Il matrimonio tra persone dello stesso sesso a Strasburgo
Con la sentenza Schalk and Kopf c. Austria, ricorso n. 30141/04, resa il 24 giugno 2010 (e dunque, al momento, non ancora definitiva, essendo possibile un ricorso alla Grande camera), la Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata sulla controversa e quanto mai attuale questione del diritto delle persone dello stesso sesso a contrarre matrimonio. I ricorrenti lamentavano, in particolare, la violazione dell’art. 12 (diritto al matrimonio), nonché dell’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) in combinato con l’art. 14 (divieto di discriminazione) della Convenzione, da parte di una legislazione nazionale che riconosce il diritto di sposarsi soltanto a persone di sesso diverso (art. 44, cod. civ. austriaco). Da notare, tra l’altro, che nel momento in cui il ricorso fu introdotto alla Corte di Strasburgo, non era ancora entrata in vigore, in Austria, la legge sulle unioni registrate (Eingetragene Partnerschaft-Gesetz), la quale, a partire dal 1° gennaio 2010, attribuisce alle coppie omosessuali il diritto di accesso ad una forma di riconoscimento giuridico (e con esso ad una serie di tutele) comunque non assimilabile all’istituto matrimoniale.
La Corte rigetta il ricorso dei cittadini austriaci, ritenendo all’unanimità insussistente la violazione dell’art. 12 e parimenti insussistente, ma con una maggioranza di quattro voti contro tre, la violazione degli artt. 8 e 14, congiuntamente considerati.
La lettura del dispositivo non deve trarre in inganno: se già il voto a maggioranza sulla seconda delle due violazioni invocate (ve n’era, in realtà anche una terza, riferita alla lesione dell’art. 1, prot. n. 1, rigettata in quanto inammissibile) può essere considerata indice dell’elevato grado di controvertibilità della decisione, la lettura della motivazione offre una serie amplissima (e certo qui non esauribile) di spunti di riflessione.
In questa sede ci si limita ad osservare come, nel respingere l’eccezione di asserita violazione del diritto a contrarre matrimonio, la Corte fa leva tanto su argomenti di ordine letterale e sistematico (utilizzo, nell’art. 12, del termine “uomo” e “donna” contrapposto all’utilizzo, nell’articolato della Convenzione, dei termini “ciascuno” o “nessuno”) quanto su argomenti legati all’original intent del legislatore convenzionale (con argomentare – sia detto per inciso – che ricorda da vicino quello del nostro giudice costituzionale nella sentenza 138 del 2010), nonché su argomenti di carattere comparato, attraverso il riferimento (anche quantitativo) agli Stati parte della Convenzione nei quali sono previste forme di riconoscimento (di natura matrimoniale o meno) delle unioni omosessuali. Anzi, è proprio dall’analisi comparata delle soluzioni adottate nei singoli ordinamenti che la Corte ricava la conclusione della carenza, allo stato attuale, di uno “European consensus” sul punto del riconoscimento del diritto al matrimonio, deducendo dal difetto di tale idem sentire la (persistente) esistenza di un ampio margine di apprezzamento in capo ai legislatori nazionali.
Tuttavia, la Corte non si ferma qui e afferma che l’art. 12 della CEDU deve essere letto anche alla luce dell’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: “[r]egard being had to Article 9 of the Charter […], the Court would no longer consider that the right to marry enshrined in Article 12 must in all circumstances be limited to marriage between two persons of the opposite sex”. La strada è ancora lunga, perché “the question whether or not to allow same-sex marriage is left to regulation by the national law of the Contracting State”, ma un piccolo passo in avanti è, forse, stato compiuto.
Analogo discorso può farsi con riferimento alla presunta violazione dell’art. 8, in combinazione con l’art. 14. Fino ad oggi la Corte di Strasburgo aveva considerato le relazioni omosessuali tutelabili ai sensi dell’art. 8 in quanto riconducibili al campo della protezione del diritto al rispetto della “vita privata”, ma non della “vita familiare”. Oggi la Corte afferma che “a rapid evolution of social attitudes towards same-sex couples has taken place in many member States” e che “a considerable number of member States have afforded legal recognition to same-sex couples”. Alla luce di tale evoluzione la Corte ritiene “artificial to maintain the view that, in contrast to a different-sex couple, a same-sex couple cannot enjoy “family life” for the purposes of Article 8”, cosicché “the relationship of the applicants, a cohabiting same-sex couple living in a stable de facto partnership, falls within the notion of “family life”, just as the relationship of a different-sex couple in the same situation would”.
Certo, anche in questo caso a mutare è soltanto la premessa del ragionamento, rimanendo invariata la sua conclusione (nel senso – si ripete – dell’insussistenza della violazione invocata). Gli Stati conservano, infatti, un’ampia discrezionalità non solo nella scelta di fondo in ordine all’apertura dell’istituto matrimoniale alle coppie omosessuali, ma anche nella definizione dei tempi di riconoscimento e del contenuto della tutela alternativa. Ma non è escluso che, in un futuro fors’anche prossimo, il cammino compiuto da molti degli Stati contraenti non finisca per andare a formare quello European consensus che obbligherà gli altri ad innalzare il livello di protezione. Né può escludersi che, in un futuro ancora più prossimo, la Grande camera (se adita), ribalti la decisione della Sezione.