Il diritto comparato nel prisma delle regressioni democratiche. Recensione al volume di Rosalind Dixon e David Landau, Abusive Constitutional Borrowing. Legal Globalization and the Subversion of Liberal Democracy, Oxford University Press, 2021
1. Se gli anni 1990 sembravano aver trasformato la democrazia costituzionale in un modello a cui tendere per i paesi delle più varie parti del mondo (al punto che si è parlato di un “costituzionalismo globale”), ormai da diversi lustri domina invece la tendenza opposta: quella delle regressioni democratiche, che vedono un lento scivolamento delle democrazie (vecchie e nuove) verso forme (nuove e vecchie) di autoritarismo.
Come mostrano in Europa le vicende della Polonia e dell’Ungheria, questa trasformazione non sta avvenendo con la classica tecnica dei colpi di Stato, in declino un po’ ovunque, ma attraverso processi di tipo nuovo, che rappresentano una sorta di “transizioni al contrario”, finalizzate a concentrare il potere in capo ai governi e a rendere permanenti e non contendibili le maggioranze elettorali che li sostengono.
In questi processi, di solito, non vengono attaccati esplicitamente gli aspetti “universalistici” delle costituzioni, ovvero i diritti fondamentali, a testimonianza di quanto siano importanti anche nei regimi autoritari le costituzioni di facciata e di quanto sia resistente la retorica dei diritti umani. È invece presa di mira, attraverso una sequenza di mutamenti che, considerati uno per uno, possono non apparire pericolosi, la parte istituzionale delle costituzioni, ovvero i checks and balances e l’indipendenza degli organi di garanzia, elementi cardine rule of law costituzionale.
L’apertura al diritto internazionale e al diritto comparato è stata il carattere del “costituzionalismo globale” che proprio sulla circolazione di esperienze e modelli, oltre che su frequentazioni e confronti tra studiosi di molte parti del mondo, si è fondato. Le transizioni democratiche avviate dopo il 1989 hanno messo in moto una “migrazione di idee costituzionali” di dimensione mai vista. La scrittura di nuove costituzioni, l’istituzione di corti costituzionali, l’intensificarsi dell’influenza di organizzazioni e tribunali internazionali e sovranazionali, sono stati accompagnati da una grande fioritura degli studi comparatistici, facilitata dagli sviluppi delle tecnologie informatiche.
L’epoca delle regressioni democratiche è, invece, un’epoca di chiusura. Nella maggior parte dei paesi coinvolti in questi fenomeni, l’acquis del “costituzionalismo globale” è rigettato, in nome di una difesa della sovranità statale da interferenze esterne, difesa che si traduce nell’invocazione di “specificità locali”, sovente camuffate sotto l’indefinita etichetta di “identità costituzionale”.
Nonostante ciò, la circolazione del diritto e l’interconnessione tra ordinamenti hanno ormai raggiunto livelli di non ritorno, rendendo in qualche modo inevitabile, anche per questi paesi, il confronto con il diritto sovra-nazionale e con il diritto comparato.
Ciò determina forme di manipolazione e decontestualizzazione di modelli ed esperienze stranieri, asserviti strumentalmente alla giustificazione di regimi che tendono a limitare o corrompere, comunque a strumentalizzare, nozioni e istituti che, negli ordinamenti di riferimento hanno avuto e hanno ben altro significato.
Indicativa al riguardo, l’importazione in Polonia e Ungheria della nozione di identità costituzionale che avviene attraverso citazioni, anche da parte dei Tribunali costituzionali, di interi brani di sentenze del Tribunale costituzionale federale tedesco allo scopo di rigettare il primato del diritto europeo su quello nazionale. Con una “piccola differenza”: la resistenza tedesca all’incondizionata prevalenza del diritto europeo si giustifica per la difesa della democrazia (in presenza del cosiddetto e ben noto deficit democratico delle istituzioni europee), mentre la resistenza di quegli altri Paesi mira, al contrario, a limitarla.
2. Questo scenario è oggetto di un recente volume, scritto da due degli studiosi di diritto costituzionale comparato che, con maggiore continuità e profondità, si dedicano ad analizzare le regressioni democratiche del nostro tempo. Rosalind Dixon e David Landau esplorano quella che definiscono, già nell’introduzione, “a dark side of Comparative Constitutional Law”, ovvero l’utilizzo, in contesti di regressione democratica, di concetti e dottrine propri delle democrazie liberali allo scopo di ricercare argomenti e casi sui quali appoggiare soluzioni normative o giurisprudenziali funzionali a progetti autoritari (p. 3). Questa tendenza comporta strumentalizzazioni indesiderabili ma è, al tempo stesso, un indicatore del prestigio di cui pur tuttavia gode la democrazia liberale: al punto che anche i suoi nemici sono costretti a usare esempi pescati dalla tradizione ch’essi combattono (p. 11).
L’utilizzo abusivo del diritto comparato si manifesta, secondo gli autori, attraverso un constitutional borrowing superficiale, selettivo, decontestualizzato e finalizzato a uno scopo opposto a quello che aveva spinto all’adozione di norme o sentenze negli ordinamenti di origine (p. 42). Superficiale nel senso dell’importazione di un istituto, o di un diritto, senza accompagnarlo dalla “sostanza”, cioè dalla loro concreta garanzia. La voluta assenza di concreta garanzia è un atto di malafede costituzionale. Essa, tuttavia, deve distinguersi da altre importazioni che appartengono alla diversa categoria dell’aspirational constitutionalism. Il costituzionalismo è sempre stato, “costituzionalmente”, un movimento promosso da ideali e aspirazioni proiettate nel futuro.
Selettivo, in forma di cherry-picking, in quanto si usa importare soltanto alcuni aspetti o istituti, ignorando i più vasti schemi normativi nel cui ambito essi devono essere inseriti, affinché possano essere funzionali alle finalità perseguite.
Acontestuale, poiché gli istituti di riferimento si estrapolano dai relativi contesti, economici e sociali. Per arrivare a quello, definito anti-purposive borrowing, che costituisce una vera e propria eterogenesi dei fini. Istituti nati in ordinamenti democratici per proteggere la democrazia e i diritti, come le commissioni elettorali o le autorità di regolazione delle comunicazioni, sono riconfigurati allo scopo di perseguire opposte finalità di adulterazione costituzionale.
Questa pratica accomuna ordinamenti molto distanti, geograficamente e culturalmente, dall’Honduras alla Turchia, dalla Polonia e l’Ungheria alla Bolivia e al Venezuela, dalla Cambogia a Israele, dalle Fiji al Ruanda, dall’Ecuador alla Russia, per limitarci a citare alcuni dei casi presentati nel volume. E investe molteplici aspetti della democrazia costituzionale. Vengono esaminati, sotto questa lente, come possibili oggetti di abusive borrowing, i diritti fondamentali, la giustizia costituzionale, il potere costituente e di revisione costituzionale, nonché alcune categorie create dalla dottrina, come il political constitutionalism e le weak-forms of judicial review.
3. La parte finale del libro è relativa ai possibili rimedi. “Can abusive borrowing be stopped?” è il titolo dell’ultimo capitolo che, nell’affrontare la questione degli strumenti di resistenza alla regressione democratica, si concentra specialmente sul ruolo possibile del diritto comparato e degli studiosi di questa disciplina.
La prima risposta alla domanda consiste nel monitorare e sanzionare gli abusi, soprattutto attraverso l’intervento di istituzioni che operano a livello internazionale o transnazionale. A questo proposito, si sottolinea l’importanza di un “approccio contestuale” che superi il formalismo giuridico e prenda in considerazione l’effettività delle norme giuridiche nei contesti costituzionali “viventi” e, ivi, le molteplici interconnessioni (p.182).
La seconda risposta si concentra sul modo in cui gli ordinamenti democratici producono le proprie norme e ne diffondano la conoscenza, sul presupposto della necessità che tutti gli attori coinvolti siano consapevoli del rischio dell’appropriazione a fini antidemocratici degli altrui “prodotti” (p.193). Quando si opera con concetti come l’identità costituzionale, o il popular constitutionalism, o con istituti volti a rafforzare l’esecutivo, a incidere sull’indipendenza della magistratura, a estendere il campo della democrazia diretta o a condizionare la libertà di espressione, occorre una particolare cautela. In particolare, è necessaria una speciale attenzione sulla fase di disseminazione e di divulgazione giuridica: è qui che gli Autori chiamano studiosi, politici e giudici a impegnarsi a chiarificare ed esplicitare gli aspetti e le implicazioni di istituti o di dottrine, così da rendere più ardui eventuali abusi e manipolazioni.
Infine, d’altra parte, occorre non soggiacere alla retorica negativa dell’abusive constitutionalism, che spesso offusca il fatto che le idee democratiche, malgrado tutto, continuano a mantenere una genuina forza di attrazione in molte parti del mondo. Ciò implica smascherare il carattere non democratico dei nuovi autoritarismi che si nascondono dietro l’etichetta delle illiberal democracies, da rigettare in quanto essa offre ai nuovi autocrati precisamente quello che vogliono: segnare una distanza dall’aborrito Occidente, sfruttando al contempo l’imprimatur della volontà popolare (p. 205).
Insomma, i compiti per gli studiosi del diritto comparato non mancano. Mi sentirei di aggiungere, e di sottolineare con maggiore forza, la necessità di accompagnare il dato normativo con studi empirici, che coniughino il metodo giuridico con quello delle altre discipline sociali. Infatti, se è vero che le regressioni democratiche passano in gran parte attraverso il diritto (al punto che Kim Lane Scheppele ha introdotto l’espressione autocratic legalism), vari autori (soprattutto Wojciech Sadurski) hanno sottolineato, con dovizia di esempi, che molti cambiamenti facenti parte del democratic backsliding accadono “senza una modifica formale di istituzioni e procedure, così che sono invisibili a una ricostruzione puramente giuridica”. Ciò richiede la verifica, dell’impatto effettivo delle norme di diritto, per permettere alla dialettica democratica di svilupparsi in modo consapevole e trasparente.
Nelle pagine finali il volume affronta la questione delle debolezze e contraddizioni intrinseche nelle democrazie costituzionali, per introdurre un’ulteriore linea di riflessione circa il legame tra liberal democracy e capitalismo (si parla di market-based forms of ordering) e circa le conseguenze che ne sono derivate, negli ultimi decenni, in termini di diseguaglianze (p. 206). Un tema cruciale, considerato che la crescita delle distanze tra individui e gruppi, indebolisce la coesione sociale e apre la strada a forme pericolose di creazione di sensi di appartenenza, ad esempio attraverso l’emersione o il ritorno di forme di “nazionalismo tribale” (nutrite da un complesso armamentario simbolico), finalizzate a supplire all’assenza di una “reale” base di condivisione (ho sviluppato questo tema nel mio libro “Oltre le gerarchie. In difesa del costituzionalismo sociale”, Roma-Bari, Laterza, 2021).
A questo proposito, si apre uno spiraglio per uno sguardo verso il Global South che sta cercando le sue vie per garantire in modo originale i diritti economico-sociali e per promuovere la tutela dell’ambiente. È una prospettiva che mi pare feconda, specialmente alla luce delle esperienze in corso in paesi come la Colombia e il Cile. Così, piuttosto sorprendentemente, un volume chiaramente radicato nell’esperienza anglo-americana (a partire dalle citazioni, tutte rigorosamente di testi in lingua inglese) si conclude con un’inedita prospettiva che arriva dalle cosiddette periferie del mondo: “Molte delle nostre speranze per migliorare, e quindi salvare, il modello liberaldemocratico provengono da quei paesi che sono stati tradizionalmente visti come destinatari, piuttosto che produttori, dei suoi concetti fondamentali” (p. 208).