Il giurista quantistico. A proposito di “Roberto Bin, A discrezione del giudice. Ordine e disordine una prospettiva “quantistica”, Franco Angeli, Roma, 2013”
Il nuovo libro di Roberto Bin si caratterizza per un approccio fortemente innovativo ed interdisciplinare.
L’Autore sviluppa una serie di intuizioni già presenti in altri suoi precedenti scritti, trasformandole in un libro davvero ricco, stimolante e godibile.
Bin prende le mosse, come risulta evidente fin da subito, da un fortunato scritto di Laurence Tribe, “The Curvature of Constitutional Space: What Lawyers Can Learn from Modern Physics” (pubblicato su Harvard Law Review, Vol. 103, No. 1, 1989, 1-39).
L’obiettivo del lavoro viene descritto chiaramente nell’Introduzione: anche il diritto deve conoscere la sua rivoluzione quantistica; cioè, abbandonare alcuni luoghi comuni che non corrispondono a ciò che realmente accade.
Per intraprendere un’impresa tanto ardita, l’Autore decide di prendere in esame il tema della discrezionalità del giudice nell’applicazione delle leggi, partendo dall’asimmetria presente nei moderni sistemi costituzionali fra giudici e legislatori, essendo i secondi “l’unica autorità che nel nostro sistema può vantare una piena legittimazione democratica, per cui ogni esercizio di potere pubblico che non si leghi saldamente alle sue indicazioni appare arbitrario e inaccettabile” (p.7).
Al contrario “sempre più spesso le valutazioni del giudice sembrano prive di briglie, libere di svolgersi secondo convinzioni personali, piuttosto che nell’alveo dei criteri fissati dal legislatore” (p.7).
La questione della discrezionalità del giudice è sempre stata al centro dell’interesse degli studiosi. Bin ricorda due approcci diversissimi al tema: quello della teoria del diritto di Kelsen e quello della teoria dell’interpretazione di Dworkin.
Si tratta di due concezioni diversissime eppure, secondo Bin, entrambe molto “newtoniane” nel percepire il giudice quale realtà esterna all’oggetto dell’interpretazione: è come se il giudice fosse una sorta di Demone di Laplace, un osservatore esterno che non influisce sul sistema che scruta (“Entrambi gli approcci hanno un punto debole che vorrei sottoporre a critica e che riguarda la loro comune premessa epistemologica. Si tratta della netta separazione tra l’oggetto e il soggetto dell’interpretazione/applicazione del diritto”, p. 15).
Proprio questa scissione soggetto/oggetto è messa in discussione dall’Autore e definita con la formula “ontologia del materialismo” o “ontologia materialistica”: “l’idea cioè che nel processo di interpretazione e di applicazione del diritto l’interprete abbia a che fare con ‘cose’ che esistono a prescindere dal suo intervento. Moltissima attenzione viene dedicata di solito all’interpretazione e ai suoi metodi, molto poca invece alla scelta del suo oggetto.” (p. 11).
Il libro si divide in due grandi sezioni (più un’Introduzione). La prima, intitolata “Ciò che i giuristi possono imparare dalla fisica moderna” (dal saggio di Tribe), si suddivide a sua volta in sei capitoli. La seconda, “La ruota dei criceti”, in quattro ulteriori capitoli, fra cui ricordiamo anche le Conclusioni.
Il primo capitolo (“Perché la fisica?”), è dedicato ai “Demoni di Laplace” del diritto, cioè alle ricostruzioni- così diverse ma anche così simili da questo punto di vista- che si fondano proprio su quell’ontologia del materialismo prima ricordata. Particolarmente interessante, sotto questo punto di vista, è il paragone fra il giudice Ercole di Dworkin e il Demone in questione. L’idea di base è quella per cui la teoria quantistica possa presentare degli spunti interessanti anche con riferimento alla teoria dell’interpretazione. Per avanzare questo argomento, Bin ricorda quattro premesse della teorie della fisica quantistica che, a suo parere, ben si applicano al diritto:
- a) “l’osservatore agisce all’interno del sistema osservato e ne fa parte” (p. 18)
- b) “se ogni osservatore è parte del sistema osservato, allora … tutti i possibili risultati dell’osservazione possono coesistere ed essere egualmente validi” (p. 19)
- c) “l’osservazione determina ciò che deve essere osservato, perché il risultato di un’osservazione dipende da ciò che l’osservatore decide di osservare” (ibidem).
- d) “l’osservazione determina ciò che deve essere osservato, perché il risultato di un’osservazione dipende da ciò che l’osservatore decide di osservare” (p. 20).
Queste quattro premesse vengono richiamate per sostenere sostanzialmente due punti: confutare la scissione oggetto/soggetto nell’interpretazione (interpretare, come osservare, vuol dire agire nel sistema; e quindi interagire con il ‘dato’ da interpretare vuol dire anche alterarlo o, comunque, implica uno “scegliere”) e sostenere la non-univocità e non-oggettività dell’interpretazione
Il secondo capitolo (“Meccanica quantistica e hard cases: questioni di risoluzione ottica”) si incentra sulla necessità di rileggere l’asimmetria ricordata in apertura: quella fra legislatore e giudice (come la fisica quantistica non rappresenta infatti una totale negazione ma un completamento della fisica classica, così Bin suggerisce di integrare, non di superare totalmente l’approccio classico degli studi sull’interpretazione).
Nello specifico si tratta di rivedere, con occhio diverso, il rapporto interprete/testo e di concepire il caso come una costruzione influenzata dal contesto in cui l’interprete opera e l’interpretazione come attività di interazione fra oggetto e soggetto che porta alla trasformazione del dato interpretato: “I ‘fatti’ sono accadimenti oggettivi, i ‘casi’ non lo sono. Il ‘caso’ è una costruzione della mente umana. L’approccio quantistico ci suggerisce di guardare agli interpreti del diritto come a
una parte del sistema che essi stanno interpretando. Non possiamo avere una percezione adeguata del problema dell’interpretazione giuridica senza prestare attenzione alle premesse culturali e istituzionali del sistema nel suo complesso’ (p. 25).
Il terzo capitolo (“Indeterminazione giuridica – e allora?”) prende le mosse da quella che potremmo chiamare la fisiologia dell’indeterminazione giuridica, dei conflitti e dell’incoerenza, a volte, degli stessi testi costituzionali, quale prodotto di compromessi politici, che trovano “sfogo” nei complessi bilanciamenti che l’interprete costituzionale deve talvolta fare.
Ancora una volta, l’interprete è condizionato e condiziona il sistema in cui vive (il proprio contesto culturale), ovvero “subisce” le incoerenze di un sistema giuridico ma cerca di ovviarvi secondo dinamiche non riportabili a quelle che caratterizzerebbero l’operato del giudice “bocca della legge” (nell’abusata formula di Montesquieu): “l’indeterminazione è una situazione costante e oggettiva che accompagna l’interpretazione e il giudizio quando si esaminano le dimensioni infinitamente piccole o infinitamente grandi – gli hard cases di cui si diceva” (p. 31).
Evitando di rivisitare, in termini generali, la teoria dell’interpretazione, Bin prende in considerazione due aspetti principali: il momento immediatamente precedente e quello immediatamente successivo all’interpretazione in senso stretto, ovvero la scelta del testo da interpretare e la descrizione del risultato dell’interpretazione.
Il quarto capitolo (“Interpretazione di che cosa?”) si sofferma sul problema della scelta del testo da interpretare. Non si tratta di un problema di poco conto. Cosa è davvero fonte del diritto? Come si deve muovere, ad esempio, il giudice nella giungla di atti para-normativi rappresentata dal soft law o di quelle disposizioni prive di vero effetto normativo ancorché incluse in “atti tipici di legislazione” o di testi meramente ricognitivi? Un secondo problema riguarda la questione dell’attuale vigenza o, ancora, della attuale capacità di produrre effetti da parte di un atto giuridico.
Questo porta l’Autore ad affrontare il tema dell’abrogazione implicita e del rapporto fra legislatore e prodotto della sua attività, con un interessante parallelismo fra Stati Uniti ed Europa, relativo all’espresso potere di dichiarare l’invalidità della legge riconosciuto ai giudici. Questo è un elemento che, secondo Bin, rende la questione “counter-majoritarian” meno problematica e in parte spiega anche le radici di tutto il dibattito sull’originalismo in America.
Il terzo problema analizzato in questo capitolo (che è forse quello più ricco di spunti), attiene alla riconciliazione fra norme in conflitto, secondo tecniche come l’interpretazione conforme o l’interpretazione sistematica.
Si tratta forse dell’ultimo tentativo a disposizione dell’interprete al fine di evitare il riconoscimento dell’invalidità della norma, rispettando una sorta di presunzione di costituzionalità della stessa (su questo sarebbe interessante comparare le pagine del libro di Bin con quelle del volume di Ferreres Comella, sempre recensito su questo blog (https://www.diritticomparati.it/2013/01/recensione-a-v%C3%ADctor-ferreres-comella-justicia-constitucional-y-democracia-centro-de-estudios-pol%C3%ADtic.html, soprattutto p. 130 e ss. del volume).
La conclusione cui giunge l’Autore è che l’interprete ha a sua disposizione uno strumentario molto ampio: “Sono decisioni che l’interprete prende prima di imboccare il corso principale dell’interpretazione. È stata proposta una distinzione tra questioni che riguardano l’applicazione di una legge e questioni che attengono alla sua giustificazione: le prime s’interrogano sulla appropriatezza prima facie di una norma rispetto alla situazione descritta nel caso da decidere, non ancora sulla sua validità, che è questione ulteriore” (p. 48).
Tutte queste tecniche rispondono alla presunzione del “legislatore coerente e non contraddittorio” (p. 51) ma hanno come prezzo quello di allentare la “stretta relazione fra la norma del caso e lo specifico testo normativo a cui essa va fatta risalire” (ibidem).
Il quinto capitolo s’intitola “Risposte giuste e domande sbagliate” ed è quello in cui Bin risponde positivamente alla domanda relativa all’esistenza di una “one right answer”, mettendo in discussione, allo stesso tempo, la rappresentazione del giudice Ercole, dato che non corrisponde alla reale attività del giudice.
Per dimostrare questo punto l’Autore sviluppa ulteriormente il tema dell’interazione fra testo e contesto e fra soggetto e oggetto dell’interpretazione. Attraverso operazioni come l’interpretazione sistematica, l’interprete finisce per applicare qualcosa che è diverso dalla norma originariamente presa in considerazione e le sue scelte relative al dover “contestualizzare” il testo finiscono per portarlo oltre, secondo un processo che non permette di distinguere con chiarezza fra l’individuazione del testo da applicare e l’interpretazione in senso stretto (p. 55).
Tuttavia, il giudice deve decidere, alla luce del principio del non liquet, che non gli permette alternative o fughe di responsabilità: arriva allora l’arduo momento della motivazione, in cui gli argomenti per giustificare la scelta interpretativa compiuta diventano inevitabili e pesanti:
“Non Ercole, ma qualsiasi giudice è richiesto di dare l’unica risposta giusta al la domanda che gli viene posta dalle parti: deve essere data, deve essere univoca, deve essere ritenuta dal giudice quella giusta – e la motivazione deve cercare di persuadere che il giudice non poteva rispondere meglio. È il dovere istituzionale del giudice in quanto giudice – giudice ordinario, nulla di mitologico” (p. 59).
L’ultimo capitolo della prima sezione (“’Penumbra of uncertainty’, il favoloso mondo dell’entropia”) riprende il sottotitolo del volume (“ordine e disordine in una prospettiva ‘quantistica’) ed è dedicato all’idea di entropia.
L’immagine viene presa a prestito per descrivere la massa di informazioni raccolte e filtrate dal giudice prima, durante e dopo l’operazione di interpretazione in senso stretto. L’idea chiave è ancora una volta quella di mettere in dubbio la separazione oggetto/soggetto propria dell’ontologia del materialismo. Il giudice, nell’interpretazione, nella sua interazione con la norma, finisce per prendere in considerazione una serie di elementi aggiuntivi che irreversibilmente cambieranno la stessa (atti di soft-law, non diritto, situazioni di fatto, situazioni legate al contesto in cui opera). Per quanto sia accurata la motivazione il giudice non riuscirà mai a ripresentare coerentemente la massa di elementi presi in considerazione (“L’entropia è legata all’informazione, nel senso che ciò che si produce è una riduzione dell’ordine iniziale del sistema, perché – per dirla in termini volgari – mescolandosi gli elementi perdono le loro caratteristiche iniziali; perciò l’entropia è espressione di disordine e casualità”, p. 62).
Bin ricorda l’adagio di Greene “Eggs break, but they don’t unbreak” (B. Greene, The Fabric of the Cosmos: Space, Time, and the Texture of Reality, New York, 2004, 13) e per sviluppare a pieno il parallelismo si potrebbe dire che l’interpretazione è come una frittata: una volta fatta non è possibile ricomporre le uova (“come le uova rotte non possono ritornare intere, un giudice non può riuscire a “ricreare” esattamente il complesso delle informazioni che lo hanno guidato alla conclusione. Né potrebbe attribuire l’esatto peso argomentativo a ogni fonte che ha influenzato la decisione, sia o meno menzionata nella motivazione”, p. 66).
La seconda sezione inizia con un capitolo intitolato “Il diritto è ciò che il giudice dice essere, ma è il diritto a dire chi è il giudice” e presenta un’interessante argomento contro possibili derive giusrealistiche nella teoria dell’interpretazione. Come ricordato, testo e contesto non sono scindibili e così anche l’attività del giudice e quella degli altri attori non possono essere separate; esse sono parte di un tutto. Il giudice non decide in splendido isolamento, né ha il monopolio dell’interpretazione.
Prendendo spunto dagli scritti di Vermeule e Tuori (p. 70 ss), Bin rappresenta giudici e legislatori come sub-sistemi che fisiologicamente si intrecciano, interferendo gli uni nell’attività degli altri: “Entrambi i sub-sistemi hanno a che fare con diritti e interessi, ed entrambi perciò sono connessi agli individui. Ma c’è una differenza fondamentale: il legislatore tratta i diritti come un problema di politica generale, mentre i giudici li trattano affrontando un caso specifico alla volta”, p. 73).
Il capitolo ottavo (“Il signor Mani e la retorica del giudizio”) è dedicato alle sentenze come “atti retorici, diretti a uditori particolari” (p. 81) e tocca il triangolo caso-sentenza-motivazione.
L’idea è quella di porre in dubbio la famosa immagine dworkiniana della giurisprudenza come chain novel e, per farlo, Bin punta molto sulla sentenza come atto con forme distinte a seconda del suo pubblico: quello che l’Autore vuole dire è che il procedimento conta e moltissimo. Non è un caso allora che le sentenze dello stesso giudice presentino spesso forma e soluzione diversa a seconda dell’interlocutore che il giudice ha: “Quando la Corte affronta questioni delicate che insorgono nei rapporti tra gli organi costituzionali (nei conflitti di attribuzione tra poteri dello stato, per esempio), l’impegno teorico è spesso molto evidente, così come è spesso manifesto lo sforzo di inserire la risposta alla domanda sollevata da un organo politico(o contro di esso) all’interno di una quadro istituzionale generale, altamente teorico. Del tutto diversi sono invece il linguaggio e la strumentazione teorica che la Corte impiega quando il giudizio riguardi il riparto delle competenze tra Stato e regioni… Nei giudizi sollevati dai giudici in via incidentale, invece…, in cui l’unico uditorio è formato dai giudici ordinari, il linguaggio e le argomentazioni si fanno tecnici, perché sarebbe fuori luogo ogni trattazione troppo ‘dottrinale’, p. 84-85).
Esempi analoghi vengono tratti anche dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale tedesca e della Corte di giustizia. Particolare è il caso americano: Autori come Cappelletti o Lasser, hanno già sottolineato il particolare impatto che le sentenze della Corte Suprema hanno sull’opinione pubblica e questo spiega anche l’importanza data alla motivazione e la lunghezza di molte delle pronunce del giudice americano. Il capitolo si chiude con un cenno alle possibili soluzioni ai problemi democratici che l’operato dei giudici presenterebbe, con uno sguardo ad alcune delle proposte provenienti dagli Stati Uniti, in cui spesso si scrive- a volte anche sulla scia della distinzione fra political e legal constitutionalism (si veda il bel pezzo in italiano di M.Goldoni su questo dibattito: “Che cos’è il costituzionalismo politico?”, http://www.dirittoequestionipubbliche.org/page/2010_n10/3-05_studi_M_Goldoni.pdf)- di abolizione del judicial review come soluzione (M. Tushnet, “Abolishing Judicial Review”, in 27 Const. Comment., 581 (2010-2011).
Il penultimo capitolo (“La ruota dei criceti”) prende spunto dalla nota vicenda Englaro, che ha visto Parlamento e Corte di Cassazione (con tanto di intervento anche della Corte costituzionale) fronteggiarsi in un feroce scontro che ha spaccato l’opinione pubblica.
Da un lato un Parlamento inerte, che non avrebbe saputo intervenire per regolare la questione, dall’altro dei giudici che avrebbero stravolto il dettato normativo. Entrambi, per motivi diversi, secondo molti, criticabili.
Ma questi tipi di conflitti sono davvero rari? È davvero possibile pensare di confinare i due sub-sistemi (Giudici e Parlamento) con una precisa actio finium regundorum?
Bin rilegge la separazione dei poteri alla luce della tensione fra le rationes dei giudici e la voluntas del legislatore, tensione che produce un complesso di azioni e reazioni: i conflitti, secondo questa lettura, sono fisiologici e sono alla base di quella che Halberstam chiama eterarchia costituzionale (D.Halberstam, “Constitutional Heterarchy: The Centrality of Conflict in the European Union and the United States” in J. Dunoff and J. Trachtman [eds.], In Ruling the World? Constitutionalism, International Law and Global Governance (2009) pp. 326-355).
Le conclusioni (“Qualche conclusione”) ripercorrono quanto proposto al lettore e cercano di ribadire l’importante lezione che dalla fisica viene al giurista, nel tentativo di superare definitivamente quell’ontologia del materialismo citata in apertura.
Allo stesso tempo viene ribadita l’importanza delle tensioni esistenti fra legislatore e giudice come momento di forza –e non di debolezza- dello Stato di diritto: “La tensione tra il potere di emanare le leggi e il potere di interpretarle e applicarle ai casi concreti genera l’equilibrio di forze che sostiene lo Stato di diritto e che dà senso alla separazione dei poteri. Come mostrano le strutture triangolari delle capriate che reggono le volte, talvolta per secoli e secoli, i due montanti si uniscono al centro e lì scaricano le loro forze opposte: perché ne risulti un equilibrio bisogna che siano ben distanziati i punti in cui essi si fissano alla base e che l’ancoraggio sia saldo” p. 107.
Il volume riesce a cogliere il suo obiettivo: quello di aprire una discussione importante su un terreno (quello dell’interpretazione) che, comunque, come lo stesso Bin riconosce, è stato già “arato” ma alla luce di argomenti e suggestioni nuove, quelle provenienti dalla fisica quantistica.
Un modo per sviluppare questo legame fra diritto e fisica è forse anche quello del linguaggio della complessità: in Francia, per esempio, il connubio fra fisica e scienze sociali ha influenzato, e non poco, l’opera di molti giuristi (pensiamo ai volumi di Delmas Marty anche alla luce dell’insegnamento di Edgar Morin).
Le stesse pagine su ordine e disordine o sull’entropia, presenti nel libro qui recensito potrebbero essere completate dal quanto scritto in un altro “classico” in questo ambito: la “Nuova Alleanza” di Prigogine e Stengers (I. Prigogine- I. Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, Einaudi, Torino 1999).
Il libro qui recensito è davvero ricchissimo. Tuttavia, Va precisato che non si tratta di un libro facile, anzi: il vostro recensore confessa di averlo dovuto leggere due volte per ritrovarvi tutto quello che vi ha raccontato. Probabilmente se lo leggesse ancora vi troverebbe altri spunti. Si tratta di un complimento che nasconde una certa invidia: non è facile trattare in meno di 110 pagine la mole di temi affrontati dall’Autore. Molto si trova nelle note, molte intuizioni non sono forse a pieno riscontrabili a prima vista, anche per la varietà di casi a cui Bin fa riferimento (si va dalla giurisprudenza italiana, a quella della Corte Suprema, alla Corte di giustizia, al Tribunale costituzionale tedesco). Insomma, si tratta di un libro-miniera, da leggere più volte, un vero arsenale di idee da maneggiare con cura per il giurista cultore del diritto nazionale, europeo o comparato; ovvero per il giurista moderno, quello che si potrebbe chiamare il “giurista quantistico”.
Il punto c) e d) delle premesse di Bin sono uguali.