Il diritto al tempo della crisi planetaria: svolta ecologica, beni comuni e nuove istituzioni
Qual è il ruolo del giurista occidentale che voglia utilizzare le proprie conoscenze di diritto per far fronte alla drammatica crisi ecologica del nostro pianeta? Per molti, la risposta più immediata sarebbe quella di dire che è compito della donna e dell’uomo di diritto utilizzare gli strumenti forniti dai vari ordinamenti per poter agire a difesa dei diritti che siano stati lesi. Agendo all’interno delle categorie offerte dal diritto privato, diritto internazionale, diritti umani etc., il giurista (in particolare comparatista) potrebbe quindi identificare le istituzioni e le procedure da mobilizzare nel caso di violazioni insieme alle possibili traiettorie che possano ristabilire lo stato di diritto.
Per Fritjof Capra e Ugo Mattei, un giurista ed uno scienziato che hanno avuto modo di confrontarsi per anni sul tema prima di decidere di trasferire i loro pensieri in un libro, la risposta non è affatto scontata. Al contrario, gli autori de L’Ecologia del Diritto. Scienza, politica beni comuni (Aboca Edizioni, 2017) suggeriscono che fare affidamento sulle istituzioni proprie dell’attuale ordine giuridico occidentale vorrebbe dire continuare ad agire all’interno dello stesso sistema di principi, valori e relazioni Società-Natura che – dopo quasi cinque secoli di interazione tra scienza moderna e diritto – sono alla base dell’attuale collasso ambientale. Chi voglia davvero contribuire ad una soluzione per il lungo termine, dovrebbe dunque andare al di là dell’esistente e provare a formulare soluzioni che cambino radicalmente il modo di pensare ed agire nei confronti del pianeta e che non si limitino a fornire un rimedio immediato.
Senza cadere nel nichilismo od essere assaliti dalla frustrazione, l’invito al giurista occidentale è dunque di interrogarsi sulla visione del mondo che è stata fatta propria dal diritto occidentale, mappare quali costruzioni intellettuali e giuridiche ne consentono la riproduzione, ed impegnarsi nella promozione e diffusione di nuove istituzioni che incentivano il comportamento eco-sostenibile di tutti i membri della società . Altrimenti, il rischio sarebbe quello di non essere in grado di andare al di là degli aspetti superficiali del problema, senza prendere in considerazione gli elementi sistemici tipici delle tradizioni sia di common law che di civil law che orientano il pensiero e l’azione giuridica verso pratiche ecologicamente e socialmente problematiche (per usare un eufemismo).
Per facilitare il compito, l’Introduzione ed i primi sette capitoli de L’Ecologia del Diritto offrono una genealogia del pensiero giuridico attualmente dominante in occidente e delle sue intime connessioni con il mondo della scienza e con la visione meccanicistica del nostro pianeta e di tutto ciò che si trova su di esso (incluso il corpo umano, l’estrazione di petrolio nei fondali del Golfo del Messico ed il fenomeno del land grabbing per la produzione di cibo destinata all’esportazione). Il lettore è dunque messo a confronto con personaggi che hanno segnato le teorie giuridiche e scientifiche che sono state adottate come termine di riferimento da Aristotele ai giorni nostri, spesso operando su entrambi i fronti. Tra tutti, spicca Francesco Bacone, ricordato nei libri di scuola in quanto fautore del metodo scientifico empirico e del dominio dell’uomo sulla natura, ma allo stesso tempo Lord cancelliere della Corona inglese al momento del movimento delle enclosures, dell’urbanizzazione di massa e della fine della piccola agricoltura contadina.
Ma per quale motivo l’adozione della visione scientifica meccanicistica da parte del diritto sarebbe la responsabile della crisi ecologica? Lo studio ed il controllo della natura non hanno forse contribuito all’avanzamento tecnologico, alla rivoluzione industriale, a scoprire nuove galassie e, tra le altre cose, al fatto che si potesse immaginare e realizzare il computer sul quale sto scrivendo queste parole? Senza dubbio, ma a costo della sostenibilità ambientale, del mantenimento della biodiversità naturale e della semplificazione delle complesse relazioni che intercorrono tra tutti gli esseri viventi e non viventi che sono interconnessi nella rete vita, anche se geograficamente distanti.
Ad esempio, l’internalizzazione da parte del diritto dell’idea di natura come appropriabile ed escludibile, che è perfettamente riprodotta dalla visione attualmente dominante di proprietà pubblica e privata, ha portato a costruire istituzioni che considerano il mondo che ci circonda come una risorsa che ogni individuo può sfruttare economicamente e rispetto al quale esistono numerosi diritti ma pochi obblighi intrinseci. In modo analogo, l’assimilazione tra leggi della natura e leggi dell’uomo implica poi l’accettazione di gerarchie, sovranità e verticalità, emblematicamente simboleggiate dalla piramide di Kelsen, che subordinano l’azione locale alla volontà superiore, riconoscendo che il potere e l’autorità vengono esercitati dall’alto verso il basso e riducendo la possibilità di auto-organizzazione locale. Per di più, la percezione del diritto moderno come esterno alla società ed indipendente dalle azioni dell’interprete o del giurista – così come accade per la natura oggetto di studio scientifico che era considerata del tutto indipendente ed immune dall’osservatore – diventa un metodo per mascherare il fatto che:
“L’attuale percezione collettiva del diritto in quanto infrastruttura “oggettiva” o preesistente, attraverso la quale il comportamento dei singoli atomi è classificabile come legale o illegale, lungi dall’essere “naturale” è soltanto una costruzione culturale della modernità” (pag. 38)
Fortunatamente, la scienza ed alcuni scienziati contemporanei hanno progressivamente riconosciuto i limiti della visione precedente, supportando la transizione verso un paradigma nuovo che non si basa più sulla separazione tra uomo e natura né sull’idea che il mondo sia la somma algebrica di tutti i suoi componenti. Ad oggi, studiosi e scienziati in tutto il mondo hanno posto al centro del loro modello interpretativo una concezione sistemica, olistica ed ecologica della vita, laddove ciò che li circonda non è più studiato come una macchina soggetta a leggi immutabili, ma concepito come parte di una rete della vita, come un punto all’interno di una ragnatela infinita di relazioni e dinamiche delle quali anche l’osservatore fa parte e alla cui definizione contribuisce. La costruzione scientifica del mondo sta allora cambiando nella direzione della complessità, del riconoscimento dei principi ecologici generativi su cui si fonda la vita sul pianeta (e non estrattivi) e della consapevolezza del fatto che la Società umana ed il sistema socio-economico – come ci ricorda Jason W Moore – siano intrinsecamente connessi con la Natura, di cui fanno parte, da cui sono influenzati e rispetto alla quale ha un impatto trasformativo.
Così come avvenuto nel mondo della scienza, è allora giunto il momento anche per i giuristi occidentali e per il diritto di mettere in discussione l’inevitabilità del rapporto tra le istituzioni giuridiche ed il pianeta in modo da pensare a nuove pratiche, modelli e concetti che non siano basati sull’estrazione di risorse e sulla competizione ma sulla rigenerazione, la condivisione ed, in generale, sul riconoscimento del ruolo che il diritto ha nel facilitare o limitare le interazioni tra società umana e natura. In questo senso, due passi concreti sarebbero il riconoscimento dei beni comuni come principio organizzatore del nuovo ordine giuridico e dell’importanza del commoning come partecipazione collettiva alla cura di ciò che è di utilità collettiva. Tale scelta non significherebbe solamente distaccarsi dal dualismo privato-pubblico, ma anche riconoscere l’esistenza di un limite ecologico alle pratiche idiosincratiche ed all’accumulazione individuale, favorire i processi dal basso e la partecipazione collettiva nella definizione delle prassi e degli obiettivi, e pensare ad un diritto basato sulle nozioni di cura, dovere, reciprocità e partecipazione.
Se l’obiettivo è quello di generare e diffondere un nuovo sistema giuridico permeato dalla visione ecologica e sistemica del mondo, è avviso di chi scrive che il percorso debba iniziare laddove la visione del diritto viene discussa e riprodotta, ed in particolar modo nelle Università e nelle scuole che plasmano il pensiero delle nuove generazioni. Perchè non provare a ridefinire e ripensare ciascuna dei corsi universitari e post-universitari in un’ottica ecologica che sia capace di identificare e ripensare l’interazione tra diritti, doveri, società e natura? Cosa vorrebbe dire avere un diritto privato ecologico? E che cosa ne sarebbe del diritto del commercio internazionale e delle norme che facilitano la circolazione internazionale di beni e risorse? Soprattutto, se dovessimo applicare una visione sistemica e pensare ad un ordine eco-giuridico, potremmo ancora tenere separati diritto, politica ed economia ovvero considerare il locale, nazionale ed internazionale come operanti in maniera autonoma ed indipendente?
Ecologia del Diritto è, dunque, un invito a noi giuristi occidentali a prendere consapevolezza delle multiple crisi del pianeta ma non limitarci a pensare a come agire di fronte ad esse. Dobbiamo invece riflettere sul ruolo che noi stessi abbiamo quando insegniamo, pratichiamo ed interpretiamo un diritto che è fondato su principi, nozioni e visioni che hanno contribuito alla crisi medesima. Appare difficile, una volta terminata la lettura, non guardare diversamente a noi stessi ed alla relazione che abbiamo con la nostra disciplina ed il mondo che ci circonda. Appare ancora più arduo far finta di niente e non imbarcarsi, insieme con Mattei, Capra ed altri, nella costruzione di una nuova epistemologia che abbia come chiaro obiettivo la “emancipazione dalla visione meccanicistica del diritto. Insurrezioni prive di visione sono soltanto disperate sommosse, facili da delegittimare e da reprimere con la violenza del diritto attuale. L’eco-diritto è pronto ora per dotare la quasi totalità della popolazione di una visione e di un piano” (p. 234).