Il lieto epilogo del dialogo tra Corti sul diritto al silenzio: note minime a margine della sentenza n. 84 del 2021
È incostituzionale sanzionare la condotta delle persone fisiche che si siano rifiutate di fornire alla Consob risposte che possano far emergere la propria responsabilità per illeciti idonei a condurre all’irrogazione di sanzioni amministrative a carattere punitivo ovvero la propria responsabilità penale: questo il verdetto della Corte costituzionale in merito alla questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di cassazione che aveva indotto la Consulta ad effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia con la celebre ordinanza n. 117 del 2019.
La sentenza n. 84 del 2021, nel dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 187-quinquiesdecies del Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (e con esso, in via consequenziale, di altre norme dall’analogo tenore relative a condotte di mancata collaborazione con la Banca d’Italia) ripercorre accuratamente le tappe della nota vicenda.
Può forse essere utile ricordarle qui brevemente. L’ordinanza n. 117 del 2019 della Corte costituzionale, frutto della separazione di diverse questioni di legittimità costituzionale, sottoponeva due quesiti alla Corte di giustizia. La prima questione pregiudiziale, di interpretazione, aveva ad oggetto la direttiva 2006/3/CE, di cui l’art. 187-quinquiesdecies costituisce la trasposizione a livello nazionale: in particolare, la Consulta interrogava la Corte di giustizia circa la possibilità di interpretare l’art. 14, paragrafo 3 di detta direttiva nel senso di consentire agli Stati membri di tutelare condotte di omessa collaborazione nell’ambito delle indagini svolte dalla Consob per l’accertamento dell’illecito di insider trading, punibile con sanzioni a carattere penale. La seconda questione, di validità, era subordinata all’ipotesi di una risposta negativa al primo quesito e prendeva le mosse dal dato che, a fronte della formale corrispondenza tra l’art. 47, paragrafo 2, CDFUE e l’art. 6, paragrafo 1, CEDU, l’inclusione del c.d. diritto al silenzio tra le garanzie del diritto di difesa anche in casi siffatti (soluzione, questa, adottata dalla Corte di Strasburgo) non trovava riscontro nella giurisprudenza della Corte di giustizia; in un’ottica di “massima salvaguardia dei diritti a livello sistemico”, dunque, la Consulta suggeriva al giudice di Lussemburgo la potenziale incompatibilità della direttiva 2006/3/CE – nel suo non contemplare il diritto delle persone fisiche a non fornire all’autorità procedente informazioni idonee a far emergere la propria responsabilità – con gli artt. 47 e 48 della CDFUE.
Sullo sfondo di tale ordinanza, il velato avvertimento che, anche a fronte di una lettura della Corte di giustizia opposta rispetto a quella suggerita dalla Consulta, si sarebbe potuti giungere alla dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 187-quinquiesdecies – in quanto non rispettoso di un “corollario essenziale dell’inviolabilità del diritto di difesa” tutelato dall’art. 24 della Costituzione – da cui sarebbe discesa una violazione degli obblighi derivanti dalla richiamata direttiva 2006/3/CE; il che lascerebbe intravedere, secondo la lettura di D. Sarmiento, una strategia di “seduction” della Corte italiana nei confronti di Lussemburgo, contrapposta agli atteggiamenti di “pragmatic resignation” o di “revolt and frustration” propri di altre corti costituzionali.
La risposta ai quesiti formulati dalla Consulta con l’ordinanza 117 del 2019 è giunta con la sentenza D.B. contro Consob del 2 febbraio scorso, che ha evidenziato una completa adesione da parte del giudice dell’Unione rispetto alla posizione della Corte italiana: il diritto sovranazionale, ha precisato Lussemburgo, consente agli Stati membri di non sanzionare le persone fisiche che, nell’ambito di procedimenti condotti dalla Consob al fine di accertare illeciti in grado di condurre all’irrogazione di sanzioni di carattere punitivo, si rifiutino di collaborare (purché non si tratti di comportamenti manifestamente ostruzionistici o di manovre dilatorie volte a rinviare lo svolgimento delle audizioni da parte dell’autorità).
Sulla base di tale convergenza di interpretazioni, la Corte costituzionale è tornata sulla questione, come si diceva in premessa, con la sentenza n. 84 del 2021; quest’ultima riproduce le argomentazioni già esposte nella richiamata ordinanza n. 117 del 2019, avvalendosi altresì della risposta della Corte di giustizia, per dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies nella parte in cui si applica anche alle persone fisiche che si siano rifiutate di collaborare con la Consob nei casi sopra esposti, in quanto non rispettoso delle garanzie difensive previste nell’ambito di indagini volte all’accertamento di illeciti passibili di sanzioni di carattere sostanzialmente penale.
Nei limiti di quanto possibile in questa sede, siano consentite alcune brevi considerazioni.
Si ricorderà senz’altro il dibattito sorto in dottrina relativamente alla sentenza n. 269 del 2017 (il cui seguito è rappresentato dalla nota serie di sentenze nn. 20 e 63 del 2019 e, naturalmente, dall’ordinanza n. 117 del medesimo anno), da più autori ritenuta foriera di una nuova stagione di chiusura rispetto alla giurisprudenza della Corte di giustizia: la vicenda in commento, tuttavia, ha senz’altro avuto il pregio di offrire alla Consulta la possibilità di dimostrare che il dialogo diretto con Lussemburgo rappresenta il giusto compromesso per conciliare il sindacato accentrato di costituzionalità posto “a fondamento dell’architettura costituzionale” con la giurisprudenza Melki e Abdeli ed A contro B ed altri.
Ma v’è un tema sostanziale, che guarda oltre i rapporti tra Corte costituzionale e Corte di Lussemburgo, che la sentenza n. 84 del 2021 consente di prendere in considerazione, fornendo in tal senso dei nuovi riferimenti.
Il diritto fondamentale alla difesa in giudizio, si legge in detta pronuncia, si fonda su una pluralità di norme che contribuiscono a definirne il contenuto: non solo l’art. 24 Cost., dunque, ma anche l’art. 6 CEDU, gli artt. 47 e 48 CDFUE, nonché l’art. 14, paragrafo 3, lett. g), del Patto internazionale sui diritti civili e politici. Tali norme, scrive la Consulta menzionando per la prima volta dall’avvio della “saga” sulla c.d. doppia pregiudizialità la risalente sentenza n. 388 del 1999, “si integrano, completandosi reciprocamente nella interpretazione”. Con quest’ultima affermazione, la Corte riporta alla luce il riconoscimento della capacità dei cataloghi dei diritti di alimentarsi a vicenda, contribuendo ad arricchire lo standard di tutela dei diritti ivi contenuti.
Non v’è chi non abbia sperato che tale richiamo sia sintomo di un abbandono, da parte della Consulta, di un approccio “gerarchico” alle Carte dei diritti dotate, in quanto tali, di una “impronta tipicamente costituzionale” (si allude, in particolare, ad A. Ruggeri). L’equiparazione delle Carte (di cui da tempo è, al contrario, fermo oppositore R. Bin), del resto, sarebbe necessaria – secondo la lettura in parola – se non si vuol incorrere nella contraddizione insita nell’affermare il diverso valore assiologico dei cataloghi di diritti ammettendone, al contempo, la capacità di mutua integrazione.
Come ammesso tuttavia anche da quest’ultima dottrina, sarebbe azzardato ipotizzare che all’orizzonte vi sia il superamento della teoria del “predominio assiologico” della Costituzione, sostenuta dalla Corte costituzionale in occasione della sentenza n. 49 del 2015. Piuttosto, il richiamo al precedente del 1999 potrebbe ritenersi verosimilmente indicativo della volontà di ricercare, ove possibile, un’interpretazione convergente del contenuto dei diritti fondamentali nello spazio europeo, attraverso il raffronto delle garanzie apprestate dai cataloghi dei diritti disponibili.
Quel che è certo, può concludersi, è che gli ultimi rinvii della Corte costituzionale (tra cui è da menzionare altresì quello effettuato con l’ordinanza n. 182 del 2020 in tema di c.d. bonus bebè) dimostrano senz’altro la volontà della Consulta di giungere, in un’ottica di collaborazione con la Corte di giustizia, alla costruzione di una tutela comune dei diritti fondamentali. E tale spirito parrebbe essere condiviso dal giudice dell’Unione, che non ha mancato di raccogliere la lettura estensiva del diritto di difesa proposta, sulla base della propria tradizione costituzionale in accordo con la giurisprudenza di Strasburgo, dal giudice costituzionale italiano, ammettendo nel caso esaminato l’esistenza di un “nuovo” diritto nell’ordinamento sovranazionale (come rilevato da A. Anzon Demmig).
È questo, in definitiva, il merito dell’indirizzo inaugurato dalla Consulta con la sentenza n. 269 del 2017: lasciare al giudice costituzionale lo spazio – garantito dalla priorità del sindacato di costituzionalità – per sfruttare al meglio le potenzialità dello strumento del rinvio pregiudiziale, in un confronto proficuo con la Corte di giustizia che consenta la creazione di un sistema integrato di tutela dei diritti a livello europeo.