I. Ruggiu, Il giudice antropologo, Franco Angeli, 2012
Come si risolvono i conflitti culturali? Come deve reagire il diritto dinanzi alle confliggenti reti di significati e valori che caratterizzano le moderne società multiculturali?
Sono queste le domande che muovono le riflessioni dell’Autrice e che, da un decennio a questa parte, non mancano di destare interesse fra le voci più autorevoli della dottrina giuridica.
Il lavoro di Ruggiu, tuttavia, presenta una peculiare prospettiva: metodo e punto di partenza della riflessione, infatti, sono fatte della medesima materia – caotica, magmatica, ma incredibilmente nutritiva – dell’ “essere giuridico”. Il piano del “dover essere”, infatti, risulta accantonato in una prima corposa fase del lavoro a favore di una feconda opera di ricostruzione della casistica giurisprudenziale alle prese con il fattore culturale. La fase “descrittiva” dell’analisi, cui sono dedicati i primi due capitoli, esplorativa della topica delle argomentazioni giuridiche dinanzi al conflitto culturale, è seguita da un momento “decostruttivo”. Più precisamente, il terzo capitolo, è la sede di un’operazione demistificatrice che si dirige nei confronti dell’accezione del termine “cultura” di volta in volta assunto, più o meno consapevolmente, dai giudici, mentre nel capitolo quarto viene svelato il reale fondamento teorico-concettuale sotteso ai vari modelli di “multiculturalismo” teorizzati dagli studiosi e successivamente fatti propri dai giudici. L’intento è dichiaratamente quello di epurare le decisioni giuridiche dagli schemi concettuali mutuati dal “comune sentire” affinché il diritto recuperi, in modo più autentico e corretto, il suo ruolo di composizione dei conflitti. Infine, l’ultimo capitolo del testo incarna il livello “prescrittivo” dell’elaborazione in cui l’Autrice avanza la proposta di un test culturale quale strumento idoneo ad assistere ed orientare l’operatore giuridico dinanzi alla “diversità culturale”.
Procedendo ad un’analisi un po’ più approfondita del lavoro, occorre subito rilevare come la prima parte dell’analisi si caratterizza per una scrittura decisamente dinamica e di grande effetto: i casi vengono presentati come si fosse in presa diretta e il lettore viene trasformato in spettatore, ma l’andamento asciutto e cronachistico impedisce qualsiasi forma di catarsi. La percezione collettiva, il contesto socio-politico che fa da sfondo ai vari casi non è mai tralasciato, ma anzi sottolineato e valorizzato. Il coro non è mai unico e le voci, i punti di vista, si moltiplicano e sovrappongono dando la percezione di una realtà prismatica. Le sedute di questo teatro risultano, di conseguenza, incredibilmente scomode. Il lettore non si distende mai, ma è chiamato piuttosto ad interrogarsi continuamente, incalzato dalla stessa Autrice. Il testo, infatti, si snoda e si articola per tentativi, per domande, per problemi – piuttosto che per sistemi – allineandosi, così, all’unico modo di procedere finora conosciuto dinanzi ai conflitti culturali: quello giurisprudenziale, in un controcanto continuo tra rilievi teorici e casistica che risulta di indubbia efficacia.
Dinanzi a questo quadro l’Autrice piuttosto che catalogare le categorie dogmatiche utilizzate dai giudici per risolvere il conflitto culturale, sceglie, in modo del tutto inedito, di provare a decifrarne i “codici”. L’obiettivo dichiarato della sua analisi, infatti, è quello di esaminare le argomentazioni giuridiche che ricorrono (o latitano) nelle motivazioni offerte dalle sentenze esaminate, al fine di costruire una “topica dei conflitti culturali” che raccolga e cristallizzi quelle tracce, quei riferimenti, quegli elementi che ricorrono con una certa stabilità nel ragionamento giuridico.
L’argomentare dei giudici viene così fotografato e poi scomposto, sottoposto ad acuta e accurata radiografia così da illuminarne condizionamenti e presupposti. Le stesse tradizionali questioni del multiculturalismo vengono criticamente messe al vaglio e riformulate, il campo di studio sgombrato da problemi inutili ed estranei.
In questo percorso audace, illuminante e originale, l’Autrice si discosta sensibilmente dalle prospettazioni già note al panorama dottrinario italiano. I punti di rottura rispetto a quanto già scritto in materia sono numerosi, ma probabilmente la distanza maggiore rispetto alle teorizzazioni già elaborate deve registrarsi in relazione al momento definitorio.
L’individuazione di una definizione univoca di cultura, infatti, viene accantonata dall’autrice come “un falso problema”. I suoi sforzi vengono rivolti piuttosto ad una ricerca ritenuta più utile: lo studio delle idee di cultura e delle tecniche argomentative utilizzate dai giudici, al fine di individuare quelle più capaci di “integrare la cultura nel diritto”. La strada che si decide di percorrere, quindi, in linea con il carattere “terrigno” che percorre l’intero libro, è quella descrittivo/decostruttiva.
Non si possono negare i pregi di una simile presa di posizione che, per un verso, ha il merito di farsi carico delle violente critiche al concetto di “reato culturale” provenienti da certi ambienti della sociologia e dell’antropologia, per cui il termine “cultura” – stante il suo carattere fluido e costantemente mutevole – sarebbe impossibile da definire una volta per tutte, in modo univoco e definitivo (ex multiis S. Benhabib, 2005 e 2006 ). Sotto altro profilo, bisogna dare atto di come le trattazioni finora elaborate sul punto dalla prevalente dottrina penalistica non fossero esenti da limiti. In particolare, la scelta di declinare il concetto di cultura attorno a quello – geograficamente definito e facilmente individuabile – di popolo/nazione (W. Kymlicka, 1999; C. De Maglie, 2010; F. Basile, 2010; e, sia pure con gli importanti e dovuti distinguo A. Bernardi, 2010) risulta sì decisamente “comoda” e rassicurante, a discapito, però, di un sacrificio inaccettabile ai danni del principio di eguaglianza sostanziale e personalizzazione della sanzione penale nonché del principio di realtà (Parisi, 2010).
Tuttavia, al pari delle soluzioni già proposte dalla dottrina menzionata, pure la scelta dell’autrice presta il fianco ad una serie di critiche.
Il primo rilievo attiene ad un profilo di coerenza interna.
Il testo, infatti, si presenta come terreno di una pervasiva operazione demistificatrice nei confronti dell’argomentare giuridico. Così, il giudice viene messo in guardia rispetto ad un uso di volta in volta reificante, evoluzionistico, relativistico, culturalizzante, panculturalista, creolizzante, purista del concetto di cultura.
In questo incessante esercizio del sospetto, ritorna frequente, come memento, il richiamo alle ragioni della “politica del diritto” e dunque a quello che è il ruolo del diritto e alle finalità sue proprie, ovvero, principalmente, la risoluzione dei conflitti con un approccio normativo-valutativo e in una dinamica di incontro e relazione.
Viene allora da riflettere sulla seguente circostanza: se veramente si vuole un diritto che sia efficace strumento dialogante di composizione dei conflitti, che si faccia ponte tra culture che non possono essere più percepite come isole immobili, il momento decostruttivo non è sufficiente. Se il nervo e l’obiettivo ultimo dell’intero scritto è la costruzione di un metodo per un corretto utilizzo dell’argomento culturale da parte dell’operatore giuridico, e soprattutto se – come viene denunciato dalla stessa autrice – un uso corretto dell’argomento culturale è minacciato da una congerie di ragioni altre, di matrice socio-politica soprattutto, va da sé che non si può prescindere dalla previa, chiara identificazione del concetto di cultura. Sarebbe altrimenti come fornire istruzioni dettagliate su come costruire una determinato oggetto, senza però intendersi previamente sulla materia da utilizzare. Per un concetto di cultura più corretto e, soprattutto, più controllabile – perché le motivazioni dovranno essere poi sottoposte al vaglio delle corti ma anche dell’opinione pubblica – non è sufficiente procedere per esclusione, indicando gli errori procedurali da evitare, ma occorre uno sforzo, rischioso ma necessario, di definizione.
Quanto appena detto, d’altra parte, trova conferma in due ulteriori rilievi: la dichiarazione programmatica circa la non necessità di una definizione uniforme del termine cultura viene successivamente smentita dalla stessa Autrice. Nel prosieguo della trattazione, infatti, l’autrice è costretta a piegarsi di fronte all’esigenza di definire meglio i contorni di questo concetto, così incerto e inafferrabile. In particolare, viene chiarito che il campo della sua indagine avrà ad oggetto, da un punto di vista soggettivo “i conflitti che intercorrono tra maggioranza della società e immigrati nonché alcune minoranze nazionali”, mentre a livello oggettivo essa andrà intesa quale “rete di significati” e “rete di regole” (p. 54 ss. e p. 253 ss.). Per altro verso, nonostante i precedenti “chiarimenti”, l’autrice si spinge poi ad assimilare delle pratiche culturali a quelle che pratiche culturali non sono, o meglio che sono tali solo se considerate alla stregua di un approccio “panculturalista” che la stessa autrice, però, aveva precedentemente rifiutato (si pensi, a riferimenti quali l’eutanasia o la pratica di “mandare i figli all’asilo sin da piccolissimi”) .
Infine – ma è il rilevo più importante – non è un caso che tutta la dottrina penalistica impegnata sul tema sia partita dalla definizione del termine “cultura”. E’ da scongiurare infatti la violazione dei principi di determinatezza e tassatività legati a stretto giro con la funzione di prevenzione generale e speciale della pena. Così, tra le conseguenze generate dalla mancanza di una definizione certa e determinata di cultura, oltre all’inammissibilità di decisioni giurisprudenziali che partano da concetti di cultura di volta in volta differenti (N. Fiorita 2009), è che restano irrisolte alcune domande fondamentali. Se la cultura, infatti, è rete di significati e rete di regole, come deve agire il giudice dinanzi alla richiesta di detto status avanzata dagli appartenenti di sette violente o dell’associazionismo mafioso?
Strettamente connessa a questo profilo è l’assimilazione che l’Autrice propone, in vari punti del libro, tra cultura e religione.
Secondo Ruggiu il fatto che, come lei stessa dimostra nel suo studio, i conflitti religiosi siano tendenzialmente risolti con tecniche argomentative almeno in parte diverse rispetto ai conflitti culturali, deriva da una storica, tradizionale prevalenza della libertà religiosa come libertà negativa costituzionalmente riconosciuta e tutelata, e dalla traduzione di tale fenomeno in una distinzione tra cultura e religione generalmente a vantaggio della seconda. Tale distinzione sarebbe però discutibile sotto vari profili.
Dal punto di vista costituzionale, come si riconosce anche nel libro, molti ordinamenti introducono un favor religionis che pone costituzionalmente il fenomeno religioso su un piano diverso e superiore rispetto a quello di altre manifestazioni della personalità. Può piacere o non piacere, ma si tratta di una opzione costituzionale che deve tradursi nella concreta considerazione che alla appartenenza religiosa si attribuisce nei diversi campi del vivere sociale e comunitario. Peraltro, non si vede come un’assimilazione tra cultura e religione consentirebbe di superare il problema giuridico, che i fautori della distinzione potrebbero sollevare, della disparità di trattamento tra questi due settori.
Infatti, rifiutando qualsiasi distinzione e preferenza non si vede allora perché anche l’appartenenza politica del singolo soggetto non potrebbe entrare in un processo argomentativo volto a tutelare la motivazione di comportamenti dannosi o illeciti, e tradursi in una condizione valutabile ai fini della configurazione della responsabilità di un individuo per una condotta posta in essere. Insomma, la distinzione tra cultura e religione mantiene una validità giuridica senza che questa debba implicare la protezione dell’una a svantaggio dell’altra.
Dal punto di vista concettuale, la questione del rapporto religione/cultura si pone in particolare con riferimento a che cosa si debba intendere per religione, e cosa per cultura, problema definitorio su cui ci si è soffermate in apertura. L’assimilazione tra le due dimensioni sembra infatti andare di pari passo con una sostanziale assenza di parametri identificativi dell’uno e dell’altro concetto, che apre la via al criterio della “autoqualificazione” come strumento di individuazione. Ora, tale criterio presenta significativi profili critici, rintracciabili sia sul versante della religione che su quello della cultura.
Sostenere l’impossibilità di attingere a una qualificazione oggettiva di religione e di confessione religiosa (come recentemente sostenuto in particolare da M. Croce, 2012) e l’incostituzionalità di qualsiasi criterio che non sia l’autoqualificazione, significa ampliare il novero dei soggetti a cui si applicano le conseguenze giuridiche che oggi gran parte degli ordinamenti giuridici fanno derivare dalla natura religiosa o confessionale di una formazione sociale, con ciò potenzialmente svuotando la capacità di tale concetto di fungere, coerentemente con la sua funzione tradizionale, da argine alla intolleranza verso le minoranze effettivamente oppresse, e, ad un contempo, da veicolo di riconoscimento della definitività e assolutezza della appartenenza religiosa rispetto a tutte le altre forme di appartenenza. L’autoqualificazione generalmente applicata, e quindi estesa anche alla dimensione culturale, rischierebbe poi evidentemente di sfociare nella proliferazione di culture autodichiarantesi come tali e portatrici di modelli e valori altamente in conflitto con il tessuto di principi alla base degli ordinamenti nei quali tali culture si inseriscono. Basti pensare a quello che si è detto sulla “cultura mafiosa”, o allo stesso paternalismo come cultura, cui fa riferimento la stessa Autrice.
Archiviata la questione più latamente “definitoria”, qualche considerazione va spesa sulle ragioni di fondo che hanno stimolato le riflessioni dell’autrice, ovvero: è proprio necessario che il diritto penale si faccia carico della “diversità culturale”?
L’idea su cui il lavoro si fonda è che i conflitti multiculturali, quando derivanti dalla violazione all’interno di un ordinamento di norme giuridiche culturalmente non neutrali, possono (e talvolta debbono) essere risolti attraverso una particolare considerazione della cultura di appartenenza come “movente” che sta a fondamento delle azioni umane.
Ciò che sta alla base di tale idea è una visione della persona come artefatto della società all’interno della quale sviluppa le proprie competenze e costruisce i propri paradigmi di riferimento e della “cultura come categoria con cui interpretare i comportamenti dell’altro”, come scrive l’Autrice (pur interrogandosi ella stessa sulla possibile portata egemonica della cultura, soprattutto qualora tale concetto sia inserito nell’ “ordine simbolico costituzionale”).
Ruggiu ad un certo punto sembra negare l’attitudine “antropologista” nel senso che le abbiamo attribuito, precisando che, sebbene in ogni caso il modello non incida sulla antigiuridicità del fatto (si parla di condotte penalmente illecite) ma soltanto sull’elemento soggettivo, comunque esso non risulta pienamente soddisfacente in quanto “l’idea antropologica del soggetto […] tende in qualche modo a cristallizzare l’individuo all’interno del sistema in cui si è socializzato; sembra non ammettere sue possibili evoluzioni o abbandoni”. Una ineluttabilità del comportamento culturalmente orientato, infatti, rischierebbe allora condurre verso tante possibili altre ineluttabilità, come quella sociale (e qui cita la tesi del “retroterra sociale disastrato” di Delgado). Tuttavia, l’Autrice sceglie di escludere dal test il riferimento al tempo di permanenza nella cultura ospite (topos conosciuto nel modello inglese) in quanto tacciato di “assimilazionismo”. E allora un pizzico di ineluttabilità sembra restare.
La riflessione ora proposta consente, peraltro, di introdurre un’ulteriore osservazione, dal carattere più generale, di “politica del diritto”. Infatti, se si vuole che il diritto sia strumento di composizione dei conflitti, viene da chiedersi quale possa essere l’effettiva utilità di un dialogo che si apre all’interno dell’aula giudiziaria, ovvero quando la frattura culturale è ormai avvenuta. In altre parole, non si possono tacere le difficoltà del diritto penale a costruire un dialogo proficuo tra culture, in ragione della sua tradizionale vocazione di depositario dei valori di una società ( ex multis G. De Francesco 2006) e della fonte pubblicistica da cui promana, che attualmente non prevede il coinvolgimento di soggetti appartenenti a “culture minoritarie” (R. Bartoli 2007). Allora, a questo proposito, riteniamo che se davvero si vogliono perseguire gli obiettivi della mediazione e della negoziazione è agli strumenti della democrazia deliberativa che bisogna guardare, uniti all’ apertura inclusiva della rappresentanza politica ad una effettiva partecipazione delle minoranze (si pensi alla questione del riconoscimento del diritto di voto degli immigrati). Questa, infatti, rappresenta l’unica via che possa realmente assicurare l’ingresso nei meccanismi decisionali degli stessi gruppi culturali destinatari delle decisioni da assumere, rendendoli parte attiva di una sfera pubblica che comprenda i binari istituzionali ma anche quelli dell’associazionismo e delle organizzazioni e dei movimenti sociali (Benhabib 2002 e 2005).
Per quanto riguarda il merito delle riflessioni elaborate da Ruggiu, si muovono ulteriori rilievi, anche questi, in un certo senso, “politici”, circa la scelta dell’Autrice di attribuire al giudice il ruolo di “mediatore dei conflitti culturali” e circa la concreta praticabilità di tale investitura tramite il test proposto.
L’interrogativo su quale sia il soggetto più idoneo a tentare di comporre i conflitti multiculturali non è affrontato direttamente, ma resta sullo sfondo in tutto il libro e in varie parti carsicamente emerge. Il test è rivolto al giudice, ma anche al legislatore, che potrebbe scegliere di utilizzarlo più che per tentare una regolazione generale dei conflitti multiculturali, per disciplinare specifiche situazioni di conflitto emergenti dalle prassi, dai casi, della evoluzione del tessuto demografico e non solo della società di riferimento. Il conflitto tra obblighi, giuridico vs. politico, morale vs. politico, ciò che pone Antigone contro Creonte, è tradizionalmente affrontato (non diremmo risolto) dal diritto attraverso l’istituto della obiezione di coscienza, che consente al singolo di sottrarsi dall’adempimento di un obbligo che l’ordinamento giuridico gli impone perché la lealtà nei confronti di un altro sistema normativo, valutato come degno di apprezzamento e considerazione da parte dello Stato, glielo impone. Questo tipo di soluzione è forse l’unica adottata (in alcuni ordinamenti) dai legislatori a tentare un approccio per così dire generale ai conflitti, e non è un caso che si ponga quale elemento eccezionale, riconosciuto soltanto (basti pensare al caso italiano) per specifici obblighi posti dal legislatore in ambiti particolarmente controversi dal punto di vista etico e/o religioso. Non è facile, è evidente, per un legislatore, porre eccezioni alla regola generale dell’osservanza della legge sulla quale si fonda la tenuta del sistema nel suo complesso, in quanto ogni eccezione rappresenta potenzialmente lo svuotamento del contenuto prescrittivo della relativa disposizione e la sua potenziale non applicabilità.
Quale allora il ruolo del giudice? Una delle più importanti risultanze messe alla luce dall’attenta analisi compiuta dall’Autrice sembra essere proprio la tendenza dei giudici a decidere sulla base di criteri “altri” surrettiziamente nascosti sotto il manto dell’ “argomentazione culturale” (S. Tosi Cambini 2008; F. Quassoli 2002; L. Lanza 2008).
In particolare, in più occasioni, viene adeguatamente messo in luce come, il più delle volte, a risolvere il conflitto culturale intervengano più che altro ragioni politiche, assiologiche, valoriali, piuttosto che l’uso delle opportune categorie dogmatiche (F. Parisi, 2010). Viene da chiedersi allora se la soluzione più opportuna sia veramente quella di consegnare totalmente la questione nelle mani dei giudici, in assenza di un benché minimo appiglio normativo di riferimento (V. Villa, 2012).
A tale proposito, deve ulteriormente rilevarsi come – al di là della mancata definizione di ciò che debba intendersi per “cultura” – alcune delle voci del test lascino spazio ad un potere discrezionale da parte del potere giudiziario non più limitato e controllabile, come vorrebbe un concetto “sostenibile” di discrezionalità, bensì assoluto (N. Picardi, 2005). Il riferimento va, in particolare, al penultimo punto del test costruito dall’autrice, ovvero la valutazione, da parte del giudice, circa l’impatto che la pratica avrebbe sulla cultura ospite. Una considerazione di questo tenore, tuttavia, non chiarisce i termini in base ai quali effettuare il giudizio (quale il limite della “tollerabilità”? o ancora, in base a quali criteri effettuare questa valutazione?) e, attraverso il richiamo all’universo simbolico della maggioranza, rischia di legittimare la criminalizzazione di determinati comportamenti solo perché non condivisi oppure solo perché idonei a suscitare nella cultura maggioritaria un sentimento di ripugnanza e disgusto (M.C. Nussbaum, 2005; G. Fiandaca, 2007). Le medesime perplessità investono l’ultimo punto del test, ovvero la valutazione da parte del giudice circa la validità della scelta di vita compiuta dal “cultural offender”. Alla luce di quali parametri, di quali valori, infatti, bisognerebbe effettuare questo giudizio di validità?
Ulteriori criticità si rilevano rispetto al punto 9. del test dove l’Autrice individua nella ricerca dell’equivalente culturale uno strumento di traduzione di una cultura nelle altre che consenta di rivelare la presenza di una discriminazione e di problematizzare il sistema culturale della maggioranza all’interno di un sistema.
In linea teorica tale elemento sembra convincere, per la capacità che possiede di svelare le reali motivazioni che stanno alla base di alcune scelte sanzionatorie dell’ordinamento, d’altra parte l’esemplificazione condotta solleva forti perplessità, soprattutto quando l’equivalente delle mutilazioni viene individuato nella chirurgia plastica e l’equivalente dell’accattonaggio dei minori viene individuato negli asili nido.
Le ultime riflessioni, infine, hanno sapore più spiccatamente pratico.
Ci si chiede, in particolare, se il giudice sia disponibile, stante la difficoltà che attraversa in questo tempo la macchina giudiziaria italiana, ad affrontare un percorso argomentativo così incerto, problematico e problematizzante come quello offerto dal test. Ciò comporterebbe, infatti, l’allungamento dei tempi e la moltiplicazione delle sessioni necessarie alla definizione del caso, senza dare la certezza della definitività della decisione dal momento che la mancanza di una gerarchia tra le varie voci, così come il loro carattere volutamente “aperto”, lascerebbero viceversa ipotizzare buone probabilità di riforma delle decisioni di primo grado in sede d’appello. Al di là di questi rilievi, ci si chiede se il giudice sia pronto ad un intervento così complesso, che richiede una preparazione psicologica, sociologica e antropologica di non poco momento.
A tale proposito ciò che ci permettiamo di suggerire è una modifica di “format”.
In particolare, il rischio che il giudice cada in una “fallacia di livelli” (A. Costanzo, 2003), come rilevato dall’Autrice, potrebbe essere sventato attraverso un percorso formativo di consapevolizzazione e messa a nudo dei valori e stereotipi sottesi al ragionamento giuridico. Così, il processo argomentativo costruito nel testo potrebbe costituire il punto di partenza per strutturare un corso di formazione cui sottoporre obbligatoriamente tutti gli operatori del diritto. In alternativa, occorrerebbe pensare ad un test meno articolato ma più aderente al principio di tassatività cui vincolare il ragionamento argomentativo, così da impedire che la necessaria opera di interpretazione e “mediazione” giurisprudenziale non si risolva in inaccettabile arbitrio.
Una simile conclusione è imposta da un’ulteriore considerazione.
Se, come abbiamo visto, il diritto è “fatto” e pronunciato anche attraverso un argomentare giuridico viziato da pre-comprensioni, caratterizzazioni e conoscenze di senso comune, occorre altresì riflettere sul fatto che a loro volta, queste ultime, proprio grazie alle classificazioni giuridiche e al loro potere creativo e “oggettivante” intere strutture di senso (C. Bartoli, 2012) ricevono rinnovato vigore e legittimazione, in un cortocircuito che è espressione di sotterranei rapporti di forza.