Fra solidarietà e responsabilità. A proposito del volume di Francesco Saitto Economia e Stato costituzionale. Contributo allo studio della “Costituzione economica” in Germania (Milano, Giuffrè, 2015)
Gli anni successivi all’erompere della crisi economica e finanziaria sono stati caratterizzati da un intenso dibattito sulla cornice costituzionale nelle materie dell’economia e delle finanze pubbliche. È sufficiente citare, facendo esclusivamente riferimento al caso italiano, l’annuncio di una revisione dell’art. 41 della Costituzione e, soprattutto, l’entrata in vigore della legge cost. n. 1/2012. In entrambi i casi, le soluzioni di diritto positivo e le discussioni scientifiche caratteristiche dell’ordinamento tedesco hanno rappresentato un punto di riferimento importante. La centralità della riflessione condotta su questi problemi dalla cultura giuridica tedesca è stata ulteriormente acuita dalle vicende che hanno originato importanti riforme nella struttura dell’Unione economica e monetaria: l’immagine di una “Europa che parla tedesco” – come anche, con una carica suggestiva ancora più forte, di un’“Europa tedesca” che finirebbe col fagocitare una “Germania europea”[i] – è stata ripetutamente evocata nel dibattito politico e costituzionalistico. Il punto di chiusura di tutte queste riflessioni dev’essere probabilmente rinvenuto nelle conseguenze del fermento suscitato dalla crisi per una ricostruzione aggiornata delle fattezze dello Stato costituzionale nel momento presente. Il lavoro monografico di Francesco Saitto su Economia e Stato costituzionale, di recente pubblicazione, si caratterizza per il tentativo di fare i conti con tutti questi nodi problematici calando l’analisi nelle discussioni e nelle vicende costituzionali di un ordinamento e di una cultura giuridica, quelli tedeschi, in cui tale dibattito appare particolarmente “ricco e profondo” (p. XII). Muovendo dalla constatazione che i rapporti “tra le diverse parti delle Costituzioni che hanno ad oggetto i vari aspetti dell’economico” – con particolare riguardo all’economia reale e alle finanze pubbliche – “appaiono ormai altamente integrati” (p. IX), l’opera propone uno studio della “Costituzione economica” in stretta correlazione con la “Costituzione finanziaria”, concentrando l’attenzione su un’esperienza costituzionale, quella tedesca, cui è attribuito un rilievo paradigmatico. Il libro si caratterizza allora per un tentativo – non frequente negli studi dedicati all’uno o all’altro profilo – di riflettere sui nessi tra Wirtschaftsverfassung e Finanzverfassung in uno Stato costituzionale ormai “aperto”. Si tratta cioè di riflettere criticamente e di prendere sul serio il classico insegnamento di Peter Badura, secondo cui “Die Finanz- und Haushaltspolitik ist ein Teil der Wirtschaftspolitik” (Wirtschaftsverfassung und Wirtschaftsverwaltung, IV edizione, Tübingen, Mohr Siebeck, 2011, p. 138).
L’indagine condotta dall’Autore è articolata in cinque capitoli. Si può affermare, grossolanamente, che i primi due si soffermino prevalentemente sulla Wirtschaftsverfassung, il terzo e il quarto sulla Finanzverfassung e l’ultimo sulla complessa interazione fra ordinamento retto dal Grundgesetz e Unione economica e monetaria. Un’analisi costituzionalistica di questo tipo – specialmente nella prima parte – rende necessaria una “contaminazione” costante con apporti metodologici e disciplinari differenti: dalla storia costituzionale alla filosofia politica, dal dialogo fra diritto ed economia – è il caso del costituzionalismo fiscale di Buchanan – fino alla comparazione con altre esperienze costituzionali. La monografia si segnala per la sua attenzione all’analisi diacronica e per il tentativo di mettere in evidenza, oltre le cesure, le transizioni e gli elementi di continuità tra una fase e l’altra, come l’inesausta riflessione, tipica della cultura tedesca, sul rapporto fra Stato e società (p. 16, p. 83 e ss.). Peraltro, benché sia incentrato sul “caso” tedesco per i suoi caratteri di esemplarità, il lavoro non si sottrae a riflessioni comparatistiche di più ampia portata. È il caso, per esempio, delle osservazioni dedicate ai rapporti fra diritto legislativo ed economia nella cultura liberale tedesca dell’Ottocento, e delle conclusioni, assai diverse, cui invece giunse l’empirismo inglese (p. 3 e ss.). Allo stesso modo, si riflette sulle implicazioni della critica schmittiana al concetto di Costituzione economica per i successivi contributi della scienza costituzionalistica italiana sul medesimo tema (p. 47 e ss.); oppure, ancora, sulla terza via fra capitalismo e socialismo, vagheggiata da più parti negli anni Trenta del secolo scorso (p. 57 e ss.).
L’Autore comincia “dal principio”, collocando le radici del dibattito sulla Costituzione economica – di cui fuori di Germania sono particolarmente noti gli esiti degli anni Cinquanta e Sessanta – nell’intensa stagione weimariana, se non addirittura negli anni dell’unificazione tedesca, compiutasi sulla base del progetto politico bismarckiano. Per la sua natura di latecomer fra i grandi Stati-nazione europei, in Germania il dibattito pubblico era caratterizzato da una chiara separazione fra Stato e società, da una valorizzazione delle possibilità del diritto quale strumento dell’azione del potere pubblico e dalla prevalenza di un liberalismo sui generis: a distanza di qualche decennio, i caratteri peculiari di un simile atteggiamento peculiare risulteranno particolarmente evidenti nelle proposte della scuola di Friburgo. Per l’interpretazione del rapporto fra Stato e società, l’Autore sceglie di puntare non sulla contrapposizione “romantica” – come avviene, per esempio, nelle indagini sul discrimen fra il diritto privato e il diritto pubblico – ma piuttosto su un intreccio dialettico di matrice hegeliana, “una sintesi tra individualismo borghese e statualismo giuspositivistico” (p. 18) che trovò una delle sue espressioni più note e problematiche nella Carta costituzionale di Weimar. Con un rovesciamento della prospettiva hegeliana in materia di rapporti fra Stato e società civile – ovvero, in termini giuridici, fra Staatsverfassung e Gesellschaftsverfassung – la Costituzione di Weimar, con le disposizioni dell’art. 165 relative al sistema dei consigli, costituisce il punto di avvio di alcune rilevanti ipoteche che tuttora gravano sul concetto di Wirtschaftsverfassung; le scelte del costituente del 1919 furono sottoposte a una critica serrata nei lavori di Neumann su Wirtschaftsverfassung – necessariamente “sotto-ordinata rispetto alla Staatsverfassung” (p. 42) – e Wirtschaftssystem. Anche l’intreccio fra democratizzazione politica – intesa come adesione al parlamentarismo – e democratizzazione economica sarà gravido di conseguenze per la vita costituzionale della Repubblica federale.
Il secondo capitolo, invece, si concentra sul problema della Wirtschaftsverfassung nell’ordinamento retto dalla Legge fondamentale dal 1949. Anche in questo caso la ricostruzione proposta dall’Autore si segnala per alcune scelte interessanti, come quella d’insistere su certe continuità, nell’ambito del diritto dell’economia, fra l’esperienza weimariana e quella postbellica (p. 141)[ii]. Ancor prima di ripercorrere le tappe principali della giurisprudenza del Bundesverfassungsgericht relativa alla possibilità di configurare una Costituzione economica – ormai giustiziabile dai giudici di Karlsruhe – l’Autore ritorna sul problema, che conserva la sua centralità anche in questa fase, del rapporto fra Stato e società. In particolare, i continuatori dell’opera di Heller e di quella di Smend operarono per favorire il superamento di una concezione oppositiva di quella relazione a favore di un’altra, che privilegiasse il coordinamento e la compenetrazione fra i due poli (p. 83 e ss.).
Della giurisprudenza del Bundesverfassungsgericht, costante nel negare l’esistenza di una Wirtschaftsverfassung che vincolasse le decisioni del legislatore in materia economica, si sottolinea però l’insistenza su “una dimensione funzionale dei Grundrechte in grado di garantire e difendere le basi di un’economia di mercato”, senza però che la Corte si sia mai spinta fino alla “costruzione di una garanzia istituzionale di sistema” (p. 116). Al tempo stesso, il riferimento ai diritti fondamentali può altresì essere interpretato come obbligo, posto in capo al legislatore, di assicurarne il pieno godimento: sarebbe questa la “porta” attraverso la quale la Sozialstaatlichkeit riesce a innervare i principi dell’ordine economico: fin “dall’inizio”, anzi, “si può ritenere che il concetto di Sozialstaat sia stato spesso pensato e sviluppato congiuntamente con quello di Wirtschaftsverfassung” (p. 80). Nella ricostruzione del dibattito sulla Wirtschaftsverfassung le considerazioni più interessanti riguardano però gli anni successivi alla riunificazione e alla firma del trattato di Maastricht. Ciò che sembra emergere dalla più recente giurisprudenza costituzionale è una sorta di contaminazione fra acquisizioni consolidate in materia di Wirtschaftssystem e una tentazione di “‘messa a sistema’ dei principi della libera concorrenza in un senso eminentemente oggettivo” (p. 125). Più che di una saldatura fra testo e prassi costituzionali, ad avviso dell’Autore è più corretto discorrere di un arretramento del modello “renano” a vantaggio d’influenze anglosassoni. Né paiono contraddire questa tendenza di fondo le recenti decisioni del Bundesverfassungsgericht in materia di Existenzminimum, tanto che sembra emergere “una nuova pacificazione” nel nesso fra “Costituzione economica” e Stato sociale, “le cui virtualità erano state utilizzate più volte come vincolo e limite alle libertà economiche” (p. 137).
Conclusa la ricostruzione del dibattito sulla Wirtschaftsverfassung, nei tre capitoli successivi l’Autore si concentra sull’evoluzione della Finanzverfassung, tra forma di governo, forma di Stato e Europäisierung del diritto costituzionale interno. Vale la pena di sottolineare, in particolare, l’enfasi posta sugli snodi tra “Costituzione economica” e “Costituzione finanziaria”, in vista di una lettura organica delle loro evoluzioni più recenti. L’analisi si concentra allora sul nesso fra le politiche di bilancio – nozione qui intesa in senso ampio – e gli interventi dei pubblici poteri in ambito economico. La funzionalizzazione delle politiche di bilancio rivela peraltro la compresenza di matrici ideali che non si limitano all’ordoliberalismo della scuola di Friburgo; l’accoglimento di suggestioni keynesiane, anzi, è stato alla base della svolta accentuatamente “rigorista” dell’ultimo decennio. Il tornante decisivo si colloca fra il 1967 e il 1969, in coincidenza con le battute finali tanto della prima Große Koalition quanto delle Trente glorieuses. Come ha recentemente osservato Christoph Gröpl, dagli anni Sessanta il crescente successo delle idee di Keynes ha “banalizzato” il ricorso a strumenti propri delle politiche di bilancio per il perseguimento di finalità economiche (Schritte zur Europäisierung des Haushaltsrechts, in Der Staat, 2013, p. 2 e s.). Si può soggiungere, en passant, che il primo intreccio forte tra ordine costituzionale nazionale e ordinamento sovranazionale si può collocare proprio negli anni Sessanta quando Hans Peter Ipsen, in occasione di un congresso dell’Associazione dei giuspubblicisti tedeschi, teorizzò l’esistenza di un “mandato costituzionale a provvedere alla crescita” (Verfassungsauftrag zur Wachstumsvorsorge)[iii]. Secondo il giurista amburghese, l’emersione di questo “mandato costituzionale” sarebbe derivata da una più matura consapevolezza dei compiti caratteristici di un moderno Stato industriale e sociale. La presa d’atto di tale nuova realtà avrebbe dato corpo in maniera decisiva all’autonomia del potere esecutivo. Ipsen richiamava l’attenzione, inoltre, sul nuovo stile amministrativo apparso nella medesima fase storica, che gli pareva direttamente riconducibile all’integrazione economica europea, senza però che si potesse bollarlo come qualcosa di estraneo o di assurdo (etwas Fremdes und Abwegiges) per l’ordinamento interno.
L’inversione di rotta, percepibile anche in alcune decisioni del Bundesverfassungsgericht, è giunta a compimento con la costituzionalizzazione del “freno all’indebitamento”, nel 2009): il senso profondo di quella riforma costituzionale è felicemente descritto come un compromesso paradossale “tra valorizzazione del principio democratico e sfiducia nei confronti delle istanze rappresentative” (p. 189): assumono un’inedita centralità un Grundrecht auf Demokratie e la preservazione dell’Entscheidungsfreiheit dei Parlamenti futuri, secondo un Leitmotiv che caratterizza da qualche tempo la vita costituzionale tedesca, anche e soprattutto con riferimento ai rapporti fra ordinamento interno e istituzioni sovranazionali.
Il capitolo IV è propedeutico all’analisi dell’intreccio fra le “Costituzioni finanziarie” della Repubblica federale (D-Finanzverfassung) e dell’Unione europea (EU-Finanzverfassung). Per l’analisi della Costituzione finanziaria – sub specie tanto del travaglio del federalismo tedesco sullo scorcio del secolo XX, quanto della crisi dell’Unione economica e monetaria – svolge un ruolo determinante la riunificazione del 1990, coi suoi postumi di breve e lungo periodo. In questo capitolo, come nel V, emerge nitidamente il ruolo decisivo svolto dal Bundesverfassungsgericht: al confronto con le posizioni espresse dalla scienza giuridica – che aleggiava sulla controversia relativa alla Wirtschaftsverfassung – si sostituisce qui un ruolo marcatamente regolatorio, fino a delineare i contorni di un rapporto, non sempre di facile interpretazione, fra organo di giustizia costituzionale e decisori politici.
Con riguardo all’incessante opera di ridefinizione dei tratti fondamentali del modello tedesco di federalismo fiscale, i successivi interventi della Corte di Karlsruhe sul tema della perequazione finanziaria fra territori sono felicemente descritti come “una progressiva contaminazione in un senso più ‘competitivo’ del federalismo tedesco, senza tuttavia voler compromettere quei caratteri che hanno reso la Germania un paradigma del c.d. ‘federalismo cooperativo’ e i tratti della Solidargemeinschaft” (p. 222). Emerge qui una delle tesi forti del volume: una rilettura, promossa soprattutto dal Bundesverfassungsgericht, dei tratti solidali del federalismo tedesco, il cui esito non è la loro obliterazione, ma il tentativo di esaltare l’intreccio fra solidarietà e responsabilità. Il punto di avvio di quella traiettoria è collocato nel 1999, con l’ultima – a oggi – decisione del Bundesverfassungsgericht in materia di perequazione finanziaria (Finanzausgleich III)[iv]. Nel 2006, alla vigilia della discussione sulla zweite Föderalismusreform, quella lettura, parzialmente nuova, era uscita ulteriormente rafforzata dalla decisione della Corte di Karlsruhe relativa all’erogazione di risorse federali aggiuntive (Ergänzungszuweisungen) a favore del Land Berlino, che aveva chiesto – senza ottenerla – la dichiarazione dello stato di emergenza finanziario (Finanzhaushaltsnotstand) nel proprio territorio. Questa rilettura della Solidargemeinschaft, peraltro, è passata attraverso una presa di distanze da alcuni dei capisaldi dello “Stato unitario federale”, per lo meno dall’interpretazione che ne aveva offerto Konrad Hesse negli anni Sessanta. Ad avviso dell’Autore, nella “vecchia” lettura prevaleva “una chiara fiducia verso la capacità della politica di creare, sostenere e mantenere, secondo i principi della Solidargemeinschaft, un ordinamento federale che riuscisse a garantire condizioni omogenee di vita su tutto il territorio” (p. 271). La scelta di enfatizzare la responsabilità è invece funzionale allo scopo di “rinsaldare i caratteri strutturali del principio democratico attraverso una maggiore capacità di isolare i circuiti rappresentativi” (277).
Si può peraltro affermare che alcuni tratti caratteristici del federalismo unitario hessiano si siano ripresentati, in forma aggiornata, nei nuovi assetti del federalismo tedesco, successivi alla riforma costituzionale del 2009. Nell’istituzione dello Stabilitätsrat, cui partecipano a pieno titolo i ministri dei Länder, si può forse scorgere una versione parzialmente nuova dello Stato federale unitario teorizzato da Hesse, innervato dall’idea di una solidarietà responsabile o di una responsabilizzazione della solidarietà.
Questa reinterpretazione dell’idea di un ordine federale sensibile alle ragioni della solidarietà fra territori consente d’introdurre il paradosso, che tale è solo in apparenza, dell’“Europa che parla tedesco”. Mentre in altre occasioni la Corte di Karlsruhe ha insistito sulla necessità di una compatibilità strutturale – quando non di una vera e propria omogeneità – fra singoli aspetti dell’ordinamento giuridico interno e dell’ordinamento sovranazionale, in questo ambito è rimasta ferma, fin dagli anni Novanta, la distinzione tra la Solidargemeinschaft nazionale e la Stabilitätsgemeinschaft europea disciplinata dai trattati. D’altra parte, non si può indagare su questi temi – e su una certa “diffidenza tedesca nei confronti di politiche economico-monetarie comuni” (p. 283) – senza prendere in considerazione la “normalizzazione” di alcuni aspetti della vita politica tedesca, all’indomani della riunificazione[v]. Fra le righe giurisprudenza del Bundesverfassungsgericht sulle questioni europee ciò che senz’altro appare problematico è l’equilibrio instabile fra politicizzazione della giustizia e giurisdizionalizzazione della politica (p. 288).
Negli strumenti sovranazionali e internazionali messi a punto per governare la crisi, peraltro, sembra affacciarsi il rischio dell’avvento di una “costituzione separata”, eventualità che appare ancor più plausibile in relazione alle attività del Fondo monetario internazionale e delle agenzie di rating: si tratterebbe di una “costituzione” “di natura inter- e sovranazionale, distinta ed almeno in parte aliena rispetto alle singole Costituzioni nazionali, ma capace di incidere in modo penetrante sulle decisioni in materia economico-finanziaria sul piano nazionale, plasmando in tal modo un nuovo equilibrio di rapporti di forza tra i Paesi stessi” (p. 296). È questo lo sfondo in cui si colloca l’altro paradosso che percorre la giurisprudenza della Corte costituzionale di Karlsruhe: la difesa del primato de Parlamento nazionale passa per una limitazione dei suoi spazi decisionali nel presente: secondo l’autore, questo orientamento giurisprudenziale dei giudici di Karlsruhe “fa trasparire un’idea luhmaniana della democrazia, intesa come ‘conservazione della complessità’”, con la scelta politica che “serve a mantenere aperte delle possibilità” (p. 317). Nella difesa delle peculiarità della Solidargemeinschaft nazionale è nel rifiuto di una Schulden-Union europea s’intravedono con chiarezza i punti di contatto fra Wirtschafts-, Sozial- e Finanzverfassung e le loro possibili evoluzioni nel futuro, come esito della complessa interazione fra istituzioni nazionali e sovranazionali, da un lato, e fra decisori politici e organi giurisdizionali, dall’altro.
Con le annotazioni che precedono si è cercato di dar conto della ricchezza contenutistica e della complessità del volume recensito. Il suo principale punto di forza è dato dalla capacità di presentare in maniera organica una materia ampia e che porta i segni di una possente stratificazione d’idee e concetti, non esclusivamente riconducibili al diritto costituzionale. La conclusione – necessariamente “aperta” – che si può trarre dall’analisi pare indicare una convergenza fra i principi ispiratori delle singole discipline costituzionali, all’insegna di una nozione “inclusiva” di responsabilità. L’altro merito del libro è di non esitare a prendere posizione, di fronte agli snodi fondamentali, su problemi tuttora controversi[vi]: dalla relazione fra Stato e società alle continuità e cesure della storia costituzionale, fino al tormentato rapporto fra Bonn e Weimar e al “peso” delle influenze ordoliberali nella Legge fondamentale della Germania federale e nel diritto costituzionale in fieri dell’Unione europea.
[i] V. a tale proposito L. Besselink, J.-H. Reestman, The Fiscal Compact and the European Constitutions: ‘Europe Speaking German’, in European Constitutional Law Review, 2012, p. 1 e ss. Per un inquadramento più ampio si segnalano U. Beck, Europa tedesca. La nuova geografia del potere, traduzione di M. Sampaolo, Roma-Bari, Laterza, 2013; A. Bolaffi, Cuore tedesco. Il modello Germania, l’Italia e la crisi europea, Roma, Donzelli, 2013; V. Castronovo, La sindrome tedesca. Europa 1989-2014, Roma-Bari, Laterza, 2014; G.E. Rusconi, Egemonia vulnerabile. La Germania e la sindrome Bismarck, Bologna, il Mulino, 2016.
[ii] A proposito del difficile rapporto con le “lezioni di Weimar”, è possibile citare i recenti tentativi di offrire una lettura storicizzante della sentenza Lüth della Corte costituzionale federale, che sottolineano, fra l’altro, la necessità, avvertita negli anni Cinquanta, di dar luogo a una chiara soluzione di continuità tra Repubblica di Weimar e Repubblica federale in fatto di tutela dei diritti fondamentali: v. ad es. D. Rennert, Die verdrängte Werttheorie und ihre Historisierung. Zu “Lüth” und den Eigenheiten bundesrepublikanischer Grundrechtstheorie, in Der Staat, 2014, p. 31 e ss.
[iii] H.P. Ipsen, Intervento in Gesetzgeber und Verwaltung: Aussprache, in Veröffentlichungen der Vereinigung der deutschen Staatsrechtlehrer, vol. XXIV, de Gruyter, Berlin, 1966, p. 222.
[iv] Si deve però segnalare che nel marzo 2013 due Länder pagatori, la Baviera e l’Assia, hanno depositato un ricorso contro la legge sulla perequazione e la legge sui criteri della perequazione (Maßstäbegesetz), che è tuttora pendente presso il Bundesverfassungsgericht. A tale riguardo si può vedere O.-E. Geske, Wird es bald einen neuen Länderfinanzausgleich geben?, in Wirtschaftsdienst, 2014, p. 638 e ss.
[v] Ci si limita a fare riferimento a G.E. Rusconi, Berlino. La reinvenzione della Germania, Roma-Bari, Laterza, 2009.
[vi] E su cui talvolta gravano le “combinazioni illecite”, cui talora indulge il pensiero tedesco, della citazione di Thomas Mann posta all’inizio del capitolo I.