Il “Living Originalism” di Jack Balkin
Il titolo del volume è volutamente provocatorio: in Living Originalism (Cambridge Mass., The Belknap Press of Harvard University Press, 2011, pp. 474), Jack Balkin si propone di superare la contrapposizione tra originalism e living constitutionalism, che da qualche decennio divide i costituzionalisti americani. Se vi sia riuscito è questione aperta, ma il libro ha senz’altro il merito di aver affrontato con acume alcuni temi centrali del dibattito contemporaneo (e non solo): il ruolo della storia nell’interpretazione, il mutamento costituzionale, la legittimazione democratica non solo delle corti, ma del sistema politico nel suo insieme.
La tesi di fondo è la seguente: se concepiti nel modo suggerito da Balkin, originalism e living constitutionalism sono compatibili. In particolare, l’originalism non deve ridursi a un’analisi sull’original expected application dei founding fathers, ma deve essere volto a ricercare l’original meaning delle norme costituzionali, il significato semantico dei concetti. A questo riguardo, l’Autore si rifà ad alcuni studi che hanno recentemente indagato i diversi tipi di originalismo. Diversamente da quello dei conservative originalists, inoltre, l’originalism propugnato da Balkin non ha come fine prevalente quello di circoscrivere e limitare (constrain) l’attività del giudice, ma piuttosto quello di individuare la «cornice» normativa all’interno della quale si dispiega l’attività delle generazioni successive. In questo senso, il framework originalism balkiniano viene contrapposto allo skyskraper originalism, che fissa invece nel testo dei framers una matrice dalla quale non è possibile discostarsi.
Per converso, il living constitutionalism di Balkin non è incentrato sulle decisioni giudiziarie e sull’interpretation, ma riguarda l’insieme delle constitutional constructions, ossia (con qualche variazione rispetto alla ricostruzione di Whittington) l’attività di implementazione e applicazione della costituzione da parte (non solo dei giudici ma anche) degli organi politici federali (Congresso e Presidente) e statali, nonché da parte dei movimenti sociali e politici.
In che modo Balkin associa originalism e living costitutionalism? Essendo il primo qualificato come framework originalism, l’indagine sull’original meaning è volta a mettere in luce i principi, le promesse e gli impegni (principles, promises and commitments) racchiusi nel testo della costituzione. Tale operazione intende ricostruire le norme costituzionali che «incanalano e disciplinano, [ma] non ipotecano» la futura attività politica, di modo che lo spazio da esse creato possa essere riempito, nel corso del tempo, dalle constitutional constructions elaborate da organi politici, giudici e cittadini.
Il framework originalism è sviluppato attraverso il metodo text and principles, che richiede all’interprete fede (faith) nella costituzione e fedeltà (fidelity) al testo costituzionale. Tale metodo consente di distinguere le regole e le parti del documento che non possono essere modificate se non con la procedura di cui al V emendamento, e di enucleare gli standards e i principi espressi o sottesi al testo (underlying principles). Individuate in tal modo le “promesse” originarie della costituzione, il compito e la responsabilità di redimerle e riscattarle (redeem) ricade sulle generazioni future, nella misura in cui queste ultime si riconoscano nel piano (plan) costituzionale e siano in grado di farne propri gli impegni (sul ricorso da parte di Balkin a categorie delle tradizioni religiose protestante ed ebraica v. McClain, in Boston University Law Review, pp. 1187ss.).
Il riscatto della costituzione e la prosecuzione del progetto da essa delineato da parte dei cittadini è possibile solo se la prima non è intesa esclusivamente come basic law che, allocando poteri, diritti e obblighi, promuove la stabilità politica, ma anche come higher law – «fonte di ispirazione e deposito di principi e valori» – e come our law, con la quale «ci [si] identifica» e verso la quale si nutre attaccamento (attachment) indipendentemente da un’effettiva prestazione del consenso (59ss.). La costituzione è dunque un progetto politico a lungo termine, a cui partecipano generazioni diverse, che si riconoscono in esso e nella relativa narrazione (constitutional story).
Nella teoria di Balkin, la storia assume quindi due ruoli correlati: da una parte, fattore di integrazione del We the People e sostrato della “our” constitution e, dall’altra, strumento di interpretazione delle norme costituzionali attraverso l’indagine sull’original meaning.
Qual è il valore aggiunto del living originalism? Balkin ritiene che esso riesca a spiegare alcuni snodi fondamentali della tradizione costituzionale americana (il New Deal, Brown v. Board of Education, la c.d. civil rights revolution degli anni sessanta e settanta del Novecento, etc.) senza incappare nell’ostacolo dinanzi al quale vacillano sia gli originalists che i living constitutionalists. Per entrambi, infatti, questi sviluppi decisivi sono avvenuti al di là del testo costituzionale e possono essere giustificati soltanto alla luce della dottrina dello stare decisis, alla quale attribuiscono però un significato differente. Per gli uni (tra cui Bork e Scalia), i precedenti in questione rappresentano pragmatic exceptions all’original meaning, mentre per gli altri (tra cui Gerhardt e Ackerman) costituiscono dei superprecedents. Né l’una né l’altra posizione, tuttavia, riescono a spiegare perché alcuni precedenti debbano considerarsi particolarmente “resistenti” e altri meno.
Balkin, invece, ritiene che tali svolte costituiscano delle constitutional constructions, e che queste ultime – essendo un’implementazione dei relativi underlying principles –, siano riconducibili all’original meaning delle clausole costituzionali A supporto di tale tesi, l’Autore svolge un’approfondita e documentata analisi storica avente ad oggetto la commerce clause (art. I sez. 8), la privilege or immunities clause (XIV em., frase 2) e la equal protection clause (XIV em., frase 4). Tale ricostruzione gli consente di rilevare una continuità tra le aspirazioni della generazione dei founding fathers e quelle delle generazioni successive. «Accettare queste construction[s] provenienti dal passato» costituisce per lui «il miglior modo di rimanere fedele nel presente ai principi stabiliti nel testo». In altre parole, Balkin fa «appello alle risorse comuni nella tradizione costituzionale» americana e sostiene che «ciò sia il modo giusto di portare avanti il progetto costituzionale» (p. 229).
Ma qual è dunque la distinzione dell’approccio di Balkin all’uso della storia rispetto a quello dei conservative originalists? È lo stesso Autore a dirci che il materiale storico viene impiegato da lui come una «risorsa» e dagli altri come un «comando» (pp. 228-9).
Qui, però, si appuntano i primi rilievi critici, dal momento che la storia (intesa come risorsa argomentativa) non è uno strumento esclusivo dei vari originalists, ma è ampiamente impiegata anche dai non-originalists. Inoltre, la sottolineatura della dinamica tra original meaning, underlying principles e constitutional constructions quale motore del mutamento costituzionale presenta visibili punti di convergenza con le tesi di Ackerman e di Dworkin, verso i quali lo stesso Balkin riconosce un debito (maggiore verso il primo, ma è forte anche la contiguità con il secondo). Considerati entrambi gli aspetti appena messi in luce, è stato sostenuto che l’appartenenza di Balkin al gruppo degli originalists non sia né metodologicamente necessaria (così Strauss, Fleming, Baxter, in Boston University Law Review 2012, pp. 1161ss. e di Alexander, in University of Illinois Law Review 2012, pp. 611ss.) né politicamente opportuna, poiché suscettibile di compromettere l’esito delle cause progressives (cfr. Dorf, in Harvard Law Review 2012, pp. 2011ss.).
Perché allora Balkin si professa originalista? Nel rispondere a questa domanda, egli afferma di essere stato colpito dalla frequenza con cui i movimenti sociali e politici americani, anche radicali, hanno in passato invocato il testo della costituzione – breve e alla portata di tutti –. Ciò sarebbe dovuto non solo alla tradizione di common law (secondo cui i nuovi diritti emanano da antichi precedenti e consuetudini) e alla congiunta influenza di giusnaturalismo e liberalismo, ma anche a un atteggamento tipicamente «protestante» dei cittadini verso il testo scritto (p. 84 e, più diffusamente, dello stesso Autore, Constitutional Redemption. Political Faith in an Unjust World, Cambridge Mass., Harvard University Pr., 2011, cap. 8; la categoria del protestant constitutionalism è di Levinson). Il living originalism, infatti, si distingue per il forte nesso tra la “fedeltà” al testo costituzionale e la continua capacità di mobilitazione sociale e politica dei cittadini. Quest’ultimo profilo, che recepisce gli orientamenti del popular e del democratic constitutionalism (soprattutto nella versione di Post e Siegel), differenzia il modello di interpretazione costituzionale di Balkin da quelli del primo Ackerman e soprattutto di Dworkin. Il mutamento della costituzione, infatti, non è tanto il prodotto delle decisioni di giudici isolati, ma il frutto di un più profondo cambiamento nella cultura costituzionale – sul quale hanno influito le mobilitazioni della società civile –, cambiamento che a sua volta incide sulla sfera politica e sull’attività giurisprudenziale.
Emerge a questo punto il secondo aspetto problematico della tesi di Balkin: affinché venga mantenuta la “fede” nella costituzione e nei relativi impegni, occorre che i cittadini ne sviluppino continuamente il progetto. Tale progetto, però, non indica una direzione precisa. I cittadini, cioè, possono condividere o contestare determinate constructions messe in opera dagli organi politici e dai giudici. Il metodo text and principles mette a loro disposizione un linguaggio comune, da utilizzare per l’adesione così come per la critica della constitution-in-practice. L’importante è che sia preservato uno spazio per il dissenso volto a mutare l’orientamento prevalente in un dato periodo. È tale contesa sul senso del progetto e delle promesse della costituzione che non fa venir meno l’autorità della constitution-in-practice, anche quando questa si riveli nei fatti ingiusta: nel suo ambito, infatti, devono conservarsi la possibilità di critica e di una “redenzione” della costituzione diversa e migliore di quella realizzata in concreto.
Se le premesse di Balkin sono apertamente pluralistiche, la sua ricostruzione non sembra andare esente da qualche contraddizione. Per un verso, la prospettiva è relativistica: ad esempio, i movimenti progressisti per l’eguaglianza della donna e pro-choice sono equiparati a quelli dei conservatori che invocano il diritto individuale a portare le armi, dal momento che la loro presenza nella sfera pubblica è quantitativamente analoga. In questo senso Balkin ha affermato, in un intervento più recente, che non si può stabilire dall’esterno se sia più giusto il movimento del Tea Party o quello di Occupy Wall Street. Per l’altro verso, in alcuni passaggi del libro l’Autore si riferisce ai mutamenti costituzionali che hanno particolare «valore» per la tradizione americana e che devono essere adeguatamente compresi dalla teoria costituzionale (p. 90). Sulla stessa scia, afferma che i precedenti giudiziali devono essere conservati o superati a seconda che essi costituiscano un’implementazione ragionevole o irragionevole della costituzione (p. 121-122) – laddove il riferimento alla ragionevolezza implica un giudizio di valore, seppur nella connotazione più debole propria dell’esperienza statunitense –. Ciò, del resto, corrisponde alla concezione della costituzione non solo come basic law, ma anche come higher law e our law. Se quindi il living originalism intende travalicare la contrapposizione tra conservatori e progressisti (il conservative originalism non è altro che il living constitutionalism degli originalisti), il rapporto tra relativismo e “attaccamento” ai principi costituzionali non sembra del tutto risolto, specie se si considera l’insistente ricorso a termini dalla matrice religiosa (caduta, fede, redenzione) che implicano una dimensione valoriale (v. McClain, cit.).
In linea con le posizioni del democratic constitutionalism (v. supra) e con importanti studi sulla Corte Suprema (Dahl, Whittington, Graber, nell’ambito della scienza politica, ma anche Powe e Friedman), Balkin contesta la nota tesi di Bickel sul ruolo counter-majoritarian di quest’ultima (pp. 300ss.). Nei momenti di più significativo mutamento costituzionale, infatti, la Corte Suprema ha sostanzialmente «cooperato» con la «coalizione politica nazionale dominante», al contempo legittimando e limitando le relative constitutional constructions e «sintetizzando i nuovi valori e [le nuove] istituzioni con il passato». Per quanto non direttamemente coinvolta nelle questioni politiche quotidiane, la Corte si è rivelata responsive alle «tendenze politiche di lungo periodo», espresse dai movimenti e dai partiti politici. Più velata e problematica è la critica alla tesi di Ely. Se, infatti, la footnote 4 di Carolene Products, da questi ripresa, individuava il ruolo della Corte nel proteggere gli interessi delle discrete and insular minorities, nella ricostruzione di Balkin le minoranze sono destinate ad essere «semplicemente ignorate» finché non assumono un «peso politico» significativo.
Il volume di Balkin si presenta dunque come un testo importante e decisamente da consigliare. Il lettore europeo-continentale, peraltro, non può non avvertire l’assenza di alcuni riferimenti che ai suoi occhi appaiono fondamentali. Mi limito a suggerire quelli più immediati: il ruolo centrale della sfera pubblica nella tesi di Balkin evoca gli scritti di Habermas (richiamati invece in qualche recensione) e di Häberle (in particolare l’affermazione secondo cui le «teorie dell’interpretazione della costituzione dovrebbero prendere le mosse dall’intepretazione dei cittadini», p. 17), mentre, sulla legittimazione delle Corti, il dibattito tra Kelsen e Schmitt è ancora un passaggio obbligato (benché da noi forse un pò logoro). Ma, come è noto, analoghi rilievi sul difetto di sensibilità comparativa possono essere mossi ad altri autori statunitensi. Le ragioni sono antiche e non è questa la sede per ripercorrerle, per quanto negli ultimi anni vi siano stati segnali di una parziale controtendenza. Si nota quindi con piacere come Balkin, in una discussione recente, abbia ricordato Vico, a proposito di quel sensus communis (common sense) che rende possibile la condivisione del progetto della costituzione e rappresenta al contempo il terreno sul quale si sedimenta il mutamento costituzionale (p. 71, 306 e Id., Boston University Law Review, p. 129).