I generali e il Medio Oriente
Quando il 17 dicembre 2010 Mohamed Bouaziz – un giovane diplomato di 26 anni che protestava contro la polizia che gli aveva sequestrato il chiosco di di frutta e verdura con cui faceva vivere la sua famiglia – si diede fuoco a Sidi Bouzid, sembrava imprevedibile che un tale (estremo) gesto di disperazione individuale potesse scoperchiare il vaso di Pandora di contraddizioni che più di una Regione geopolitica appaiono ogni giorno che passa quelle di un’epoca intera. Il vento della rivolta soffia ancora, si spinge al di là dell’Africa settentrionale, giunge in Medio Oriente, lo oltrepassa interessando l’intera penisola arabica e c’è chi è pronto a scomettere che le prossime coste ad essere toccate saranno quelle asiatiche. La profezia è del nostro Giulio Tremonti che, con sguardo visionario sui grandi fatti della storia, intervenendo ad un seminario sul sistema monetario internazionale dello scorso 30 marzo a Nanchino, ha affermato che le rivoluzioni arabe dimostrano quanto il G20 sia un contenitore istituzionale insufficiente a rappresentare il mondo economico contemporaneo – che si persiste a ritenere “fondato sul dolaro, sul petrolio, sui fondi sovrani, sugli investimenti di enormi capitali” –, dal momento che esso affronta le crisi attraverso i debiti degli stati mentre ciò che si muove sono masse bibliche continentali. E a muovere le masse (asiatiche soprattutto) sono le ingiustizie.
Ecco perché – in un mondo in cui, come nei film di Alejandro Iñárritu, un colpo di fucile mette in subitanea comunicazione le disuguaglianze atomizzate di un’umanità dolente con i processi di trasformazione politica – anche la notizia di una Rivoluzione minore (tanto per usare il gergo politologico di Hannah Arendt) che in questi giorni sta interessando il minuto Gibuti è in grado di inquietare (non poco) la comunità internazionale. Gli incidenti che hanno seguito e preceduto la rielezione di Ismail Omar Guelleh lo scorso 8 aprile (150 mila elettori iscritti su una popolazione totale di 800 mila persone) fanno dire all’Economist del 13 aprile che the world should keep an eye on Djibouti, perché Djibouti matters, it matters a lot. La ragione strategica consiste nella collocazione del (pur minuscolo) stato islamico nel Corno d’Africa, uno degli spigoli più complessi del continente, tra l’Etiopia (che, priva di un accesso al mare preme, da sempre, sulle dinamiche interne del Paese), l’Eritrea (immersa in interminabili dispute di confine con i suoi vicini) e la Somalia (uno dei più pericolosi focolai terroristici quaedisti al mondo). Gibuti è anche sede di una fondamentale base militare americana in Africa, quella di Camp Lemonnier, dove ci sono gli uomini che afferiscono all’Africom (lo United States Africa Command) e del più grosso contingente francese all’estero. Per trovare il più vicino porto amico dell’Occidente, bisogna scendere di 1700 km a sud, nel porto keniota di Momabasa. Pertanto, se consideriamo le dimensioni del trafico marittimo dell’Africa orientale che passano per il golfo di Aden, Gibuti è un vero e proprio santuario del contrasto al terrorismo ed alla pirateria internazionali e non c’è potenza mondiale che non abbia un’interesse alla stabilità costituzionale del Paese – senza dimenticare che al di là del mare, c’è lo Yemen, anch’esso, come visto nel mio primo intervento sul blog, in profonda crisi politica.
La cronaca: il rieletto Ismail Omar Guelleh è l’ultimo membro di una dinastia che governa il Paese sin dai giorni dell’indipendenza dalla Francia avvenuta nel 1977; il che, come ha spiegato l’unico candidato che ha corso (come indipendente) alle elezioni dell’8 aprile, Mohamed Warsama Ragueh, ha trasformato Gibuti in una Repubblica di facciata ed in un regno di fatto. Un anno fa, Guelleh, agli sgoccioli del secondo mandato, fece cambiare la legge che gli avrebbe impedito di correre per una terza volta, elemento che ha fatto scattare le più grandi manifestazioni di piazza antigovernative della storia del paese (il bilancio momentaneo parla di un morto, numerosi feriti e arrestati fra leader e attivisti delle opposizioni). La farsa elettorale – nonostante la Commissione elettorale abbia confermato che il Presidente è stato riconfermato (di fatto, in assenza di un vero avversario) con l’80% dei consensi, secondo alcune organizzazioni non governative si sarebbero egualmente verificati episodi (anche) gravi di brogli e intimidazioni – non potrà che aggravare la situazione. E qui sta il nodo della questione perché un’eventuale instabilità interna, oltre al dannegiamento degli interessi geopolitici di cui sopra, potrebbe innescare un pericoloso effetto domino nella regione e, se teniamo in considerazione anche il cambio di regime avvenuto in Costa d’Avorio (sulla sponda opposta, atlantica del continente africano) di cui si è discusso nel primo capitolo della Rubrica, la capitolazione costituzionale di Giubuti segnerebbe a questo punto il contagio definitivo della rivolta araba all’Africa subsahariana.
L’analisi del ruolo geopolitico e costituzionale di Gibuti cui abbiamo accennato è una voce importante di questo terzo capitolo della nostra indagine dedicato proprio al ruolo dei militari nei percorsi di transizione costituzionale del quadrante mediorientale (inteso in senso ampio).
L’esempio egiziano in tale passaggio è forse quello più eloquente. Al Cairo, i generali, concludendo un colpo di stato “alla turca” e strappando a Mubarak il baricentro della transizione, si sono mostrati come il punto di riferimento essenziale per il movimento popolare, nonché come gli unici in grado di superare l’incapacità delle forze politiche nella gestione della crisi – anche grazie ai loro strettissimi legami con l’occidente. Da quando nel 1952 Nasser rovesciò la monarchia, i militari possono tutto in Egitto: controllano (secondo fonti non ufficiali) dal 33 al 45% dell’economia nazionale, sono i destinatari privilegiati degli aiuti militari americani e, ai sensi della legge 313, qualunque informazione che possa riguardarli è coperta da segreto di Stato. Similmente, in Tunisia, che, dal punto di vista della nostra tematica contingente può essere considerata una copia in piccolo dell’Egitto – Ben Ali, ad esempio, non proveniva dall’esercito ma dalla polizia – le gerarchie militari hanno assunto il potere dopo la caduta del Presidente ed hanno poi imposto il loro protettorato. In Libia, sempre per restare ai paesi finora esplicitamente toccati dalla primavera araba, l’esercito, fortemente lacerato nel suo assetto interno da profondi contrasti di natura tribale e politica, si è spaccato in due fazioni: una componente tripolitana rimasta fedele a Gheddafi, che ha insanguinato la Cirenaica e che ha, infine, portato alla confusa reazione militare dell’Occidente; e una componente che si è schierata con i rivoltosi e all’interno della quale alcuni generali, come lo stesso capo di stato maggiore El Mahdi el Arabi, vorrebbero tentare il colpo di forza contro il Rais – alla vicenda libica sarà dedicata la puntata finale delle nostre analisi.
Insomma, anche la cronaca militare delle transizioni mediorientali dà conferma all’idea di quel bivio spericolato e tutto mediorientale cui accennavamo in chiusura del primo intervento: una nuova spinta militarizzata da una parte e il rischio di un’islamizzazione radicale sul modello iraniano dall’altra. Tuttavia, In questo tourbillon al crocevia fra le dinamiche interne e quelle internazionali, non mancano i colpi di scena, come la presa d’assalto degli edifici del ministero dell’interno egiziano descritta da Marco Pedersini l’8 marzo scorso. L’episodio – che ha condotto alla razzia di gran parte degli archivi della famigerata e brutale polizia segreta, la Mabahith Amn al Dawla (Mad) – potrebbe costituire un capitolo aggiuntivo dell’umanità variopinta di un Egitto da Palazzo Yacoubian se non fosse rivelatore di un dato politico decisivo. Il materiale trafugato è infatti pronto ad essere diffuso via Internet, come una specie di Wikileaks artigianale.
Il danno maggiore, osserva Pedersini, non è nella fuga di notizie sul regime, che già era tacciato di seguire una condotta non proprio cristallina. Per la prima volta dall’inizio di questa rivolta, l’esercito ha fronteggiato con la forza i manifestanti, a dimostrazione del fatto che « anche i soldati ora hanno qualche problema a governare il malcontento. Se anche i potenti generali non possono evitare che la folla appicchi il fuoco agli edifici del ministero dell’Interno, allora serve che qualcun altro aiuti la transizione ». Simbolicamente, come evidenziato dal fatto che nella circostanza lo stesso Obama avrebbe chiesto al segretario alla Difesa Robert Gates di occuparsi personalmente della questione con una visita d’emergenza al Cairo, l’Occidente, Casa Bianca in testa, cha ha sempre guardato all’Egitto come partner decisivo per la sua strategia mediorientale, teme ora che l’esercito – storicamente molto secolarizzato – non sia più in grado di garantire un argine contro la piazza e contro le infiltrazioni islamiste.
A conferma di questa ipotesi inquitenate, il giorno sucessivo all’episodio appena descritto (9 marzo 2011), Repubblica racconta di come i militari abbiano represso con la violenza una manifestazione di protesta in piazza Tahrir, arrestando 19 donne e sottopendnole a varie torture (fra cui l’odioso “test di verginità” sotto minaccia di essere incriminate per prostituzione). Due settimane dopo, il gabinetto egiziano ha approvato un decreto legge che punisce scioperi, proteste, dimostrazioni e sit-in. Le pene per gli organizzatori sono severissime e prevedono un anno di carcere. E’ il colpo più duro per le forze laiche del Cairo, dopo il referendum che ha emendato la Costituzione e aperto la strada a elezioni in tempi rapidi (si veda il secondo articolo di questa Rubrica dedicato al ruolo dei partiti fondamentalisti). I Fratelli musulmani, dati per favoriti nei sondaggi e decisivi al recente referendum, hanno dato il loro sostegno alla legge marziale repressiva.
In conclusione, l’anomalia di un Medio Oriente che più si democraticizza e più si islamizza (per riprendere l’immagine di Bernard Lewis con cui aprivamo la nostra Rubrica), in relazione al potere militare, rimanda al ruolo che i generali hanno avuto nelle società islamiche a partire dall’Ottocento, quando tentarono di frenare il declino dell’Impero ottomano e di portare la modernità nelle capitali del Medio Oriente. Il motivo di questa spinta riformista ha radici profonde. Nel mondo islamico, lo sviluppo scientifico si è fermato nel XIII secolo, rendendo impossibile la competizione con le potenze europee. I militari si resero conto di dovere “importare occidente”, a partire dalla tecnologia, per arrivare poi alle riforme sociali e politiche (il Foglio, 15 febbraio). Inevitabile, sul punto, il confronto con le questioni turche su cui si tornerà nel prossimo intervento. Per ora, si può solo anticipare suggerendo un quesito: come ben noto, ad Ankara, l’esercito e la religione si battono aspramente nelle pieghe di una storia costituzionale “progressiva” che dura da quasi un secolo e che oggi è fortemente incardinata nei binari stretti di un’occhiuta supervisione europea; cosa succederà nel resto del Medio Oriente, in Paesi che non hanno mai sperimentato alternative a regimi militarizzati o a governi islamizzati e in cui, come dimostrato dall’esempio egiziano che abbiamo riportato, si sperimentano pericolose convergenze fra generali e fondamentalisti?
Una prima osservazione che sorge spontanea parte dall’assunto, ormai quasi generalmente riconosciuto, secondo cui
l’eterogeneità di tutti i movimenti rivoluzionari della “primavera araba” renderebbe irriducibili le loro cause ad un fenomeno unitario.
E se da un lato è il ruolo svolto dell’esercito a costituire la chiave di interpretazione privilegiata delle matrici delle rivoluzioni democratiche in MO, sembrerebbe in qualche modo proprio siffatto ruolo a determinare, ed a far emergere a mio avviso, le principali differenze tra le rivolte che hanno portato alle dimissioni di Ben Ali e Mubarak e la rivolta popolare drammaticamente degenerata nella guerra in corso nella Libia di Gheddafi.
E’ evidente infatti come in uno scenario storico-politico come quello libico, immerso nel più completo disordine istituzionale, e in cui la recente rivoluzione non è stata animata dalle proteste di più ampio respiro democratico della “nuova gioventù araba”, bensì dalla rottura del patto tra Gheddafi e le principali tribù del Paese, l’esercito, lungi dall’affermarsi come “garante di una transizione democratica”, si contenda le risorse del Paese e abbia nel suo immaginario rivoluzionario unicamente le guerre intestine tra tribù.
Ma ulteriori riflessioni sorgono con particolare riguardo alle più recenti “sembianze” assunte dall’esercito egiziano.
In particolare, gli ultimi fatti avvenuti in Egitto sembrerebbero, a parere di molti, “smascherare” il reale volto di quello che si sarebbe posto come “guarantor of the revolution” solo per “rendere meno odiosa la faccia del regime”, mostrandosi tra l’altro come nuove forme di “rigetto” a soluzioni del dopo-Mubarak inefficaci per un effettivo e “sincero” risanamento delle piaghe sociali che hanno fatto esplodere la rivolta.
La convergenza tra generali e Fratellanza è iniziata con l’assegnazione al gruppo da parte del Consiglio militare supremo di una posizione privilegiata per emendare la costituzione, per poi essere stata in qualche modo resa ancor più evidente dalla comune esultanza per i risultati riportati nel recente referendum costituzionale.
E se ciò per alcuni sembrerebbe risvegliare, usando le parole di Issandr El Amrani, “longstanding perceptions of a symbiotic relationship between the regime and the Brotherhood at the expense of public interest”, per altri rappresenterebbe un ulteriore passo verso una “partita democratica” ancora tutta da giocare nelle prossime elezioni presidenziali e legislative del Paese.
Ciò che emerge tuttavia è che, sebbene inizialmente l’assenza di partiti affidabili e il ruolo che l’esercito è riuscito a garantirsi non sparando sulla folla dei manifestanti abbia consentito che piazza Tarhir mantenesse una forte fiducia nei militari, ci sarebbero ora forti sensori secondo i quali Tantawi e altri militari starebbero favorendo alcuni gruppi rispetto ad altri per spezzare un ampio fronte che “viewed Mubarak’s removal as a first step, not an end point”.
Insomma, analizzando i risultati referendari e le conseguenze che presumibilmente essi porteranno con sé, sembrerebbe quasi che, sebbene si sia cacciato un dittatore, la dittatura sia rimasta.
E in questo senso a coloro che hanno immaginato con profonda fiducia un modello turco per l’Egitto si contrappongono, ora con maggior vigore, coloro che, con i militari a gestire la transizione fuori da un quadro di alleanze occidentali ed europee pari a quello che ha condizionato la transizione turca, presagiscono uno scenario che sembrerebbe più simile a quello del Pakistan.
Un’ evoluzione questa che, come fa notare Roberto Aliboni, potrebbe sì garantire gli interessi geopolitici dell’Occidente, ma che certo non consentirebbe la riforma democratica chiesta dal popolo di piazza Tahrir.
E ciò in qualche modo ci rimanda al solito quesito: cosa si intende per democrazia?
O meglio, ci porta a riflettere, ancora una volta nella storia, su quali debbano essere i reali parametri di riferimento per dare una risposta in tal senso.
Uno dei portavoce dei giovani di piazza Tahrir ha riconosciuto che il voto espresso al referendum sia stato “frutto della volontà popolare”.
Il referendum è stato “trasparente”, non è stato caratterizzato da “frodi”, come invece avvenne alle elezioni del 2010.
Il problema è pertanto quello di capire se la valutazione dei processi di democratizzazione in MO con le lenti degli interessi occidentali sia più importante di quelle che, volenti o nolenti, si pongono come delle forme di “legittimazione dal basso”.
E sebbene i risultati del referendum siano stati interpretati come un primo “smacco” alle richieste democratiche dei giovani rivoluzionari, il riconoscimento da parte di questi ultimi della legittimità dei risultati stessi, e in generale della trasparenza in cui si è svolto il referendum, esprime ancora di più la consapevolezza per i pilastri portanti della democrazia intesa stricto sensu, rendendo ancor più evidente come si inizi a respirare una nuova aria in MO, sebbene la strada da percorrere verso una democrazia concreta ed effettiva sia ancora lunga.
Nell’alternativa poi tra “militari o turbanti” si tende a volgere lo sguardo verso una “terza via”: quella del modello turco neo-ottomano, volto a riconciliare democrazia ed Islam, tradizione e modernità, passato e futuro.
Ma anche qui bisognerà vedere innanzi tutto se, e a quale prezzo, si giungerà con il modello turco tanto acclamato ad una riconciliazione effettiva e duratura del mondo arabo con il mondo occidentale.