Il giudice antropologo, di Ilenia Ruggiu (FrancoAngeli, 2012)
Nonostante gli studi sul multiculturalismo occupino l’attenzione della dottrina costituzionalista ormai da tanti anni, l’applicazione degli schemi tipici del costituzionalismo di matrice liberale ha messo in evidenza le lacune di un sistema che in questa materia – tanto interessante quanto sfuggente – si è rivelato essere per alcuni tratti obsoleto e per altri inadeguato. Difatti, tutti gli strumenti classici elaborati dal costituzionalismo per la costruzione di una dogmatica dell’uguaglianza devono ammettere la propria sconfitta nel momento in cui non riescono a soddisfare la necessità di predisporre una “dogmatica della differenza”. Le “scintille multiculturali” agitano ormai anche le società che per tradizione sono culturalmente omogenee, dando vita a conflitti per la cui soluzione sociologi, antropologi, giuristi etc. hanno fatto scorrere fiumi di parole nel tentativo di trovare delle soluzioni adeguate.
Ed è in questo contesto che si inserisce l’opera di Ilenia Ruggiu, Il giudice antropologo, opera già recensita su questo stesso blog da Pannia e Stradella. Brillante e vivace giurista, la Ruggiu ha affrontato una questione tanto delicata come quella dei conflitti culturali vestendo lei stessa per prima i panni dell’antropologo, contemporaneamente interrogandosi su quale dovrebbe essere l’iter logico-argomentativo utilizzato dal giudice chiamato a pronunciarsi su casi che coinvolgono l’argomento culturale. Con un approccio provocatorio ed originale, l’Autrice affronta la tematica dei conflitti culturali con una verve che aggiunge linfa vitale tanto agli studi culturali quanto a quelli giuridici. Originalità e provocazione che, partendo dalla scelta del titolo, si dipanano per tutta l’articolazione dell’esposizione e nella metodologia utilizzata, mantenendosi vive in tutta la loro intensità fino a raggiungere l’apice nella proposta conclusiva.
Ma procediamo con ordine.
Diversi sono i meriti dell’opera: innanzitutto, l’Autrice è stata coraggiosa nell’optare per degli stili alternativi rispetto a quelli tradizionalmente utilizzati dai giuristi. Attraverso nuovi linguaggi, quali la narrativa, il cinema e la fotografia e un approccio casistico l’Autrice si improvvisa cantastorie, trattando fatti oggetto di vicende giuridiche in modo narrativo, veicolando così le diverse idee di cultura che convivono nello stesso spazio e facendo intersecare il piano sociale con quello giuridico. Il lettore non rimane spettatore passivo, ma si trasforma in protagonista: viene preso per mano e condotto attraverso i meandri di una tematica tanto complessa quanto affascinante, quale quella dell’utilizzo dell’argomento culturale da parte dei giudici.
Il punto di partenza del lavoro è costituito dalla presa d’atto della mancanza di modelli di riconoscimento condivisi (che di fatto ha ostacolato una compiuta teorizzazione del multiculturalismo dentro la teoria dei diritti fondamentali); il punto di arrivo è invece rappresentato dall’elaborazione di una teoria sistematica per la composizione dei conflitti culturali. Il trait d’union è rappresentato dall’interpretazione giudiziale dell’argomento culturale, la cui analisi è stata condotta mediante l’utilizzo del metodo comparato e di un approccio interdisciplinare. Cosi, il viaggio in cui l’Autrice ci fa da brillante guida turistica si compone di diverse tappe: da una prima tappa “descrittiva” si approda ad un livello “prescrittivo”, lasciando la fase “de-costruttiva” come passaggio intermedio. Il collegamento tra le tre diverse tappe avviene in modo fluido, anche se non va esente da pericoli, di cui le stesse Pannia e Stradella ci avvertono.
È la stessa Autrice che sottolinea le istruzioni per l’uso: il lettore viene quindi sollecitato a prestare attenzione, innanzitutto, per quanto riguarda i confini dell’oggetto e l’aurea di novità che lo circonda (almeno agli occhi del giurista). In secondo luogo, quello dei conflitti culturali costituisce un terreno nel quale le più generali trasformazioni che inevitabilmente stanno investendo il diritto costituzionale si manifestano con più vigore, determinando l’inadattabilità degli strumenti tradizionali ai conflitti culturali. Gli studi culturali in generale sfuggono al prisma degli schemi costituzionalistici di tradizione classica. Nonostante una loro possibile collocazione nella teoria dei diritti fondamentali, la lettura attraverso le lenti del positivismo o comunque attraverso il classico bilanciamento tra diritti incontra degli ostacoli: le dinamiche multiculturali sfuggono a questi meccanismi, che spesso si macchiano di etnocentrismo e di imperialismo occidentale.
Date le carenze dei metodi tradizionali, uno dei punti di forza del presente lavoro è l’abilità con la quale l’Autrice mostra di destreggiarsi tra differenti metodi combinandoli saggiamente tra di loro. Si tratta del metodo casistico, di quello comparato e, infine, di quello interdisciplinare: i passaggi dall’uno all’altro sono dinamici, bypassando soluzioni troppo statiche. Se da un lato, l’approccio casistico consente di ricondurre a sistema una teoria in via induttiva, che abbia come punto di partenza i principi elaborati dalla giurisprudenza, dall’altro è proprio in tematiche come quelle multiculturali che il metodo comparato riesce ad esprimere tutte le sue virtualità. L’analisi di soluzioni giudiziali adottate in ordinamenti “altri” consente anche al giurista di casa nostra di poter usufruire di un paniere di soluzioni e di argomenti e tecniche sviluppate altrove, consentendogli di riflettere, con un orizzonte interpretativo ampliato dalle esperienze altrui, su quali possano essere gli elementi da utilizzare e quali invece eliminare perché legati ad un contesto storico specifico o perché non sufficientemente persuasivi.
Ma ciò non basta. È necessario avvalersi di un metodo ulteriore che funzioni come raccordo e sia in grado di mettere in comunicazione le idee di cultura che circolano nell’antropologia e nell’argomentazione giuridica. In primo luogo perché affrontare il tema della cultura senza l’apporto dell’antropologia viene definito dall’Autrice stessa come un suicidio scientifico. Il giurista che si approccia agli studi sul multiculturalismo è tenuto a possedere la massima conoscenza del concetto cardine: la cultura. Egli deve però avere uno sguardo aperto trattandosi di una materia agitata da una complessa rete di problematiche e da un articolato sovrapporsi di soluzioni, ripensamenti, correzioni ed evoluzioni che consentono allo studioso che si occupa di questa materia di avere una quantità rilevante di materiale sul quale lavorare. In secondo luogo, quando il discorso culturale si sviluppa nella società e viene concettualizzato dagli studi antropologici, la sua commistione con il diritto diventa inevitabile richiedendo allo stesso tempo che quest’ultimo sia un protagonista attivo di questo processo di commistione.
E il diritto interpreta questo ruolo di protagonista attivo proprio nelle aule giudiziarie e nell’iter argomentativo che li viene prodotto. Così, frugando nel marasma di decisioni nelle quali in un modo o nell’altro la cultura viene in rilievo (secondo le delimitazioni del concetto individuate dall’Autrice) quando i giudici sono chiamati ad occuparsi di “cultura” è possibile rinvenire dei loci o dei topoi che fungono da punti fermi nella risoluzione dei conflitti sui quali è possibile fare affidamento?
Uno dei momenti più delicati del lavoro della Ruggiu, che poi rappresenta anche uno dei punti più facilmente contestabili e problematici dell’attività svolta dagli stessi giudici, è rappresentato dalla necessità di fornire una definizione preliminare del campo di indagine. Come si individua l’argomento culturale giuridicamente rilevante? Nonostante le difficoltà e forse anche l’inutilità di ingabbiare un concetto tanto cangiante e dalle mille sfaccettature quale quello di cultura in una definizione che lo priverebbe di tutte le sue virtualità espressive, l’Autrice circoscrive l’argomento della sua trattazione individuandolo sia in senso soggettivo, che in senso oggettivo. In primo luogo, occorre sgombrare il campo da un pregiudizio che può portare confusione. Non sono culturali tutti quei casi individuati per il solo fatto di coinvolgere stranieri. Sarebbero culturali, invece, quei conflitti che intercorrono tra la maggioranza della società ed immigrati e minoranze nazionali, con esclusione sia delle minoranze regionali, che di tutti quei gruppi che potrebbero essere considerati culturali in seguito alla dilatazione del concetto stesso di cultura, ma che in realtà altro non sono che gruppi sociali. La ratio della distinzione risiede in un contrasto normativo, tra due ordini giuridici diversi: uno è quello dello Stato, l’altro sarebbe l’ordinamento culturale di appartenenza dell’individuo. Il “sistema cultura” sarebbe allo stesso tempo rete di significati e rete di regole e darebbe vita ad una sorta di ordinamento giuridico parallelo, che ha propri criteri di riconoscimento.
Dal punto di vista oggettivo, la delimitazione del campo d’indagine è forse più complicata in quanto deriva dalla combinazione di due definizioni: la prima è quella fornita dall’antropologia interpretativa (alla quale l’Autrice fa ampio riferimento nel cap. 3, par. 7), l’altra invece è quella più comunemente indicata nei manuali di antropologia. Dalla combinazione di queste due definizioni, l’Autrice delimita il campo d’indagine individuandolo nelle «operazioni argomentative del giudice che opera come interprete di modelli di pensiero e azione, di sistemi semiotici, diversi da quelli cui lui appartiene e in cui i membri della maggioranza comunicano (…)» (Il giudice antropologo, pag. 55).
L’assenza di un approccio teorico sistematizzato e completo, pertanto, è stata supplita (forse forzatamente) dal basso. Sono i giudici – e non i legislatori – che, protagonisti di queste dinamiche (essendo chiamati di volta in volta a comporre i conflitti culturali), sono arrivati, forse anche involontariamente e inconsapevolmente, a cercare delle soluzioni che piano piano stanno assumendo la dignità e la sistematicità di teoria. Accusati spesso di attivismo giudiziario, i giudici si rendono protagonisti di una dinamica di formazione giurisprudenziale del diritto che, nonostante le resistenze dei giuspositivisti, non rappresenta una novità e trova il suo momento emblematico proprio nel multiculturalismo. Il diritto diventa cosi arte di risolvere casi concreti attraverso un ragionare per problemi piuttosto che per sistemi astrattamente dedotti da una norma: la composizione dei conflitti culturali ha determinato il risveglio della tradizione topica. Ed è proprio questo il secondo punto del lavoro della Ruggiu che potrebbe prestarsi a critiche.
In realtà, la ricostruzione della giurisprudenza che, sia a livello nazionale che comparato, si è occupata dei conflitti culturali, viene condotta dall’Autrice con passione e profondità, ponendo l’accento sugli elementi che i giudici considerano maggiormente rilevanti nel dare riconoscimento alla cultura e su quali siano le tecniche argomentative da questi privilegiate.
L’approccio casistico sviluppato dai giudici non rinuncia comunque ad una sistematizzazione teorica dei risultati, fondamentale nel momento in cui si cerca di dare una qualche formalità giuridica ad un iter logico-argomentativo elaborato sul campo. Ma anche nel momento in cui si dovesse arrivare ad una dogmatica ben precisa e sistematizzata, si andrebbe comunque incontro a dei rischi che secondo l’Autrice potrebbero essere evitati mediante una via d’uscita che rappresenta il fulcro della ricerca. Si tratta del test culturale, cartina al tornasole per “misurare” i conflitti multiculturali, il cui fine ultimo sarebbe quello di procedimentalizzare l’iter argomentativo condotto dal giudice. Il test culturale proposto dall’Autrice svolgerebbe la funzione di guidare il giudice, che nella sua motivazione può usufruire di guide sicure per affrontare le questioni culturali. Ed è proprio questo il punto di grande originalità del lavoro della Ruggiu: il tentare di trovare una soluzione, presa in prestito dall’esperienza comparata (in particolare, dalla giurisprudenza nordamericana) per portare a soluzione i conflitti culturali. Premessa irrinunciabile ad un corretto utilizzo di qualunque test (ma anche condizione di pre-comprensione dello stesso argomento culturale) è rappresentato dalla lettura del fatto oggetto della controversia attraverso la prospettiva della parte che è portatrice di un’altra visione del mondo (pag. 289).
Grandi le potenzialità del test culturale, ma numerosi anche i rischi. Da un lato, il test potrebbe essere usato anche a livello normativo dai legislatori che si adoperano per fornire delle risposte a tali conflitti. Allo stesso tempo potrebbe funzionare come criterio di ragionevolezza nell’iter logico argomentativo condotto dalla stessa Corte costituzionale. Dall’altro, è la stessa tradizione giuridica italiana che nel fare resistenza ad accogliere il test, strumento nato e cresciuto nel campo delle discipline scientifiche, evidenzia come si tratti di uno strumento potenzialmente pericoloso. La sua introduzione nell’argomentazione giuridica sarebbe quindi stridente specialmente laddove fosse visto come una “ricetta preconfezionata”, come una griglia con domande alle quali il giudice è chiamato a rispondere o si o no.
Ma, come sottolinea l’Autrice, il test non vuole introdurre delle gerarchie di valori: il suo potenziale risiede nel rappresentare uno strumento antropologico di base da fornire ai giudici laddove siano chiamati ad occuparsi di tematiche che coinvolgono elementi “altri” o “extra-sistema” o comunque materie sulle quali persiste ancora un poco di confusione dovuta al fatto che mancano gli adeguati strumenti conoscitivi. Questa carenza può comportare il rischio, come avverte l’Autrice, a sentenze troppo distanti tra di loro e alla perpetuazione di stereotipi e pregiudizi.
Per quanto opinabile possa essere la bontà dell’utilizzo di un test culturale nell’argomentazione giudiziale (sulla cui bontà, peraltro, concordo pienamente), il merito del lavoro svolto dall’Autrice è quello di rilevare come ci troviamo di fronte ad una tradizione giuridica comune, seppur in divenire. Tradizione che nascerebbe come risultato di un dialogo tra giurisprudenze e che, oltre a sfociare nella circolazione di modelli, si auspica confluisca anche in una consapevolezza giuridica che consenta al diritto costituzionale contemporaneo di dotarsi di un bagaglio categoriale e argomentativo che doti il giudice antropologo di una bussola per districarsi tra le intricate rotte del multiculturalismo (pag. 349).