Il Consiglio di Stato e il “metarinvio” pregiudiziale (a margine di Cons. St. n. 4584 del 2012)

Il rinvio pregiudiziale alla Corte dell’Unione non cessa di porsi al centro del dibattito tra gli studiosi, che anzi negli ultimi tempi si è fatto vieppiù acceso ed approfondito[1] e che, con ogni probabilità, riceverà ulteriore linfa proprio dalla pronunzia qui succintamente annotata. Una pronunzia che, invero, solleva un mucchio di questioni di considerevole rilievo, a più piani e sotto più aspetti: da quello teorico-generale all’altro istituzionale (avuta attenzione all’equilibrio che per sistema si ha tra giudici ed operatori restanti, con particolare riguardo a quelli preposti alla direzione politica), all’altro ancora delle relazioni interordinamentali (con specifico riferimento ai rapporti intercorrenti tra giudici e parti per un verso, giudici nazionali e giudice dell’Unione per un altro verso).

Cose egregie sono al riguardo già state dette da una sensibile dottrina, che ha prontamente fatto oggetto la decisione in parola di una puntuale analisi[2], sulle quali ora non indugerò, limitandomi a talune osservazioni di ordine generale circoscritte unicamente ad un paio di punti.


La prima di esse riguarda il singolare titolo dato a questa mia riflessione e ciò che è da esso evocato. E invero si è qui assistito ad un rinvio avente ad oggetto… il rinvio, ad un “metarinvio” appunto, l’autorità remittente essendosi interrogata circa il senso complessivo del meccanismo descritto dall’art. 267 TFUE (già 234 TCE) e, perciò, in buona sostanza, la consistenza e i limiti dei poteri riconosciuti ai giudici nazionali in genere, una volta che siano investiti da una delle parti di richiesta di interpello alla Corte dell’Unione[3].

Ci si deve tuttavia subito chiedere se il disposto che fonda i poteri in parola possa essere messo in discussione da parte di un atto che ne costituisca esercizio.

Il giudice, in altri termini, confessa di non sapere cosa il disposto normativo suddetto esattamente significhi e, proprio per ciò, chiede lumi al suo interprete “autentico”, la Corte dell’Unione; e, però, al fine (e col fatto stesso) di interrogarlo, si avvale dell’ingranaggio che dichiara essergli non del tutto “chiaro”. Il circolo – come si vede – parrebbe dunque essere perfetto e non lasciare scampo.

Ora, è vero che lo stesso art. 267 non fa luogo ad esclusioni o preclusioni di sorta in merito alle disposizioni dei trattati suscettibili di richiesta d’interpretazione[4], ricorrendo ad una espressione che si riferisce tanto ad enunciati aventi carattere sostantivo, coi quali usualmente gli atti di diritto interno possono astrattamente entrare in conflitto, quanto agli stessi enunciati espressivi di norme sulla normazione (ad es., a quelli che delimitano la sfera di competenza dell’Unione rispetto alla sfera rimasta in capo agli Stati membri), tra le quali norme – secondo un autorevole insegnamento – sono da annoverare anche quelle sull’interpretazione[5]. Il punto è però di stabilire se l’art. 267 possa riferirsi anche a… se stesso.

Se ci si pensa la questione è la stessa che in generale si pone con riguardo ai modi, i criteri e le tecniche con cui assoggettare ad interpretazione le disposizioni relative all’interpretazione stessa. Un’antica, annosa questione, questa, della quale non può ora, ovviamente, dirsi con la dovuta estensione. Mi limito solo a rammentare l’ingenuo tentativo posto in essere da una pur non sprovveduta dottrina che, riferendosi specificamente all’art. 12 delle preleggi, consigliava di applicarvi, al fine di intenderlo rettamente, gli stessi canoni da esso indicati: dimentica così del fatto che i canoni in parola non sono un prius ma solo un posterius dei fatti interpretativi e che pertanto se ne può fare retto e proficuo utilizzo unicamente dopo che sia stato chiarito il senso dell’enunciato che li racchiude ed esprime. Eppure, com’è chiaro, il disposto normativo ora richiamato o altri che dovessero integrarlo ed aggiornarlo[6] non può non essere, in un modo o nell’altro, interpretato, a pena di non riuscire a sfuggire alla morsa soffocante, espressiva di un pessimismo senza speranza, dell’inconoscibilità dell’ordinamento giuridico. E lo stesso, com’è parimenti chiaro, vale anche per l’ordinamento dell’Unione e i suoi rapporti con gli ordinamenti nazionali. Offrire dunque alla Corte dell’Unione stessa l’opportunità di pronunziarsi ex art. 267 sullo stesso art. 267 è precondizione della vigenza del diritto sovranazionale, anzi della conversione, di cui si ha un vitale bisogno, del diritto vigente in diritto vivente, uniformemente inteso ed applicato in tutti i territori sopra i quali esso si distende e pretende osservanza.

C’è tuttavia un ulteriore ostacolo ad assumere il disposto in parola quale oggetto di rinvio pregiudiziale, riguardante la sua pertinenza in relazione alla vicenda processuale nel corso della quale sia evocato in campo, che è poi – come si sa – una delle condizioni poste in Cilfit per l’esercizio del potere di rinvio. Una pertinenza che, a seconda dei punti di vista, c’è sempre ovvero non c’è mai. Si ha l’una cosa, a motivo del fatto che, ogni qual volta si discuta della possibile applicazione del diritto dell’Unione, il meccanismo che consente di avere piena e sicura conoscenza del diritto stesso è, per definizione, “pertinente” rispetto al caso. Si ha, però, anche l’altra cosa, dal momento che non è il dettato normativo che descrive il meccanismo stesso che deve trovare diretta e specifica applicazione nel caso stesso ma altra o altre norme ratione materiae richiamate e giudicate rilevanti al fine della sua definizione.

Quello della rilevanza è il vero e proprio punctum crucis della questione ora nuovamente trattata. Fermandosi su di esso il giudice remittente sembra, tuttavia, commettere un duplice errore.

Per un verso, muove in premessa dalla (discutibile e, francamente, inesatta[7]) premessa secondo cui la lettera dell’art. 267 non darebbe modo al giudice di far valere il proprio (se del caso, diverso) apprezzamento rispetto a quello manifestato dalla parte, una volta che la questione di rinvio sia stata da quest’ultima “sollevata”: fatte salve le note eccezioni indicate in Cilfit, il giudice – dice il Consiglio di Stato – si troverebbe incondizionatamente obbligato ad investire la Corte di giustizia della questione. Allo stesso tempo, tuttavia, si prende in considerazione l’eventualità che la questione possa essere formulata, come nella circostanza de qua, “in termini generici o con riferimento a norme comunitarie palesemente non pertinenti al caso specifico”; ciò che richiederebbe, “per una corretta rimessione alla C. giust. CE, una integrale riformulazione da parte del giudice”[8]. Una riformulazione che però non parrebbe – come si diceva – consentita dalla lettera dell’art. 267, così come non sarebbe dato al giudice nazionale di stabilire se il diritto sovranazionale sia “chiaro”, sì da non dar adito ad alcun dubbio interpretativo[9].

Per un altro verso, poi, il giudice, pensoso, s’interroga se, una volta che gli sia fatto obbligo di interpellare la Corte di giustizia dietro sollecitazione della parte, il conseguente allungamento dei tempi del giudizio possa incidere sulla ragionevole durata del processo, in violazione di quanto stabilito dall’art. 47 della Carta dei diritti dell’Unione (e può aggiungersi, ponendo riparo ad una strana dimenticanza del giudice remittente, dall’art. 6 della CEDU)[10]. Un quesito, questo, cui si accompagna nella decisione qui annotata la proposta, pur se cautamente e problematicamente affacciata[11], di escludere dal computo dei termini processuali la fase del rinvio e della conseguente decisione da parte della Corte dell’Unione.

Ancora una volta, come si vede, vengono ad emergere talune vistose oscillazioni dell’autore di questa pronunzia che, da un canto, si mostra preoccupato che possa risentirne il principio della equità del processo e, dall’altro, suggerisce al giudice dell’Unione la via da percorrere al fine di parare in radice questo rischio.

Rileggendo in filigrana la decisione in esame si ha tuttavia modo di mettere a nudo la parabola del ragionamento in essa svolto.

Come non di rado è dato intravedere in talune prese di posizione anche della più sensibile giurisprudenza, v’è la maschera e il volto: la prima è nell’affermazione fatta in premessa, e cioè nella tesi, volutamente esasperata, secondo cui la salvaguardia della volontà espressa dalla parte con l’iniziativa volta ad adire la Corte dell’Unione richiederebbe – praticamente sempre (o quasi…) – che si dia ad essa seguito, in modo meccanico (a scatto automatico), da parte dell’organo giudicante di diritto interno; il secondo è invece nel vero obiettivo avuto di mira, che è di ottenere dal giudice sovranazionale un nihil obstat al riconoscimento a beneficio dei giudici nazionali di un potere discrezionale di considerevole ampiezza, sì da portare, se del caso, al sostanziale, libero rifacimento della questione. Ed è chiaro che, una volta fatta l’opzione per il secondo corno dell’alternativa, verrebbe subito fugato il timore, insito nell’idea del rinvio obbligatorio, che possa averne a soffrire la ragionevole durata del processo.

In realtà, anche su ciò occorre intendersi.

Per un verso, infatti, l’allungamento dei tempi processuali potrebbe rivelarsi comunque eccessivo (o, diciamo pure, irragionevole), anche quando il rinvio non sia obbligatorio bensì frutto di spontanea iniziativa dell’organo che vi faccia luogo; e si sa che la giurisprudenza (ieri comunitaria ed oggi – piace a me dire – “eurounitaria”), pure al ricorrere delle eccezioni enunciate in Cilfit, non esclude ad ogni buon conto che il giudice nazionale possa, volendo, ugualmente e del tutto lecitamente decidere di rivolgersi alla Corte dell’Unione[12].

Per un altro (ed ancora più rilevante) verso, poi, il rinvio può, per la sua parte, esser visto, anziché come una minaccia, quale uno strumento prezioso di garanzia della equità del processo, specificamente per l’aspetto della conformità dello svolgimento di quest’ultimo ai canoni dell’Unione e, a un tempo, come un momento fa si rammentava, della CEDU[13].

Il giudice remittente non cela – come si avvertiva – la propria netta preferenza per una soluzione che preservi il giusto “margine di apprezzamento” in capo al giudice della causa, riconoscendogli “un potere-dovere di soccorso della parte, nella formulazione del quesito pregiudiziale”[14]. Si mostra tuttavia accorto nel prospettare in termini ipotetici la questione, anzi la duplice ed alternativa questione, l’una rimessa “negli esatti termini in cui è stata formulata da parte appellante” e l’altra per il modo con cui è sostanzialmente rifatta dallo stesso giudice[15].

Anche per quest’aspetto – può aggiungersi a quanto espressamente detto nella pronunzia in commento – si coglie (o, forse, con maggiore cautela, parrebbe cogliersi) la differenza di fondo tra la pregiudizialità “comunitaria” e la pregiudizialità costituzionale, la quale ultima – come si sa – non ammette la proposizione di questioni “alternative”, una differenza a riguardo della quale la pronunzia in commento indugia con notazioni tuttavia affrettate e non sufficientemente approfondite[16].

L’una pregiudizialità ha, infatti, la sua specifica ragion d’essere in una finalità d’interpretazione, in vista della uniforme applicazione del diritto sovranazionale nei territori dell’Unione; l’altra tende ad un giudizio di validità, in funzione della salvaguardia della integrità della Costituzione[17]. È perciò che, nell’un caso, l’interpello dell’organo sovranazionale di nomofilachia, pur laddove non obbligatorio, è comunque visto, tendenzialmente, con favore, diversamente dall’altro caso, in cui è lo stesso giudice delle leggi a sollecitare i giudici comuni affinché lo adiscano unicamente laddove altri strumenti preposti al ripristino dell’armonia del sistema si siano rivelati inefficaci (sopra tutti, come si sa, la tecnica dell’interpretazione conforme).

Non coglie, invece, nel segno l’affermazione[18] secondo cui il rinvio alla Corte dell’Unione da parte dei giudici di ultima istanza, con le note (e più volte rilevate) eccezioni, si presenta come obbligatorio, laddove il rinvio alla Corte costituzionale sarebbe in ogni caso espressivo di mera facoltà, soggetta in ordine al suo esercizio alle previe valutazioni di rilevanza e non manifesta infondatezza.

Nei termini in cui il quadro è qui raffigurato, parrebbe dunque che il rischio di possibili violazioni del diritto dell’Unione abbia da essere, ad ogni buon conto, fugato, non potendo le violazioni stesse essere, in alcun caso o modo, tollerate; di contro, il rischio di possibili violazioni della Costituzione parrebbe essere gravido di conseguenze – come dire? – di minore gravità, a conti fatti rimesse al discrezionale apprezzamento del giudice comune, malgrado le violazioni stesse possano – come si sa – consumarsi ad opera di leggi produttive di effetti quindi non sradicabili, pur a seguito dell’accertamento della loro invalidità.

Il vero è che il quadro stesso è assai più composito e connotato da interna mobilità e fluidità degli elementi che lo compongono; come tale bisognoso di essere raffigurato in termini meno semplificati ed approssimativi di quelli appena adoperati.

E infatti.

Per un verso, le note eccezioni fissate in Cilfit offrono pur sempre una via di fuga al giudice di ultima istanza che, con consumata abilità, intenda sottrarsi all’obbligo cui va nondimeno soggetto.

Per un altro verso, poi, con riguardo alla pregiudizialità costituzionale, negli spazi non ristretti di cui ad ogni buon conto dispone, specie per ciò che concerne la selezione della norma buona per il caso (e conforme a…), il giudice nazionale – non importa di che natura o “grado” – è ugualmente tenuto a rivolgersi alla Corte costituzionale, una volta che convenga circa la sussistenza delle condizioni (di rilevanza e non manifesta infondatezza) che ne giustificano l’interpello. Sarà – è vero – pur sempre un obbligo sottoposto a soggettivo apprezzamento, com’è d’altronde in ogni umana cosa, ma pur sempre di un obbligo si tratta; ed è perciò sul terreno della motivazione, nella quale si specchia la giustificazione della decisione presa, che, in fin dei conti, si ha la verifica della linearità e correttezza dell’operazione di volta in volta posta in essere, quale che ne sia il verso e il senso complessivo.

Ora, tutto ciò posto (e con riserva degli opportuni approfondimenti in altra e più acconcia sede), resta ugualmente il dubbio circa l’ammissibilità di questioni ipotetiche o “alternative” al giudice dell’Unione, di cui nella circostanza odierna – come s’è veduto – si è avuta una significativa testimonianza, questioni che, per il solo fatto di essere prospettate, pregiudicano la rilevanza e rendono comunque opaco e confuso il quesito posto a chi è chiamato a scioglierlo. L’eccesso di zelo del giudice remittente, nel configurarsi ogni possibile esito interpretativo dell’enunciato bisognoso di opportuna chiarificazione da parte del giudice dell’Unione, tradisce la complessiva irragionevolezza della manovra posta in essere a Palazzo Spada, una volta che si convenga a riguardo della oscurità di una questione che apra a tutto campo il ventaglio delle norme astrattamente desumibili per via d’interpretazione da una stessa disposizione, norme tutte, in via di principio, ugualmente valevoli per il medesimo caso.

 


[1] Si pensi solo, da noi, a taluni studi monografici al tema dedicati e venuti di recente alla luce, quali quelli di S. Foà, Giustizia amministrativa e pregiudizialità costituzionale, comunitaria e internazionale. I confini dell’interpretazione conforme, Napoli 2011; R. Ciccone, Il rinvio pregiudiziale e le basi del sistema giuridico comunitario, Napoli 2011 e, da ultimo, E. D’Alessandro, Il procedimento pregiudiziale interpretativo dinanzi alla Corte di giustizia. Oggetto ed efficacia della pronunzia, Torino 2012.

[2] R. Conti, I dubbi del Consiglio di Stato sul rinvio pregiudiziale alla Corte UE del giudice di ultima istanza. Ma è davvero tutto così poco “chiaro”? (Note a prima lettura su Cons. Stato 5 marzo 2012, n. 4584), in www.diritticomparati.it.

[3] Questi, in particolare, i quesiti posti al giudice dell’Unione:

a) se osti o meno all’applicazione dell’art. 267, par. 3, TFUE, in relazione all’obbligo del giudice di ultima istanza di rinvio pregiudiziale di una questione di interpretazione del diritto comunitario sollevata da una parte in causa, la disciplina processuale nazionale che preveda un sistema di preclusioni processuali, quali termini di ricorso, specificità dei motivi, divieto di modifica della domanda in corso di causa, divieto per il giudice di modificare la domanda di parte;

b) se osti o meno all’applicazione dell’art. 267, par. 3, TFUE, in relazione all’obbligo del giudice di ultima istanza di rinvio pregiudiziale di una questione di interpretazione del diritto comunitario sollevata da una parte in causa, un potere di filtro da parte del giudice nazionale in ordine alla rilevanza della questione e alla valutazione del grado di chiarezza della norma comunitaria;

c) se l’art. 267, par. 3, TFUE, ove interpretato nel senso di imporre al giudice nazionale di ultima istanza un obbligo incondizionato di rinvio pregiudiziale di una questione di interpretazione del diritto comunitario sollevata da una parte in causa, sia o meno coerente con il principio di ragionevole durata del processo, del pari enunciato dal diritto comunitario;

d) in presenza di quali circostanze di fatto e di diritto l’inosservanza dell’art. 267, par. 3, TFUE configuri, da parte del giudice nazionale, una “violazione manifesta del diritto comunitario”, e se tale nozione possa essere di diversa portata e ambito ai fini dell’azione speciale nei confronti dello Stato ai sensi della legge 13 aprile 1988 n.117 per ‘risarcimento danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati’ e dell’azione generale nei confronti dello Stato per violazione del diritto comunitario”.

[4] Perentoria ed amplissima, come si sa, la formula posta in testa all’enunciato in esame, nella quale si afferma la competenza della Corte di giustizia a pronunziarsi … a) “sull’interpretazione dei trattati”.

[5] Mi rifaccio qui, ancora una volta, ad una indicazione di E. Zitelmann, Geltungsbereich und Anwendungsbereich der Gesetze. Zur Grundlegung der völkerrechtlichen Theorie des Zwischenprivatrechts, in Festgabe der Bonner Juristischen Fakultät für K. Bergbohm, Bonn 1919, 207 ss., di cui si ha una traduzione in italiano curata da T. Ballarino, Sfera di validità e sfera di applicazione delle leggi, in Dir. internaz., 1961, 152 ss.

[6] Si pensi solo al canone, di squisita fattura giurisprudenziale, relativo all’interpretazione conforme (a Costituzione, diritto internazionale, diritto dell’Unione), che pure – volendo – può essere ricondotto allo stesso enunciato in parola, ancorché fatto oggetto di rilettura adeguata ai tempi, specie ove si convenga, con un’accreditata (seppur non pacifica) dottrina, che siffatta interpretazione sia una species dell’interpretazione sistematica (indicazioni sulla vessata questione, da ultimo, in F. Mannella, Giudici comuni e applicazione della Costituzione, Napoli 2011, spec. i capp. V e VI; A. Ciervo, Saggio sull’interpretazione adeguatrice, Roma 2011; A. Longo, Spunti di riflessione sul problema teorico dell’interpretazione conforme, in www.giurcost.org, 24 gennaio 2012, e I. Ciolli, Brevi note in tema d’interpretazione conforme a Costituzione, in www.rivistaaic.it, 1/2012).

[7] Su ciò, pertinenti rilievi critici nel commento, già richiamato, di R. Conti.

[8] Tutti i riferimenti ora fedelmente trascritti sono tratti dal punto 9.9.

[9] Anche a questo riguardo, tuttavia, il Consiglio di Stato mostra di non voler tener conto di alcune divergenti indicazioni che ricorrono nella giurisprudenza della Corte di giustizia, nelle quali opportunamente si sottolinea la necessità di una intensa e proficua “cooperazione” tra la Corte stessa e i giudici nazionali (indicazioni, ancora una volta, in R. Conti, cit.).

[10] … senza, peraltro, tacere gli inconvenienti che potrebbero aversi sul fronte della funzionalità della giustizia sovranazionale, per il rischio – paventato dalla pronunzia qui annotata (punto 9.10.5) – che possa esserne incoraggiato “il proliferare di richieste di rinvii pregiudiziali in modo emulativo” e che venga a determinarsi “un imbuto alla rovescia con un aggravio del carico di lavoro della C. giust. CE oltre ogni ragionevole limite”.

[11] Punto 9.10.6.

[12] Ancora R. Conti, nello scritto dietro cit., e giur. ivi. 

[13] Ho ragionato a riguardo delle possibili, congiunte violazioni di norme dell’Unione e di norme convenzionali e dei modi coi quali tentare di porvi, fin dove possibile, riparo nei miei Rinvio pregiudiziale mancato e (im)possibile violazione della CEDU (a margine del caso Ullens de Schooten e Rezabek c. Belgio), in www.forumcostituzionale.it, e Il rinvio pregiudiziale alla Corte dell’Unione: risorsa o problema? (Nota minima su una questione controversa), in Dir. Un. Eur., 1/2012, 95 ss.

[14] Punto 9.12.

[15] V., rispettivamente, i punti 9.11 (da cui è ripreso il passo da ultimo trascritto) e 9.12.

[16] V., spec., punto 9.10.1.

[17] Anche la prima, come si sa, può essere di validità; non è di questa sua funzione che tuttavia siamo ora chiamati a discorrere.

[18] Ancora punto 9.10.1.