Il “miglio verde”: note a prima lettura alla sentenza “Hirsi”

Nei primi giorni del mese di maggio del 2009, circa 200 persone salpano clandestinamente dalle coste libiche su tre imbarcazioni di fortuna per raggiungere le coste italiane. Tra di loro ci sono 11 cittadini somali e 13 eritrei che, in questo modo, cercano di raggiungere il territorio del nostro paese al fine di richiedere asilo. Il 6 maggio le imbarcazioni si trovano a circa 35 miglia marine a sud di Lampedusa, in acque maltesi, quando vengono raggiunte da tre ammiraglie della guardia di finanza che, intercettate le imbarcazioni, le riconducono al porto di Tripoli dopo aver fatto salire a bordo tutti i passeggeri, senza però porre in essere alcuna procedura di identificazione. Dopo 10 ore di navigazione, le ammiraglie giungono al porto di Tripoli dove costringono con la forza i migranti a scendere dalla banchina e, in questo modo, li affidano alle autorità di pubblica sicurezza libiche, così come stabilito dal trattato internazionale stipulato tra i due paesi il 29 dicembre del 2007.

L’articolo 2 di questo accordo bilaterale, infatti, prevede che:

“L’Italie et la Grande Jamahiriya [la Repubblica popolare socialista della Libia] s’engagent à organiser des patrouilles maritimes à l’aide de six navires mis à disposition, à titre temporaire, par l’Italie. A bord des navires seront embarqués des équipages mixtes, formés de personnel libyen ainsi que d’agents de police italiens, aux fins de l’entraînement, de la formation et de l’assistance technique pour l’utilisation et la manutention des navires. Les opérations de contrôle, de recherche et de sauvetage seront conduites dans les lieux de départ et de transit des embarcations destinées au transport d’immigrés clandestins, tant dans les eaux territoriales libyennes que dans les eaux internationales, dans le respect des conventions internationales en vigueur et selon les modalités opérationnelles qui seront définies par les autorités compétentes des deux pays”.

Al riguardo, bisogna ricordare che, successivamente alla ratifica del trattato bilaterale, il 4 febbraio del 2009 i due paesi avevano firmato anche un protocollo addizionale al testo dell’accordo, protocollo questo che specificava nel dettaglio le modalità di cooperazione tra Italia e Libia ai fini della lotta contro l’immigrazione clandestina nel mediterraneo. Ai sensi del suddetto protocollo addizionale:

“Les deux pays s’engagent à organiser des patrouilles maritimes avec des équipages communs formés de personnel italien et de personnel libyen, équivalents en nombre, expérience et compétence. Les patrouilles opèrent dans les eaux libyennes et internationales sous la supervision de personnel libyen et avec la participation d’équipages italiens, et dans les eaux italiennes et internationales sous la supervision de personnel italien et avec la participation de personnel libyen. […] Les deux pays s’engagent à rapatrier les immigrés clandestins et à conclure des accords avec les pays d’origine pour limiter le phénomène de l’immigration clandestine”.

Gli 11 cittadini somali ed i 13 eritrei intercettati nelle acque internazionali e fatti ritornare sul territorio libico dalle forze dell’ordine italiane ricorrono alla Corte di Strasburgo, anche se due di loro, Mohamed Abukar Mohamed e Hasan Shariff Abbirahman, muoiono nelle carceri libiche per circostanze sconosciute anche ai loro difensori. I ricorrenti eccepiscono la violazione degli articoli 3 e 13 della CEDU, oltre che dell’articolo 4 del quarto protocollo alla Convenzione davanti alla Grande Chambre. Tuttavia la Corte di Strasburgo è chiamata a verificare, in via preliminare, se effettivamente la fattispecie de quo possa essere ricondotta nell’ambito della giurisdizione italiana, ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione.

I giudici, al paragrafo 81 della sentenza, rilevano come i fatti oggetto del giudizio si siano interamente svolti a bordo di navi italiane, il cui equipaggio era composto esclusivamente da militari italiani. Pertanto, ad avviso della Corte, “ … à partir du moment où ils sont montés à bord des navires des forces armées italiennes et jusqu’à leur remise aux autorités libyennes, les requérants se sont trouvés sous le contrôle continu et exclusif, tant de jure que de facto, des autorités italiennes. Aucune spéculation concernant la nature et le but de l’intervention des navires italiens en haute mer ne saurait conduire la Cour à une autre conclusion”.

Per quanto concerne la violazione dell’articolo 3 della CEDU da parte dell’Italia, la Corte pur rilevando che gli Stati che si trovano alle frontiere esterne della UE hanno affrontato, soprattutto negli ultimi anni, delle difficoltà considerevoli nel gestire i flussi migratori e nell’accogliere le richieste di protezione internazionale dei richiedenti asilo – anche alla luce della recente crisi economica -, tuttavia afferma che il carattere assoluto della disposizione in questione, non esonera gli Stati membri del Consiglio d’Europa dal rispettare gli obblighi che discendono dalla suddetta norma. La Libia, del resto, non ha mai dato attuazione alla Convenzione di Ginevra per il riconoscimento dello status giuridico dei rifugiati e anche se è presente un ufficio dell’UNHCR a Tripoli, le autorità libiche non hanno mai fornito garanzie di tutela effettiva dei diritti umani in questo ambito.

Sottolinea, infatti, la Corte al paragrafo 125 della sentenza : “… toutes les personnes entrées dans le pays par des moyens irréguliers étaient considérées comme des clandestins, sans distinction aucune entre les migrants irréguliers et les demandeurs d’asile. En conséquence, ces personnes étaient systématiquement arrêtées et détenues dans des conditions que les visiteurs extérieurs, telles les délégations du HCR, de Human Rights Watch, et d’Amnesty International, n’hésitent pas à qualifier d’inhumaines. […] La Cour relève une fois encore que cette réalité était notoire et facile à vérifier à partir de sources multiples. Dès lors, elle estime qu’au moment d’éloigner les requérants, les autorités italiennes savaient ou devaient savoir que ceux-ci, en tant que migrants irréguliers, seraient exposés en Libye à des traitements contraires à la Convention et qu’ils ne pourraient accéder à aucune forme de protection dans ce pays”.

In pratica, dando esecuzione all’accordo bilaterale stipulato con la Libia, l’Italia avrebbe violato il principio di “non refoulement” nei confronti di coloro che, tra gli imbarcati, avrebbero potuto fare richiesta d’asilo, una volta giunti sul nostro territorio. Questi ultimi, invece, una volta soccorsi in mare, per fini in realtà di contrasto dell’immigrazione clandestina, sono stati condotti dalle autorità italiane sul territorio di un paese terzo in cui il principio di “non refoulement” – che la Corte, tra l’altro, ricorda essere stato riconosciuto e garantito a livello europeo anche all’articolo 19 della Carta di Nizza -, viene sistematicamente violato.

Per questo motivo, i giudici di Strasburgo giungono alla conclusione che nel caso de quo “… existait un risque réel pour les intéressés de subir en Libye des traitements contraires à l’article 3. [… L]a Cour estime qu’au moment de transférer les requérants vers la Libye, les autorités italiennes savaient ou devaient savoir qu’il n’existait pas de garanties suffisantes protégeant les intéressés du risque d’être renvoyés arbitrairement dans leurs pays d’origine, compte tenu notamment de l’absence d’une procédure d’asile et de l’impossibilité de faire reconnaître par les autorités libyennes le statut de refugié octroyé par le HCR. […] Elle rappelle encore une fois qu’il revenait aux autorités italiennes de s’enquérir de la manière dont les autorités libyennes s’acquittaient de leurs obligations internationales en matière de protection des refugiés”.

La Corte è chiamata altresì ad accertare la violazione dell’articolo 4 del quarto protocollo alla Convenzione, il quale stabilisce che “Les expulsions collectives d’étrangers sont interdites”. Nell’affare Henning Becker c. Danemark (n. 7011/75 del 3 ottobre 1975), i giudici di Strasburgo ebbero per la prima volta modo di dare una definizione del concetto giuridico di “expulsion collective d’étrangers”, definendole come “… toute mesure de l’autorité compétente contraignant des étrangers, en tant que groupe, à quitter un pays sauf dans les cas où une telle mesure est prise à l’issue et sur la base d’un examen raisonnable et objectif de la situation particulière de chacun des étrangers qui forment le groupe”.

Tuttavia, in questo giudizio, la Corte è chiamata per la prima volta ad esaminare la questione dell’applicabilità del suddetto articolo della Convenzione al caso di un allontanamento di stranieri verso uno Stato terzo, effettuato al di fuori del territorio nazionale. In realtà, la questione dal punto di vista giuridico risulta essere di semplice soluzione, non soltanto perché la disposizione in oggetto – seguendo un’interpretazione di tipo letterale – non fa alcun riferimento al territorio nazionale, ma anche perché, alla luce di un’interpretazione teleologica del testo della Convenzione, “… le but de l’article 4 du Protocole no 4 est d’éviter que les Etats puissent éloigner un certain nombre d’étrangers sans examiner leur situation personnelle et, par conséquent, sans leur permettre d’exposer leurs arguments s’opposant à la mesure prise par l’autorité compétente”.

Poiché i giudici hanno già precedentemente rilevato la competenza della giurisdizione italiana ai sensi dell’articolo 1 della CEDU, allora risulta logico ritenere che “… les éloignements d’étrangers effectuées dans le cadre d’interceptions en haute mer par les autorités d’un Etat dans l’exercice de leurs prérogatives de puissance publique, et qui ont pour effet d’empêcher les migrants de rejoindre les frontières de l’Etat, voire de les refouler vers un autre Etat, constituent un exercice de leur juridiction au sens de l’article 1 de la Convention, qui engage la responsabilité de l’Etat en question sur le terrain de l’article 4 du Protocole no 4”.

Per quanto riguarda, infine, la violazione dell’articolo 13 della Convenzione, letto in combinato disposto con gli articoli 3 e 4 del protocollo quarto alla CEDU, la Corte rileva che i ricorrenti che potevano richiedere asilo politico in Italia, non hanno avuto la possibilità di accedere ad alcuna procedura aministrativa, né tanto meno giudiziaria, finalizzata alla loro identificazione e a verificare la loro situazione personale, prima dell’espulsione/trasferimento verso le coste libiche. Al riguardo, i giudici di Strasburgo citando il loro importante precedente M. S. S. contro Belgio e Grecia, affermano che “… le défaut d’information constitue un obstacle majeur à l’accès aux procédures d’asile. Elle réitère ici l’importance de garantir aux personnes concernées par une mesure d’éloignement, mesure dont les conséquences sont potentiellement irréversibles, le droit d’obtenir des informations suffisantes leur permettant d’avoir un accès effectif aux procédures et d’étayer leurs griefs” (paragrafo 206). Pertanto i giudici di Strasburgo rilevano anche questa ulteriore violazione della CEDU.

A conclusione della nostra analisi, ci limitiamo a riportare alcuni commenti apparsi sulla carta stampata nei giorni successivi alla pubblicazione della sentenza. Ad avviso dell’ex Ministro dell’interno, Roberto Maroni, quella della Corte di Strasburgo sarebbe “una sentenza politica” che metterebbe in serio pericolo il sistema di sicurezza e protezione nazionale ed internazionale contro l’immigrazione clandestina. Maroni ha poi dichiarato di non essere affatto pentito degli accordi stipulati con la Libia sui respingimenti degli immigrati: ”Rifarei esattamente quello che ho fatto” – ha dichiarato l’ex ministro in una conferenza stampa – “salvando molte vite umane e garantendo la sicurezza dei cittadini”.
Ad avviso dell’euro-deputato della Lega Nord, Mario Borghezio, invece, “Questa sentenza offende tutto il nostro Paese. La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo continua a fare giurisprudenza unidirezionale in base agli stereotipi del «politicamente corretto» e non certo su basi giuridiche fondate e su un esame serio ed obiettivo dei fatti”. Secondo un altro euro-parlamentare leghista, Matteo Salvini, “la sentenza pro-clandestini della Corte di Strasburgo è follia: qualcuno odia i cittadini europei e fa di tutto per agevolare immigrazioni di massa”.

Ben diverso invece è stato il commento rilasciato alle agenzie di stampa da Amnesty International: “La sentenza di oggi è una pietra militare perché rafforza e favorisce il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali in Europa e pone fine alle misure extraterritoriali di controllo delle migrazioni che non contemplano l’identificazione delle persone che gli stati sono invece obbligati a proteggere. Il verdetto – ha poi proseguito il portavoce dell’associazione per i diritti umani – si pone come un argine di fronte alla disponibilità dell’Italia a cooperare con un governo che era conosciuto per la violazione sistematica dei diritti umani. Respingere migranti e richiedenti asilo in Libia, nonostante fossero ampiamente conosciuti i rischi cui sarebbero andati incontro, è stata una politica priva di scrupoli”.

Ad avviso di chi scrive, c’è poco da aggiungere a quanto la Corte di Strasburgo ha avuto modo di affermare in questa sua importante e bella sentenza: sarebbe superfluo ricordare al lettore che la Libia era, fino a pochi mesi fa, una delle peggiori dittature esistenti in Africa, se non addirittura nel mondo. Sarebbe del resto anche antipatico ricordare le proteste di quanti, attivisti e avvocati, in passato si erano opposti alla stipulazione prima e all’esecuzione dopo del famoso “accordo di amicizia” tra Italia e Libia, un accordo palesemente in contrasto con il diritto internazionale generalmente riconosciuto, oltre che con una serie di convenzioni e di trattati, tra cui la stessa CEDU, a tutela dei diritti umani. Ad oggi, tuttavia, la vigenza di questo accordo non sembra ancora essere stata sospesa, né risulta esserci stata una richiesta formale in questo senso da parte di uno dei due Stati contraenti: ed è forse proprio a partire da questo dato di fatto che bisognerebbe incominciare a ragionare sui motivi per cui l’Italia è stata condannata dalla Corte di Strasburgo.