Il futuro dell’Ungheria fra Regolamento condizionalità e Recovery Plan: quali indicazioni dalla doppia decisione del Consiglio?
Quella del 15 dicembre 2022 è una data, almeno in potenza, carica di significato per quanto concerne il futuro dell’Ungheria. In quella giornata, infatti, il Consiglio (ECOFIN) ha dato il via libera, inter alia, a due decisioni di esecuzione di grande importanza concernenti l’ordinamento ungherese.
Con la prima, a norma del Regolamento 2020/2092 sulla condizionalità di bilancio, i ministri delle finanze dei Paesi membri hanno stabilito la sospensione del 55% degli impegni economici assunti dall’Unione nell’ambito di tre programmi operativi della politica di coesione relativi all’ambiente, al trasporto e allo sviluppo del territorio, a cui si aggiunge il divieto per la Commissione di assumere, in regime di gestione diretta o indiretta del bilancio, nuovi impegni giuridici con trust di interesse pubblico costituiti all’interno del Paese membro. Tale decisione, il cui impatto economico è stimato in circa 6,3 miliardi di euro, fa seguito alla comunicazione della Commissione del 30 novembre scorso nella quale si rilevava l’adeguatezza solamente parziale della risposta correttiva attuata dalle autorità ungheresi (si veda qui, qui, qui e qui). Serve, infatti, ricordare che il governo di Budapest, a fronte dell’iniziale notifica della Commissione del 27 aprile 2022 con cui si contestavano gravi deficit riguardanti la disciplina degli appalti pubblici, il quadro anticorruzione, nonché l’organizzazione e il funzionamento delle procure, si era impegnato a porre in essere un piano comprensivo di 17 progetti di riforma volti a correggere, allorché pienamente implementati, i richiamati vulnera.
Con la seconda, invece, il Consiglio ha dato il via libera al piano nazionale ungherese per la ripresa e la resilienza disposto ai sensi del Regolamento 2021/241 il quale, presentato alla Commissione nell’ormai lontano 11 maggio 2021, era rimasto de facto congelato stante le note problematiche che da tempo affliggono l’Ungheria sul piano del rispetto dei principi della rule of law. Conformemente alla proposta formulata dalla Commissione il 30 novembre 2022, tuttavia, la dotazione di circa 5,8 miliardi di euro sottoforma di sovvenzioni potrà essere effettivamente versata nelle casse ungheresi solo dopo che quest’ultima avrà soddisfatto il raggiungimento di 27 milestones finalizzate a rafforzare la protezione dello Stato di diritto, quanto la salvaguardia degli interessi finanziari dell’Unione, assicurando un adeguato sistema di controlli nell’utilizzo delle erogazioni eurounitarie. Un insieme di interventi più esteso e solo in parte collimante con quanto richiesto dalla procedura instaurata ai sensi del Regolamento sulla condizionalità – si pensi alla normativa anticorruzione e a quella sugli appalti – toccando aspetti nevralgici dell’architettura istituzionale magiaro come l’indipendenza dell’ordinamento giudiziario.
Sebbene non bisogna cadere nell’errore di pensare che i due procedimenti siano parte di un unico strumento, è altrettanto vero che i tempi (e le modalità) con cui si è giunti alla loro approvazione, così una parte degli obiettivi che entrambi si prefiggono nei confronti del Paese destinatario, suggeriscono alcune considerazioni “comuni”. Gli istituti disposti, rispettivamente, dal Regolamento 2020/2092 e dal Regolamento 2021/241 rappresentano la complementare estrinsecazione delle potenzialità insite nel concetto stesso di condizionalità. Da un lato, quella negativa e in sostanza sanzionatoria, legata alla sospensione dei fondi. Dall’altro, quella positiva, e per certi versi premiale, connessa all’attribuzione dei fondi del programma Next Generation EU. In entrambi i casi, come dimostra l’esempio della loro applicazione nei confronti dell’Ungheria, la finalità è comune e consiste nell’attivazione di una procedura dialogica – rafforzata dal condizionamento economico – volta ad incidere in misura anche significativa sulle politiche interne dello Stato membro in modo che esse si conformino agli standard imposti dal diritto europeo.
Analizzando più da vicino l’intera vicenda, come spesso accade quando si osserva l’orizzonte europeo, non si può fare a meno di rilevare segnali contrastanti che spingono a tenere separati gli aspetti positivi da quelli negativi, entrambi presenti nella fattispecie de quo. Partendo dalle note più dolenti, queste insistono sulle questioni più strettamente connesse al metodo, evidenziando una problematica per certi versi atavica legata all’assunzione di decisioni rientranti nell’orbita intergovernativa: la sempre più marcata insostenibilità della regola che sovente impone il voto all’unanimità nelle deliberazioni rimesse ai rappresentanti dei governi degli Stati membri, attribuendo a ciascuno di essi un vero e proprio potere di veto. Nell’occasione, infatti, i provvedimenti riguardanti l’Ungheria sono stati inseriti all’interno di un pacchetto più ampio contenente una modifica al Regolamento 2020/2093 relativo al quadro finanziario pluriennale 2021-2027 in modo da permettere per l’anno 2023 l’assistenza economica nei confronti dell’Ucraina, e l’adozione di una direttiva tesa a garantire un’imposizione fiscale minima per i gruppi di imprese multinazionali. Dinanzi al veto minacciato da Budapest, da ultimo, la percentuale dei fondi di coesione oggetto di sospensione è scesa dall’inziale percentuale del 65% (circa 7,5 miliardi di euro) prospettata dalla proposta della Commissione del 18 settembre 2022, all’attuale 55%. Ancorché ufficialmente motivata in ragione degli interventi correttivi medio tempore adottati dall’Ungheria, è difficile non intravedere (anche) la presenza di ragioni di realpolitik, neppure troppo celate, dietro questa sensibile decurtazione.
Venendo, invece, agli aspetti di maggior impatto positivo, questi riguardano più specificamente il merito delle decisioni adottate dal Consiglio. In primis, la volontà di procedere sino in fondo nei confronti dell’Ungheria, sfruttando le potenzialità del Regolamento 2020/2092 dopo mesi di travaglio – legati più che altro alla sua effettiva entrata in funzione – giungendo all’adozione di misure concrete (fra gli altri, qui e qui). In secondo luogo, la scelta di applicare, almeno formalmente, con rigore l’art. 19, par. 3, lett. J) del Regolamento 2021/241, subordinando l’attuazione del piano nazionale di ripresa ungherese al primario conseguimento di specifici obiettivi. Anche con riferimento a tali aspetti, nondimeno, si sono alzate voci critiche volte a segnalare un approccio europeo eccessivamente accomodante. Rispetto all’applicazione del Regolamento 2020/2092, data la pervasività dei fenomeni corruttivi di altissimo livello ormai strutturati all’interno del sistema politico ed economico ungherese, vieppiù nel quadro di un ordinamento del quale si dubita finanche la riconducibilità all’interno della tassonomia liberaldemocratica – come affermato dal Parlamento europeo nella risoluzione del 15 settembre scorso – non si comprenderebbero le ragioni del limitarsi a sospendere una mera percentuale di (solo) taluni fondi di coesione. Ciò, considerando come la condizionalità di bilancio rappresenti uno strumento orizzontale applicabile nei confronti di ciascuna delle voci del quadro finanziario europeo pluriennale destinate al singolo Paese. Al tempo stesso, però, pare opportuno segnalare come le attuali condizioni economiche dell’Ungheria, alle quali si aggiunga la dipendenza della stessa dai finanziamenti europei, può rendere l’attuale taglio di una parte delle risorse tutt’altro che irrilevante. Riguardo all’approvazione del PNRR, invece, anche in presenza di diverse milestones, si potrebbe scorgere una sorta di mano tesa nei confronti del governo ungherese. Ai sensi del combinato degli artt. 12, par. 2 e 13, par. 1 del Regolamento 2021/241, in caso di mancato stanziamento dei contributi finanziari entro la data del 31 dicembre 2022, il 70% degli stessi sarebbe andato perso in via definitiva. Così, invece, l’Ungheria ha davanti a sé un più ampio margine temporale per poter riuscire ad ottenere i pagamenti.
Al di là delle diverse chiavi di lettura che si possono proporre, c’è forse un elemento che per la prima volta emerge in chiave inedita nello scontro fra Unione europea ed Ungheria: l’inversione dei ruoli fra che chi insegue e che chi è inseguito. Commissione e Consiglio hanno fatto la loro mossa e ora la palla passa nel campo dell’Ungheria. Se fino ad ora era sempre stata l’Unione a doversi peritare di individuare soluzioni in grado di porre rimedio alla progressiva regressione illiberale in atto a Budapest, l’inerzia sembra essersi spostata in una diversa direzione. L’ottenimento delle risorse economiche in gioco dipende ora dal percorso che le istituzioni di quest’ultima decideranno di intraprendere, con la consapevolezza che le condizioni dettate dall’Unione richiedono il loro recepimento entro tempi certi. Se le somme messe a disposizione dal dispositivo per la ripresa e la resilienza devono essere spese entro e non oltre il 31 dicembre 2026, la sospensioni dettate dal Regolamento sulla condizionalità di bilancio divengono definitive qualora gli importi non sino iscritti al bilancio oltre il secondo anno. Vero è che molto dipenderà anche dalla severità con la quale verranno scrutinate le riforme che con buona probabilità verranno approvate nei prossimi mesi dall’Ungheria, consci di come le sue autorità si siano dimostrate nel passato più recente assolutamente abili nel porre in essere misure solo all’apparenza in grado di convergere in direzione dei valori fondamentali dell’Unione. La speranza, dunque, è che permanga la medesima impostazione (attualmente) intransigente adottata nei confronti delle riforme del sistema giudiziario realizzate in Polonia, a loro volta costituenti le premesse necessarie per accedere alle risorse del suo piano nazionale di ripresa e resilienza (per un commento, qui, qui e qui).
I prossimi mesi, pertanto, saranno fondamentali per testare non solo la determinazione dell’Ungheria, bensì la resilienza dell’Unione in quanto tale. La sua determinazione nel proteggere i valori dello Stato di diritto e, in ultimo, se stessa. Dopo anni in cui il difficile compito è stato fatto gravare pressoché unicamente sul giudiziario, ossia sulla Corte di Giustizia, con la duplice decisione del 15 dicembre scorso si assiste, finalmente, ad un ritorno del politico. Sperando che gli anni di ingiustificata assenza non siano trascorsi inutilmente ma abbiano favorito una riflessione su quali errori è bene non commettere più, in futuro.