“Hotel Rwanda”: la decisione della Corte Suprema del Regno Unito sul Rwanda Plan e le sue conseguenze

Introduzione
Il 15 novembre 2023, la Corte Suprema del Regno Unito ha dichiarato unlawful il c.d. “Rwanda Plan”, costituito principalmente da un Memorandum of Understanding che prevedeva il ricollocamento e l’esame delle domande dei richiedenti asilo giunti illegalmente nel Regno Unito in Rwanda, designato dal Governo come paese sicuro”, probabilmente per via della pluridecennale stabilità politica e dell’alto tasso di crescita del PIL sotto il regime del Presidente Kagame.
L’illegittimità rilevata dalla Corte si basa sulla violazione del principio di non-refoulement, ossia il divieto di espellere e respingere un rifugiato verso paesi o territori ove i suoi diritti sarebbero minacciati, sancito dalla Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati (art. 33), nonché dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e da altri atti di diritto internazionale incorporati nella «domestic law by a number of statutes enacted by Parliament» (parr. 26-27 e 33).
I ricorrenti erano alcuni richiedenti asilo provenienti da paesi attraversati da conflitti armati e da gravi violazioni dei diritti umani, come Siria, Iraq e Iran. Essi contestavano l’inammissibilità della decisione di espulsione adottata dal Secretary of State e il loro ricollocamento in Rwanda, sulla base degli art. 345A e 345B delle Immigration Rules allora in vigore, norme che consentivano all’Home Office di designare il Rwanda “safe third country” nelle Country Policy Information Notes (CPINs); in questo modo, il Secretary of State poteva rilasciare i certificati di espulsione dal Regno Unito al Rwanda, ove le richieste di asilo sarebbe state prese in carico. Gli stessi ricorrenti, inoltre, avevano beneficiato delle interim measures da parte della Corte EDU ai sensi dell’art. 39 del Regolamento interno della stessa, adottate su «exceptional basis, when the applicants would otherwise face a real risk of irreversible harm»; in questo modo, in Rwanda non è stato effettuato alcun ricollocamento.

L’antefatto
Nell’aprile del 2022, il Governo del Regno Unito ha siglato con il Governo del Rwanda il Migration and Economic Development Partnership (MEDP) mediante un Memorandum of Understanding (MOU) e due Notes Verbales, il c.d. “Rwanda Plan”. Ai sensi del MOU il paese africano «will process their claims and settle or remove (as appropriate) individuals after their claim is decided, in accordance with Rwanda domestic law, the Refugee Convention, current international standards […]» (MOU, par. 2); tale previsione ha posto non pochi interrogativi anche alla luce dell’obbligo di condivisione delle responsabilità con Stati terzi, laddove the «UK’s approach seeks to shift responsibility to a country already hosting many refugees». Inoltre, la House of Lords ha ampiamente criticato la mancanza di controllo parlamentare sul “Rwanda Plan”: trattadosi di un MOU, non è infatti soggetto alla procedura prevista dal Constitutional Reform and Governance Act 2010, secondo cui la ratifica di un trattato internazionale può essere completata solo se, sottoposto l’accordo ai due rami del Parlamento, non vengono sollevate obiezioni dalle Camere nei successivi 21 giorni.

Il giudizio della Corte Suprema.
Prima di tutto, merita di essere segnalato che la Corte affermi espressamente di non essere «concerned with the political debate surrounding the policy», ma di decidere la Rwanda policy considerando «the evidence and established legal principles». Si tratta, a ben vedere, di un inciso con cui esplicita la volontà di rimanere al di fuori dell’aspro dibattito sulla questione migratoria, per non politicizzare il ruolo dei giudici.
La Corte rifiuta la lettura offerta dalla Divisional Court e, in accordo con la Corte d’Appello, sostiene che l’oggetto del giudizio non fosse la titolarità o meno dell’Home Secretary di designare il Rwanda come “paese sicuro”, bensì l’esistenza di «substantial grounds for thinking that there is a real risk of refoulement» (parr. 39-40). L’argomentazione della Corte si avvale della valutazione espressa dall’UNHCR con cui, secondo l’art. 35 della Convenzione sullo status dei rifugiati, gli Stati contraenti debbono cooperare nell’applicazione della Convenzione (parr. 64-65). A tal riguardo, l’UNHCR aveva ritenuto il Rwanda Plan contrario ai principi del diritto internazionale umanitario, anche sulla scorta dell’esperienza maturata dall’UNHCR in Rwanda sin dal 1993, assieme ad altre organizzazioni non governative, nell’assistenza dei richiedenti asilo e dei rifugiati e delle deficienze lì riscontrate(parr. 65-71).
Così, l’analisi della Corte ricade sulla tutela dei diritti umani in Rwanda, sull’adeguatezza del sistema di asilo e specificamente sull’esistenza o meno di un effettivo rischio di refoulement (par. 74). A tal riguardo, la Corte rileva l’assenza di un sistema di asilo adatto a soddisfare richieste di migranti provenienti da paesi quali Iran, Iraq, Pakistan e Siria, nonché la carenza delle garanzie giurisdizionali effettive, per via di ragionevoli dubbi sull’indipendenza del sistema giudiziario ruandese. Nei paragrafi seguenti, la Corte esamina la prassi, ricordando che «UNHCR’s evidence shows 100% rejection rates at RSDC level during 2020-2022 for nationals of Afghanistan, Syria and Yemen, from which asylum seekers removed from the United Kingdom may well emanate. This is a surprisingly high rejection rate for claimants from known conflict zones» (par. 85), ove i richiedenti asilo possono essere ricollocati dalle autorità rwandesi (par. 94). Per di più, la lettura della Corte viene supportata dal precedente accordo siglato nel 2013 da Israele con il Rwanda, avente finalità omologhe e dichiarato illegittimo dalla Corte Suprema israeliana nel 2018.
In questo modo, la Corte sostiene che il sistema d’asilo rwandese non possa assicurare la tutela del principio di non-refoulement. (parr. 104 e 105). Inoltre, appare interessante segnalare come la Corte non abbia esaminato in via prioritaria la compatibilità del “Rwanda Plan” con la CEDU (par. 106); probabilmente, la scelta di vagliare la violazione del principio del non-refoulement rispetto ad altri atti di diritto internazionale è stata dettata dall’intenzione della Corte di “affrancarsi” dal dibattito nazionale sui vincoli posti dalla CEDU al legislatore del Regno Unito.

La reazione del Governo: il Rwanda Bill e le sue (possibili) conseguenze.
Dopo il giudizio della Corte, il Governo Sunak ha continuato a perseguire comunque la politica migratoria ben esemplificata dal “Rwanda Plan”, ma ha stipulato un Trattato internazionale con il Rwanda, in sostituzione del MOU quale accordo politico; inoltre, il Governo ha presentato il Safety of Rwanda (Asylum and Immigration) Bill, approvato in terza lettura il 17 gennaio alla Camera dei Comuni. In tale contesto, sono emersi i contrasti tra i Tories più radicali, fautori della disapplicazione dello HRA, e i più moderati; ciò ha provocato le dimissioni del Ministro dell’immigrazione, Robert Jenrick, mentre, nelle explanatory notes apposte al summenzionato Bill, a destare sorpresa sono stati i dubbi sulla compatibilità con la CEDU espressi dell’attuale Home Secretary, James Cleverly (par. 1.3).
In effetti, dal Bill emergono numerose problematiche: innanzitutto, la normativa risponde alle conclusioni della Corte Suprema, facendo sì che sia il Parlamento, con una legge, a qualificare il Rwanda come paese sicuro. A questo implicito richiamo alla parliamentary sovereignty ne segue uno esplicito (S. 1, par. 4 del Bill), nelle norme cruciali del testo, a partire dalla S. 2 che obbliga ogni ente amministrativo e giudice di qualsiasi grado a considerare il Rwanda come paese sicuro; ben oltre si spinge la S. 3, che agisce in deroga rispetto alla disciplina dettata dagli artt. 2, 3, 6, 7-9 dello Human Rights Act, 1998. Si tratta di notwithstanding/ouster clauses che coinvolgono anche le misure cautelari della Corte EDU, il cui rispetto verrebbe a dipendere dalla discrezionalità del Governo britannico, mentre alle Corti è preclusa la loro considerazione nella fase processuale (S. 5). A fronte di questa estesa deroga allo HRA, va posto in evidenza che il Bill non intacca l’operatività dell’art. 4 dello HRA, che consente alle corti di dichiarare l’incompatibilità di una fonte primaria con la CEDU mediante una declaration of incompatibility; quest’ultima, come è noto, non invalida la normativa domestica che il giudice continua ad applicare, mentre il Parlamento non è obbligato ad abrogarla.
Permane, invece, la possibilità per l’ufficio amministrativo competente di decidere se il Rwanda rappresenti un paese sicuro specificamente «for the person in question», così come viene garantito il diritto di ricorrere individualmente al giudice sulla base di «compelling evidence relating specifically to the person’s particular individual circumstances» (S. 4, par. 1(a, b)). Inoltre, qualsiasi individuo ha diritto a adire direttamente la Corte EDU, proprio perché alle corti nazionali viene impedito, in ragione della deroga posta dalle ss. 2 e 3, di prendere in esame quei ricorsi che contestino la designazione del Rwanda come paese sicuro. Di qui, si evince come il Regno Unito rimanga vincolato alla CEDU e come le deroghe previste dal Bill non renderebbero immuni le norme domestiche da un esame da parte della Corte EDU, scrutinio che può essere evitato solo mediante un recesso dalla Convenzione.

Conclusioni: la parliamentary sovereignty nello scontro tra esecutivo e giudiziario.
Al di là del giudizio della Corte Suprema, tale vicenda dimostra come la sovranità del Parlamento sia stata strumentalmente invocata dai conservatori al fine di adottare misure  in contrasto con diversi atti di diritto internazionale, dalla Convenzione di Ginevra alla CEDU; inoltre, va segnalato anche che la Corte, nel dichiarare unlawful il “Rwanda Plan”, ha saputo offrire argomentazioni che potessero evitare un suo successivo coinvolgimento nel dibattito politico sulla parliamentary sovereignty.
Tuttavia, con l’approvazione del Safety of Rwanda (Asylum and Immigration) Bill il braccio di ferro tra l’esecutivo conservatore guidato da Sunak e la Corte Suprema sembra poter avere un seguito, in quanto tale normativa non risolve le numerose criticità rispetto alla compatibilità con la CEDU.
In ogni caso, la vicenda legata al “Rwanda Plan” pone diversi interrogativi sul rapporto tra ordinamento del Regno Unito e diritto internazionale, nonché sui limiti della parliamentary sovereignty e sulla separazione dei poteri. Il giudizio della Corte Suprema offre un ulteriore esempio di scontro tra le corti apicali e gli esecutivi; in merito, in chiave comparata destano interesse la recente sentenza della High Court australiana e ciò che potrà scaturire dal giudizio della Corte costituzionale albanese, sul protocollo siglato tra l’Albania e l’Italia lo scorso 6 novembre, attualmente sospeso. Si tratta di una tendenza all’esternalizzazione delle procedure per le domande dei richiedenti asilo non nuova, ma che assume contorni problematici, in ciascuno dei casi richiamati, soprattutto in materia di compatibilità tra le misure adottate e il diritto internazionale. La comparazione evidenzia altresì rilevanti differenze – ad esempio nel caso italiano va valutata anche la compatibilità con il diritto dell’Unione europea e occorre ricordare che, secondo il protocollo tra Italia e Albania, i Centri di Permanenza per il Rimpatrio saranno sotto la giurisdizione italiana – assieme alla specificità dell’ordinamento del Regno Unito. In questo caso, a “tenere banco” sono il dibattito dottrinale e la giurisprudenza attorno alla parliamentary sovereignty assieme all’essenza stessa del bilanciamento tra i poteri, come dimostra l’articolo 3 del Safety of Rwanda (Asylum and Immigration) Bill: tale disposizione, una volta in vigore, precluderebbe un rimedio giurisdizionale effettivo sulla base dello HRA comportando, allo stesso tempo, una disapplicazione senza precedenti delle sue norme fino a poter configurare una sorta di velato “opt-out” unilaterale dalla CEDU.