Il margine di apprezzamento nella questione Crocifisso
Il ricorso al margine di apprezzamento da parte della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo è dai suoi esordi al centro dell’attenzione della dottrina per diverse questioni che lo stesso suscita. Ne ho selezionato alcune: come incide il margine di apprezzamento sull’intensità di protezione accordata ai diritti? è uno strumento posto esclusivamente a salvaguardia della sovranità statale oppure assolve a finalità inerenti alla natura stessa della Convenzione? Come valutare l’assenza di criteri e standards uniformi nella sua applicazione? Il riferimento al margine di apprezzamento chiude definitivamente la conversazione costituzionale su una questione stabilendo la vittoria di una posizione o l’altra?
La cosiddetta questione crocifisso, di durata ormai decennale, il cui ultimo capitolo è rappresentato dalla nota decisione Lautsi II, del 18 marzo 2011, si presenta come un punto di osservazione privilegiato e molto attuale per cercare di dare risposta ai quesiti in esame.
1) Partirò dalla prima questione: come incide il margine di apprezzamento sull’intensità di protezione accordata ai diritti?
Nel caso della questione crocifisso la risposta è nel senso che esso non incide. Infatti, il ricorso al margine di apprezzamento non esime la Corte EDU dal fare un preciso accertamento sulla violazione dell’art. 9 della convenzione e dell’art. 2 del I Protocollo. Il margine di apprezzamento è usato dalla Corte come secondo argomento, una volta che la stessa ha appurato che non c’è alcuna sostanziale lesione di nessun diritto della Convenzione in quanto il crocifisso è un simbolo passivo inidoneo ad offendere.
2) Riguardo alla seconda questione – è il margine di apprezzamento uno strumento posto esclusivamente a salvaguardia della sovranità statale oppure assolve a finalità inerenti alla natura stessa della Convenzione? – anche qui il caso esaminato ci consente di dire che non c’è un puro e semplice abdicare della Corte alla sovranità statale. Al punto 68 della sentenza la Corte scrive: “la decisione se perpetuare o no una tradizione rientra, in linea di principio, dentro il margine di apprezzamento della stato rispondente” (punto 68). Quindi sembrerebbe che la Corte abdichi in toto. Tuttavia, subito dopo emerge che questa affermazione non è un’adesione incondizionata né alla sovranità statale, né al ricorso del Governo che aveva sostenuto l’argomento culturale. Innanzitutto, il ricorso al margine di apprezzamento è motivato con il classico consensus standard (Handyside v. UK, 1976): “La Corte deve tenere in conto il fatto che l’Europa è caratterizzata da una grande diversità tra gli Stati di cui è composta, particolarmente nella sfera dello sviluppo culturale e storico”. La Corte, inoltre, non solo motiva il ricorso al margine di apprezzamento, ma detta dei limiti alla sovranità statale. Essa, infatti, precisa: “il riferimento ad una tradizione non può liberare uno Stato contraente dalla sua obbligazione di rispettare i diritti e le libertà protetti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli”.
3) Veniamo alla terza questione: Come valutare l’assenza di criteri e standards uniformi nella sua applicazione?
Questa domanda, nella questione crocifisso, può essere ritradotta in questo modo: la Corte poteva scegliere di decidere, anzichè rimettere allo Stato la decisione? Avrebbe potuto percorrere un’altra strada? E qui la risposta si fa problematica.
Perché questa scelta della Corte di ricorrere al margine di apprezzamento è evidentemente la spia che manca una tradizione giuridica comune per la risoluzione dei conflitti religiosi e culturali. Tralasciando gli elementi di contraddizione con i casi Fulghero e Dahlab, chiediamoci se la Corte avrebbe potuto provare a tracciare qualche strada? Secondo alcuni il ricorso al margine di apprezzamento era una scelta del tutto obbligata (come Cartabia, Weiler, Tega, Pinelli, Buratti ex plurimis hanno sostenuto). Tuttavia, forse, la Corte EDU avrebbe potuto, sia usando il metodo comparato, sia facendo riferimento a sua giurisprudenza pregressa (Chapman v. UK 2001), cercare di individuare una tradizione giuridica comune sul modo in cui si risolvono i conflitti culturali e religiosi. Ho in quest’ottica provato a sottoporre la “tradizione dell’esposizione del crocifisso nelle scuole” ad un test ricavabile da un idem sentire che va affermandosi in numerose giurisdizioni sulla rilevanza da attribuire a pratiche culturali (Stati uniti, il Canada, ma anche il Comitato per la protezione dei diritti umani presso le Nazioni Unite). In tali giurisdizioni sono per l’appunto nati dei test religiosi e test culturali, scanditi per passaggi logico argomentativi consequenziali che guidano il giudice. Essi esprimono il formarsi di un idem sentire in ordine a quando la cultura o la religione debbano trovare un riconoscimento. Ebbene, i test culturali richiedono alcuni requisiti, tra i quali, ad esempio: quanto una pratica culturale o religiosa è obbligatoria? quanto è essenziale alla sopravvivenza del gruppo culturale? quanto è condivisa dentro un sistema culturale? la pratica di cui si chiede la protezione arreca un danno fisico? quanto è ragionevole la sua conservazione in una società democratica?
A mio avviso, la pratica di esporre il crocifisso, sia essa qualificata come religiosa o come culturale, non supera quasi nessuno dei requisiti del test.
In primo luogo, non supera l’accertamento sulla natura obbligatoria della pratica: il crocifisso non è un simbolo obbligatorio per i cristiani. Diverso sarebbe stato se si fosse chiesto di cambiare il giorno festivo o se qualcuno avesse protestato perché la comunione è una forma di antropofagia e il cannibalismo non è ammesso nell’ordinamento o disturba qualche minoranza. Andare a messa, fare la comunione sono pratiche obbligatorie.
In secondo luogo, come visto, la pratica deve essere essenziale alla sopravvivenza del gruppo: e questo non è certo il caso del crocifisso, in quanto non può dirsi che la privazione della sua presenza nelle scuole ponga a rischio il gruppo dei cattolici che, soprattutto in Italia, non gravita in una posizione di minoranza.
Inoltre si valuta quanto la pratica sia condivisa all’interno della cultura o sia invece controversa. E la presenza del crocifisso nelle scuole è anche un conflitto endoculturale, interno alla società italiana, interno allo stesso gruppo dei cattolici, molti dei quali auspicano la rimozione in nome del principio di laicità.
Importante è anche se la pratica rechi un danno: sicuramente il danno non è fisico, però in qualche modo la presenza della sola croce in una classe potrebbe essere vista come una forma di imperialismo culturale, una sottomissione simbolica.
Si potrebbe dire che questi test non ci appartengono, che sono di un’altra tradizione giuridica, che sarebbe stata una forzatura un eventuale processo comparato di importazione degli stessi al fine di risolvere la questione crocifisso.
In realtà, però, non è proprio così perché altre volte la Corte ha applicato standards simili, quando è andata ad indagare le condizioni per decidere se dare spazio o no ad una tradizione culturale.
Ad esempio, nel caso Chapman, che aveva visto la Corte EDU pronunciarsi sul caso di una donna Rom che rivendicava il suo “diritto al nomadismo”. In tale occasione la Corte EDU aveva elaborato una sorta di suo test culturale in cui aveva richiesto questi elementi:
1) la pratica deve essere integrale essenziale e caratterizzante il gruppo;
2) la pratica deve essere tradizionale;
3) se la pratica è di un gruppo vulnerabile merita maggiore considerazione;
4) la pratica culturale va difesa “non solo allo scopo di salvaguardare gli interessi delle minoranze stesse, ma per preservare una diversità culturale che ha valore per l’intera comunità”;
5) è possibile distinguere quantitativamente tra “alterazione” e “distruzione” totale di una pratica culturale o di una cultura (caso Sami)
6) La pratica va bilanciata con altri eventuali diritti in conflitto.
Se si applica questo standard alle minoranze, a maggior ragione lo si potrebbe applicare quando a venire in rilievo è una pratica della maggioranza.
4) Infine, l’ultima questione che ci siamo posti è: Il ricorso al margine di apprezzamento chiude la conversazione costituzionale?
In realtà a me pare che il margine di apprezzamento serva a circoscrivere la sfera pubblica in cui questa conversazione deve avvenire, ritenendo la Corte che la sfera pubblica europea sia troppo ampia. Lo cogliamo da alcuni passaggi della Corte: “In riferimento alla opinio
ne del Governo italiano sul significato della croce, la Corte nota che il Consiglio di Stato e la Corte di Cassazione hanno visioni divergenti al proposito e che la Corte costituzionale non ha potuto decidere il caso”. Il margine di apprezzamento serve alla Corte EDU più che altro per ridimensionare il suo ruolo nella controversia: “Non è compito della Corte prendere posizione in riferimento a una disputa domestica tra corti domestiche”. Rinvia la conversazione costituzionale alla sfera pubblica italiana. Ora sta a noi coglierla.
Oltre al margine di apprezzamento, il secondo fulcro argomentativo della Lautsi II della Corte EDU è l’affermazione che il crocifisso è un simbolo passivo, come tale inidoneo a ledere la libertà di educazione rivendicata dalla signora Lautsi. L’introduzione di tale argomento de-rubrica la questione crocifisso da scontro tra diritti fondamentali o tra principi supremi, per portarla ad una questione di tono minore, restituendocela “riletta” quale questione di ragionevole accomodamento di interessi.
In società sempre più divise da questioni identitarie e da problemi di convivenza, un’argomentazione di questo tipo – pur portando al medesimo risultato – appare più misurata.
Insomma, tutti credo speriamo che la conversazione costituzionale riparta in Italia e che magari ci sia spazio per guardare a queste tradizioni giuridiche d’oltremare che hanno elaborato alcuni test, peraltro, non del tutto alieni alle condizioni che anche altri giudici in Europa ritengono importanti per dare rilevanza alla cultura. Forse, per il momento, la Lautsi II è la soluzione meno difficile, perché non dice che sta proteggendo la libertà religiosa. Però veramente si può fare di più. In conclusione ho provato a leggere la Lautsi II come una decisione che non chiude la conversazione costituzionale (in questo senso l’ho trovata una decisione meno difficile della Lautsi I), ma che ce la restituisce riletta come un conflitto de-convenzionalizzato, non più da sottoporre al bilanciamento tra diritti, ma ad un accomodamento.
Le tecniche argomentative usate dai giudici hanno una diversa attitudine ad innescare o soffocare una conversazione costituzionale. La sentenza Lautsi non ha in questo senso chiuso la questione, ma restituendocela “riletta” al di fuori del paradigma del conflitto tra diritti, dovrebbe spingere ad un suo ripensamento sotto il canone della ragionevolezza della conservazione della pratica in una società così trasformata come quella italiana attuale.
* Bozza della relazione presentata al Seminario di studi “La CEDU tra effettività delle garanzie e integrazione degli ordinamenti”, Università degli Studi di Perugia, Facoltà di Giurisprudenza, 17 novembre 2011.