“Il meglio deve ancora venire”. La sentenza sull’autodichia e la “dissenting opinion” del giudice Amato
Con la recente sentenza n. 262 del 2017 – adottata in sede di conflitto di attribuzione fra poteri – la Corte costituzionale è tornata sul tema dell’autodichia, già oggetto delle sentenze n. 154 del 1985 e 120 del 2014.
Nei primi commenti, la decisione della Corte è stata interpretata in una ottica di sostanziale continuità rispetto alla precedente giurisprudenza costituzionale (cfr. R. Dickmann, La Corte costituzionale consolida l’autodichia degli organi costituzionali, in Federalismi, 2017; N. Lupo, Sull’autodichia la Corte Costituzionale, dopo lunga attesa, opta per la continuità, in Forum Quad. cost., 2017). Si tratta di una possibile – e in larga parte condivisibile – lettura della sentenza n. 262 che la stessa Corte costituzionale aveva peraltro cercato di “smorzare” fin dal giorno del deposito, dando diffusione ad un comunicato stampa dal titolo “Autodichia. I paletti della Corte costituzionale” (https://www.cortecostituzionale.it/documenti/comunicatistampa/CC_CS_20171213125140.pdf).
Già questa sfumatura fra la lettura della pronuncia “suggerita” dal comunicato stampa della Corte e i toni dei titoli apparsi nelle note di commento alla sentenza consente di introdurre un primo rilevante elemento di riflessione. Tutta la vicenda che ha accompagnato e seguito la decisione sull’autodichia segnala un significativo mutamento nello stile comunicativo della Corte e dei suoi giudici e in particolare un uso “tattico” del potere esternatorio. Una tendenza che, non a caso, sembra maturare in un contesto attraversato da forti venti di “anti-politica”, i quali rischiano talvolta di trovare una sponda, sia pure involontariamente, nella stessa Corte.
Per comprendere il sofferto itinerario di questo conflitto interoganico – il quale ha avuto il suo apogeo nella decisione del giudice relatore (Amato) di lasciare ad un altro componente della Corte (Zanon) l’onere di redigere la sentenza – è tuttavia necessario fare un passo indietro.
Il 19 giugno 2017, in occasione della presentazione presso la sala Zuccari del Senato del Quaderno 2015-2016 del Filangieri (V. Lippolis – N. Lupo (cur.), Il Parlamento dopo il referendum costituzionale, Napoli, Jovene, 2017), Giuliano Amato aveva avuto modo di intervenire sulla questione dell’autodichia, della quale era, come detto, relatore nell’ambito del conflitto poi risolto dalla sentenza n. 262.
Si tratta – riporto integralmente le parole del giudice costituzionale – di «un tema delicato e difficile nel quale si intravede lo schema già utilizzato dalla Corte per l’immunità parlamentare, che viene riconosciuta laddove si coglie un nesso funzionale evidente con le funzioni primarie delle Camere coperte dall’autonomia e non invece laddove questo nesso non è altrettanto diretto» (per il video del seminario, cfr. http://www.radioradicale.it/scheda/512121/il-parlamento-dopo-il-referendum-costituzionale, in particolare i minuti 29-32).
Nel proseguo dell’intervento, il giudice Amato non aveva nascosto le implicazioni di questo conflitto rispetto alla tenuta degli istituti di giustizia domestica degli altri organi costituzionali, incluso il sistema di autodichia della stessa Corte costituzionale. La Consulta – sottolineava Amato – «dovrà trattare sé stessa esattamente come gli altri organi costituzionali».
Infine, il giudice Amato auspicava una tempestiva iniziativa delle Camere sul tema della giustizia domestica allo scopo di evitare l’intervento della Corte, da considerarsi quale «extrema ratio». Evidentemente, Amato non si era spinto fino al punto di tratteggiare i possibili contenuti di tale riforma. È tuttavia senz’altro significativa la posizione favorevole al superamento dello status quo espressa pubblicamente dal giudice relatore. Un “endorsment” che del resto appariva coerente con il monito implicito contenuto nella sentenza redatta dallo stesso Amato nel 2014, nella quale la Corte – facendo ricorso all’argomento comparativo – aveva rilevato che «negli ordinamenti costituzionali a noi più vicini, come Francia, Germania, Regno Unito e Spagna, l’autodichia sui rapporti con i dipendenti e sui rapporti con i terzi non è più prevista» (considerato in diritto 4.4., sent. n. 120 del 2014 Corte cost.).
La distanza fra questa impostazione e quella accolta dalla sent. n. 262 – oltre a confermare le divisioni all’interno del collegio – spiega le ragioni della mancata coincidenza fra giudice redattore e giudice relatore.
La sentenza n. 262 ha infatti riconosciuto alle Camere il potere di decidere, tramite gli organi di autodichia, le controversie di lavoro dei propri dipendenti. Secondo la Corte, l’autonomia normativa del Parlamento appare investire anche i profili organizzativi, inclusi gli aspetti relativi al funzionamento degli apparati serventi. Peraltro – e sembrerebbe essere questo l’unico vero “paletto” tracciato dalla Corte – «l’autonomia normativa qui in questione ha un fondamento che ne rappresenta anche il confine: giacché, se è consentito agli organi costituzionali disciplinare il rapporto di lavoro con i propri dipendenti, non spetta invece loro, in via di principio, ricorrere alla propria potestà normativa, né per disciplinare rapporti giuridici con soggetti terzi, né per riservare agli organi di autodichia la decisione di eventuali controversie che ne coinvolgano le situazioni soggettive (si pensi, ad esempio, alle controversie relative ad appalti e forniture di servizi prestati a favore delle amministrazioni degli organi costituzionali)».
Chi scrive non concorda né con il “lodo Zanon” accolto dalla Corte né con l’assimilazione dell’autodichia a ipotesi di applicazione dell’istituto immunitario in assenza di nesso funzionale. Entrambe le impostazioni – sebbene giungendo a conclusioni opposte circa la compatibilità dell’autodichia con la Costituzione – sembrano infatti trascurare il nodo della fonte chiamata a dare copertura e a regolare il sistema di giustizia domestica delle Camere. Se l’art. 111, c. 1 Cost. stabilisce che «la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge», e se il concetto di “riserva di legge” coincide sostanzialmente con quello di “riserva di fonte sindacabile dalla Corte costituzionale” – come autorevolmente affermato in dottrina (S. Fois, Norme anteriori e riserva di legge, in Giur. cost., 1968, 1071 ss.) – l’autodichia non può allora essere disciplinata dai Regolamenti minori secondari, ossia da fonte insindacabile. Tutt’al più può ipotizzarsi una copertura dell’autodichia delle Camere in una norma di legge e l’implementazione della disciplina relativa ai procedimenti di giustizia domestica nei Regolamenti minori. In quest’ultimo caso, un sindacato “indiretto” della Corte sulle norme processuali contenute nei Regolamenti minori sarebbe comunque possibile attraverso la dichiarazione di incostituzionalità della legge ordinaria nella parte in cui non subordina l’abilitazione normativa in favore dei Regolamenti minori al rispetto di principi processuali inderogabili.
Nel commentare la storica sentenza n. 154 del 1985, Giuseppe Floridia aveva pronosticato un “finale di partita” per la questione dell’autodichia (G.G. Floridia, “Finale di partita”, in Diritto processuale amministrativo, 2, 1986, 270 ss.). A dire il vero, neppure la sentenza n. 262 del 2017 può essere considerata come la tappa conclusiva di questo filone giurisprudenziale. Al contrario, mi vado convincendo, per prendere in prestito il titolo di un noto brano musicale, che il meglio debba ancora venire. Il sistema di giustizia domestico della Corte costituzionale – il quale prevede, sia pure in seconda battuta, il coinvolgimento della Corte in composizione ordinaria, e dunque anche dei membri dell’Ufficio di presidenza – appare in frontale contrasto con i principi enunciati dalla Corte EDU nella sentenza Savino. Questi ultimi sono stati infatti recepiti dalla Camera dei deputati ma non ancora dalla Corte costituzionale (si perdoni il rinvio a R. Ibrido, In direzione ostinata e contraria. La risposta della Corte alla dottrina della sindacabilità dei regolamenti parlamentari, in Rivista AIC, 2014, spec. 15). Se così stanno le cose – a seguito di un ipotetico ricorso di un dipendente della Corte costituzionale – sarebbe altamente probabile la condanna dell’Italia per violazione dell’art. 6 della Convenzione. Ecco dunque un possibile e certamente non auspicabile “finale di partita”, il quale se da un lato getta un’ombra sul sistema di giustizia domestica della Corte, e quindi sulla stessa “credibilità” della sentenza n. 262 del 2017, dall’altro non esime il Parlamento dal fare la propria parte. Da qui, in particolare, la necessità di ripensare il modello di autodichia delle Camere alla luce della “riserva di fonte sindacabile” contenuta nell’art. 111, c. 1 Cost.
Non era la sala Zuccari di palazzo Giustiniani, ma la sala della lupa di palazzo Montecitorio.