I diritti LGBTIQ+ in Ungheria tra retorica identitaria e istanze sovranazionali (a margine di alcune recenti novità legislative)
Lo scorso 15 giugno il Parlamento ungherese ha approvato la legge num. LXXIX del 2021, entrata in vigore il successivo 7 luglio, con la quale, da un lato, si sono introdotte misure indirizzate a contrastare il fenomeno della pedofilia (finalità originaria dell’intervento normativo, motivata anche da scandali recenti) e, dall’altro, si sono posti limiti molto pervasivi all’accesso, da parte dei minori, a contenuti che rappresentino e promuovano “l’identità di genere diversa dal sesso assegnato alla nascita, il cambiamento di sesso e l’omosessualità” (di seguito: i contenuti in questione).
A tal riguardo, si deve notare come la confluenza in un unico provvedimento legislativo (circostanza che farebbe pensare a una certa omogeneità della materia disciplinata) di misure volte al contrasto della pedofilia da un lato e, dall’altro, alla limitazione dell’accesso da parte dei minori a contenuti quali quelli in questione appare senz’altro indebita e anzi idonea a favorire l’accostamento degli orientamenti sessuali diversi dall’eterosessualità alla pedofilia, caricando i primi (almeno di parte) del disvalore sociale proprio della seconda.
Venendo ora al contenuto specifico della novella, in particolare sotto il secondo profilo richiamato, si è previsto che: a) i corsi di educazione sessuale tenuti nelle scuole ungheresi possano essere svolti solo da soggetti iscritti in un apposito registro e debbano omettere ogni riferimento a orientamenti sessuali diversi dall’eterosessualità, all’identità di genere e al mutamento di genere; b) siano vietati gli annunci pubblicitari (indipendentemente dalla piattaforma impiegata), accessibili a persone di età inferiore ai 18 anni, anche a scopo educativo, che contengano i contenuti in questione e che le trasmissioni televisive che contengono tali contenuti debbano andare in onda dopo le 22 e prima delle 5; è istituito, al fine di vigilare sull’applicazione di tale divieto, il Consiglio ungherese dei media, dotato di ampi poteri. Un’emittente televisiva ungherese ha affermato, in tanto mettendo chiaramente in luce gli effetti censori della legislazione in esame, che, in ragione di essa, film quali Billy Elliot, Philadelphia, il Diario di Bridget Jones e Harry Potter potranno essere mandati in onda solo nella fascia oraria ricordata.
Già prima dell’adozione della legge de qua, il 14 giugno, Dunja Mijatović, Commissaria per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa, aveva rivolto un appello al Parlamento ungherese affinché questo rigettasse la proposta legislativa, che, ove approvata, avrebbe prodotto l’effetto di “outlaw any depiction or discussion of diverse gender identities and sexual orientations in the public sphere, including in schools and the media”, notando inoltre, al pari di molti altri, come la legge ungherese ricalcasse la legge russa “contro la propaganda gay” del 2013, che – come deciso dalla Corte EDU in Bayev et al. c. Russia – viola la Convenzione.
Quanto alle istituzioni comunitarie, una prima reazione all’approvazione della legge ungherese è giunta, sul piano diplomatico, da diciotto Stati membri dell’Unione, i quali, in una dichiarazione congiunta, adottata a valle del Consiglio del 22 giugno 2021, la condannavano duramente – ritenendo che la stessa, con il pretesto di proteggere i minori, discriminasse le persone LGBTIQ e ledesse il diritto alla libera manifestazione del pensiero – e chiedevano alla Commissione di prendere gli opportuni provvedimenti.
All’indomani della Dichiarazione appena ricordata, la Presidente della Commissione europea, affermando che “this Hungarian bill is a shame” e che fosse lesiva di valori fondamentali dell’Unione, istruiva i Commissari per la Giustizia e il Mercato interno affinché questi esprimessero al Governo ungherese le preoccupazioni della Commissione prima dell’entrata in vigore della novella. Questi, in una loro lettera, contestavano al Governo ungherese quelle che apparivano loro violazioni prima facie del diritto europeo da parte della nuova legislazione (v. infra), chiedendo alcuni chiarimenti al riguardo. Questo tentativo di interlocuzione è però fallito con piena evidenza: in un suo comunicato ufficiale, il Governo ungherese rispondeva che “the statement by the President of the European Commission is a shame because it is based on false allegations”, escludendo peraltro ogni pretesa violazione del diritto europeo ad opera della nuova legislazione ungherese e, anzi, affermando che questa fosse stata adottata anche in attuazione dell’art. 14, par. 3 CDFUE.
Fallito il tentativo di interlocuzione, la Commissione – peraltro medio tempore a tanto invitata anche dal Parlamento europeo, che l’8 luglio approvava una dura risoluzione “sulle violazioni del diritto dell’UE e dei diritti dei cittadini LGBTIQ in Ungheria” – decideva di aprire una procedura di infrazione a carico dell’Ungheria. In particolare, viene contestata la violazione di alcune disposizioni della Direttiva sui servizi audiovisivi, e di altre della Direttiva sul commercio elettronico, nonché dei principi della libera circolazione di merci (art. 34 TFUE) e servizi (art. 56 TFUE): con l’estrema sintesi che è richiesta in questa sede, la normativa ungherese costituirebbe un’ingiustificata restrizione al libero funzionamento del mercato europeo dei media nella misura in cui limita i contenuti audiovisivi e digitali che possono essere offerti in Ungheria da operatori aventi sede in altri Stati membri, senza che siano integrate le condizioni – tanto sostanziali, quanto procedurali – che le ricordate normative pongono al fine di autorizzare eventuali normative nazionali maggiormente restrittive. Sono inoltre ritenute violate, nella misura in cui l’intervento normativo ungherese ricade nell’ambito materiale di applicazione del diritto dell’Unione, taluni diritti sanciti dalla Carta di Nizza, in particolare: il diritto alla vita privata e familiare (artt. 7 e 9 CDFUE), il diritto di libera manifestazione del pensiero e di impresa, leso nella misura in cui si pongono limiti – che è assai difficile ritenere giustificati, necessari e proporzionati – ai contenuti che imprese operanti nel settore dei media possono porre in circolazione (rispettivamente artt. 11 e 16), il divieto di discriminazione fondata sull’orientamento sessuale (art. 21 CDFUE).
Questa vicenda, se sicuramente mostra le difficoltà tutelare i valori fondanti dell’Unione (specie stante la farraginosità delle procedure di cui all’art. 7 TUE), allo stesso tempo pone anche in luce l’efficacia delle procedure di infrazione nel reprimerle, sia pure in via solo mediata – in questo caso dalla sanzione per la violazione delle richiamate direttive (a tal riguardo v., sia pure con riferimento alla crisi dello Stato di diritto questo articolo di M. Schmidt e P. Bogdanowicz).
È con ogni probabilità anche in ragione della montante pressione delle istituzioni europee che Viktor Orbán ha deciso di indire una consultazione referendaria, volta a confermare nella sostanza la legislazione qui in commento. Che l’istituto referendario sia strumento d’elezione dei populismi, in quanto permette un contatto diretto tra il leader e “il Popolo” che questi vorrebbe incarnare e in quanto agevola una polarizzazione del dibattito pubblico, con ciò favorendo la retorica dicotomica tipica dei populismi che vuole un popolo moralmente retto opposto alle élite corrotte, alle minoranze etniche e, ora, alle persone LGBTIQ+, è un dato acquisito (v. questo contributo di G. Martinico). In questo caso – come in quello del referendum precedente, in tema di richiedenti asilo (qui un breve commento di G. Halmai) –, tuttavia, alla strumentalizzazione “interna” del referendum, se ne aggiunge una “esterna”, relativa ai rapporti con l’Unione europea: tale iniziativa appare diretta ad affermare la consonanza dell’azione di governo alla volontà popolare e, più in radice, all’identità costituzionale ungherese. A tal proposito, è opportuno richiamare gli emendamenti alla Legge fondamentale ungherese adottati nel dicembre 2020 (qui il testo; qui il Parere della Commissione di Venezia), che non a caso impiegano la categoria dell’identità costituzionale: “Hungary shall protect the institution of marriage as the union of one man and one woman established by voluntary decision, and the family as the basis of the survival of the nation. […] The mother shall be a woman, the father shall be a man. […] Hungary shall protect the right of children to a self-identity corresponding to their sex at birth, and shall ensure an upbringing for them that is in accordance with the values based on the constitutional identity and Christian culture of our country”.
Nella retorica identitaria fatta propria dal Governo ungherese (ma altrettanto si potrebbe dire con riferimento al caso polacco, considerando l’istituzione delle cc.dd. LGBT free zones da parte di autorità locali polacche – che pure hanno incontrato una dura risposta da parte delle istituzioni europee, in particolare del Parlamento e della Commissione, da ultimo, con la decisione di aprire una procedura di infrazione contro la Polonia –, le parole del Ministro dell’Istruzione, secondo le quali è allo studio, presso il Governo polacco, una proposta di legge analoga a quella ungherese, nonché alcune esternazioni di esponenti della Chiesa e del partito di maggioranza polacchi), la pretesa “ideologia gender” costituisce dunque un prodotto culturale estraneo all’esperienza politica e giuridica nazionale; un prodotto culturale straniero, che, come in passato il comunismo e, oggi, le istituzioni liberali (da riformare in quelle proprie di una “democrazia illiberale”), forze esterne vorrebbero imporre all’Ungheria (e alla Polonia): di qui la necessità di resistervi a tutela della (pretesa) identità costituzionale ungherese (v., più diffusamente, questo articolo di R. Brubaker).
A valle delle pur brevi considerazioni svolte, pare allora potersi osservare che l’approvazione della legge in commento non costituisce affatto un episodio isolato, né con riguardo alla sola esperienza ungherese, né nel più ampio panorama dei più recenti sviluppi in alcuni Stati dell’Unione; al contrario, il tema dei diritti delle persone LGBTIQ+ si avvia (se non è già) a costituire una linea di faglia (al pari, ad esempio, della questione dell’indipendenza della magistratura) lungo la quale sviluppare i rapporti – e gli attriti – tra l’Unione e alcuni suoi Stati membri, con ciò che ne deriva quanto al necessario (e rilevante) impegno delle Istituzioni europee a tutelare i valori fondanti dell’Unione di cui all’art. 2 TUE.