra lo Stato di Israele e segmenti importanti della diaspora ebraica.
Con le (deboli) opposizioni che alzano le barricate, e le numerose manifestazioni di piazza, c’è tuttavia ancora molta incertezza su quel potrà essere la reale traiettoria di riforme della nuova maggioranza, che, almeno in parte, si troverà imbottigliata tra real politik e necessità costituzionali. Tuttavia, alcune delle riforme fin qui evidenziate, a partire da quella – centrale – circa il potere giudiziario, su cui sembrano convergere tutte le anime della maggioranza, sono preoccupanti e hanno il potenziale per portare ad una revisione completa del sistema costituzionale israeliano di checks and balances.
Qualora la riforma dovesse essere effettivamente portata avanti nei termini annunciati, ciò porterà a una concentrazione di potere nelle mani dell’Esecutivo mai vista prima, senza il necessario ruolo di controllo e garanzia che la Corte ha finora esercitato, e senza alcuna tutela dei diritti delle minoranze. Le ipotesi di riforma costituzionale del complesso e delicato status quo tra Stato e Religione, nel combinato disposto con le norme relative alla cittadinanza e alla giurisdizione in West Bank, non sembrano essere meno allarmanti, ma anzi capaci di modificare profondamente la teoria dello Stato israeliano e di logorare le sue istituzioni democratiche, segnalando un progressivo deterioramento costituzionale dell’ordinamento e uno scivolamento di Israele verso un paventato modello di democrazia etnica se non addirittura di etnocrazia.
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