Il Giudizio (o Silenzio?) Universale: una sentenza che non farà la storia

Il 26 Febbraio 2024 il tribunale di Roma si è espresso sulla causa A SUD e altri contro Italia, la prima causa climatica italiana: una sentenza di inammissibilità che molti hanno considerato una occasione sprecata.
Si illustrerà brevemente il caso e se ne fornirà un’interpretazione alla luce della giurisprudenza comparata e della recente sentenza di Verein KlimaSeniorinnen and others v. Switzerland, con cui la Corte EDU ha condannato lo Stato svizzero per insufficienza delle misure climatiche adottate.

La vicenda inizia il 4 giugno 2021 quando i ricorrenti (162 adulti, 17 minori e 24 associazioni) citano in giudizio lo stato italiano per responsabilità extracontrattuale in relazione alle politiche (ritenute inadeguate) di contrasto al cambiamento climatico poste in essere dallo Stato italiano.
L’azione legale, promossa nell’ambito della campagna Giudizio Universale, chiedeva l’accertamento della responsabilità dello Stato ex art. 2043 e, in subordine, 2051 c.c. per l’insufficiente abbattimento delle emissioni. Tali misure, secondo i ricorrenti, sarebbero state in violazione di fonti europee ed internazionali e in violazione del diritto al clima (non esplicitamente riconosciuto dall’ordinamento ma derivabile in via interpretativa) e dei diritti fondamentali ad esso correlati e tutelati dall’ordinamento nazionale e dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo quali il diritto alla vita (art. 2), alla vita privata e familiare (art. 8), nonché il divieto di discriminazione (art. 14).
Sotto il profilo rimediale, gli attori invocavano l’art. 2058 c.c., in base al quale «Il danneggiato può chiedere la reintegrazione in forma specifica, qualora sia in tutto o in parte possibile», chiedendo che il Tribunale ordinasse «l’adozione di ogni necessaria iniziativa per l’abbattimento, entro il 2030, delle emissioni nazionali artificiali di CO2 nella misura del 92% rispetto ai livelli del 1990», con riferimento specifico anche alla conformazione (o adeguamento) del Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC).
In risposta, la Presidenza del Consiglio dei Ministri opponeva l’inammissibilità della domanda per «sconfinamento ed eccesso di potere giurisdizionale», chiedendo che il Tribunale dichiarasse il difetto di giurisdizione del giudice ordinario o, alternativamente, l’insussistenza della responsabilità dello Stato «a fronte del carattere planetario del fenomeno del surriscaldamento globale». Il tribunale ordinario di Roma ha dichiarato il ricorso inammissibile per difetto assoluto di giurisdizione.
La Giudice Canonaco, dopo una brevissima ricostruzione del quadro internazionale in tema di cambiamento climatico, dichiara i dati sull’impatto delle politiche climatiche del Governo presentati dai ricorrenti «non verificabili in questa sede, non disponendo questo giudice delle informazioni necessarie», limitandosi poi a constatare che  «le decisioni relative alle modalità e ai tempi di gestione del cambiamento climatico antropogenico (…) rientrano nella sfera di attribuzione degli organi politici e non sono sanzionabili nell’odierno giudizio». Viene poi ribadita l’insindacabilità dell’atto politico e l’inapplicabilità del rimedio civilistico, dichiarando, pertanto, il difetto assoluto di giurisdizione e invitando i ricorrenti a fare riferimento al più competente tribunale amministrativo.

La sentenza non appare convincente su molteplici livelli di lettura.
Anzitutto, sotto il profilo istruttorio, non è chiaro perché un giudice amministrativo sia più competente a discutere dati scientifici, come sottolineato anche da Giacomo Palombino. Peraltro, le corti sono chiamate da tempo, ed in misura sempre maggiore, a dotarsi degli strumenti per decidere su materie sempre più tecniche ma per questo non meno incisive sui diritti fondamentali dei cittadini (basti pensare alla cybersecurity o agli impatti ambientali delle politiche industriali ed energetiche). Appare quindi un po’ anacronistico che il tribunale utilizzi la propria incapacità di verificare e interpretare i dati presentati come scudo per sottrarsi all’analisi nel merito, soprattutto alla luce di principi di diritto consolidati come il principio di precauzione o quello della “best available science” da un lato, e la possibilità di avvalersi di esperti scientifici che sono in grado, oltre a dare un parere tecnico, di semplificare un fenomeno complesso come quello del cambiamento climatico (sul punto,  v. Stavenato “se un fisico legge la sentenza Giudizio Universale”).

Come la stessa motivazione rileva, «la domanda si inserisce nell’ambito di una serie di controversie azionate in diversi paesi europei che hanno come comune denominatore la tematica del cambiamento climatico antropogenico». La categoria di climate (change) litigation, che si sviluppa a partire dalla sentenza Urgenda, include diverse tipologie di contenzioso che, pur configurando un fenomeno globale, assumono forme specifiche a seconda del contesto nazionale e locale. Tutte sono però definite dal carattere strategico delle cause, nelle quali «tribunal decisions directly and expressly raise an issue of fact or law regarding the substance or policy of climate change causes and impacts». In particolare, il tipo di casistica che ha avuto maggior fortuna nello spazio europeo prevede la richiesta alle corti di condannare lo Stato per l’inadeguato assolvimento degli impegni assunti con gli accordi di Parigi in termine di riduzione delle emissioni di CO2. Tali azioni sono state proposte, in linea con le peculiarità del caso, del sistema nazionale delle corti e delle modalità di accesso previste, di fronte a giurisdizioni civili (VZW Klimaatzaak v. Kingdom of Belgium & Others, ClientEarth v. Poland, Urgenda Foundation v. State of the Natherlands), tribunali amministrativi (Finnish Association for Nature Conservation and Greenpeace v. Finland, Greenpeace v. Spain, Notre Affaire a Tous and Others v. France) e Corti costituzionali (Neubauer, et al. v. Germany).

Pur inserendosi in questa casistica, l’azione Giudizio Universale se ne distanzia in modo molto netto: con le sue quattordici pagine in totale, il giudizio spicca infatti per brevità e scarsezza argomentativa.
Nel caso spagnolo, ad esempio, affermata la competenza del giudice di sindacare la legalità (anche se non l’appropriatezza sul piano politico, nel rispetto del principio di separazione dei poteri) dell’atto politico, la Corte amministrativa avanzava un argomento molto esteso, volto a sostenere la prevalenza degli accordi europei sugli impegni presi con gli accordi di Parigi. Secondo il tribunale spagnolo: a) gli accordi di Parigi costituiscono un trattato misto, che prevede un’azione congiunta in seno all’UE, b) le varie Conferenze delle Parti (‘COP’), che (secondo il giudice) stabiliscono il parametro interpretativo per l’effettivo contenuto  degli accordi, avrebbero determinato una rimodulazione dei tagli alle emissioni, soprattutto in concomitanza con situazioni straordinarie quali la pandemia globale e la guerra in Ucraina c) si rileva l’esigenza di tenere conto dell’impatto di tali misure sull’economia e sul mercato del lavoro dello Stato, che giustificherebbe un più ampio margine di apprezzamento. Indipendentemente dalla condivisibilità degli argomenti, il tribunale ritiene di dover lungamente giustificare la sua decisione nel merito, dove la sentenza in oggetto non scalfisce neanche la superficie.

Quanto all’applicabilità del rimedio civilistico, una interessante interpretazione arriva dalla corte di primo grado del caso belga, che invece (con sentenza poi confermata dalla Corte di Appello) condanna lo Stato proprio attraverso il procedimento civile, individuando una responsabilità extracontrattuale delle autorità statali ai sensi degli articoli 1382 e 1383 del Codice Civile, in quanto «they are not behaving like good fathers in pursuing their climate policy and are thus damaging the interests of the plaintiffs». (p. 42). Diversamente dal caso spagnolo, il giudice belga ragiona sul piano dell’effettività, sorvolando sulla possibilità di individuare target maggiori contestando, invece, l’evidenza lo standard minimo non sia stato rispettato: infatti, la corte belga conclude che «neither the federal State nor any of the three Regions acted with prudence and diligence within the meaning of article 1382 of the Civil Code». (p. 79).

Infine, la sentenza della giudice italiana potrebbe prestarsi ad essere criticata sulla base degli standard internazionali fissati dalla giurisprudenza recente di Strasburgo nel già citato caso di condanna alla Svizzera: nell’interpretazione sul diritto di accesso alla giustizia (art. 6), la Corte ha infatti sottolineato che non rileva tanto la sede specifica in cui si porta la causa o la natura della norma a cui ci si riferisce, quanto l’esistenza di un “diritto civile” azionabile dalla persona in questione (§ 597), il quale si configura quando la legislazione domestica riconosce un diritto individuale alla protezione dell’ambiente (§ 600). Riguardo a limitare il diritto di accesso sulla base del principio di separazione dei poteri, la Corte EDU sottolinea che tale opzione deve essere sempre bilanciata con la possibile violazione di diritti fondamentali, quali il diritto alla salute o quello a vivere in un ambiente salubre: «this kind of action cannot automatically be seen as involving a political issue which the court should not engage with» (§ 634). Ora, il diritto a vivere in un ambiente salubre non ha solo una lunga storia di riconoscimento giurisprudenziale in Italia, ma è a tutti gli effetti entrato nel testo costituzionale con la recente modifica degli artt. 9 e 41 della Costituzione, di cui la sentenza non fa neppure menzione, e che afferma tale diritto «anche nell’interesse delle future generazioni» (Art 9 Cost).

Alla luce dell’analisi qui effettuata, se si può evidenziare la coerenza della Corte con buona parte della giurisprudenza precedente, è comunque difficile argomentare che la Corte abbia di fatto “deciso”, mentre piuttosto sembra lasciare la palla ai successivi gradi di giustizio, con la sopraggiunta spada di Damocle di una possibile  condanna CEDU, se le corti interne dovessero proseguire sul tenore della «sintetica e a tratti scarna struttura argomentativa» di Giudizio Universale.