Foreign fighters nel conflitto fra Russia e Ucraina: mercenari o combattenti legittimi?
L’arrivo in Ucraina di numerosi cittadini di Stati formalmente estranei al conflitto, che si dichiarano intenzionati a unirsi ai combattimenti a fianco dell’esercito ucraino o di quello russo (i c.d. foreign fighters), ha suscitato reazioni contrastanti nell’opinione pubblica internazionale e fra i belligeranti. La Russia ha già dichiarato che ai “mercenari occidentali” non verrà concesso lo status di prigioniero di guerra (PDG) in caso di cattura, e che saranno piuttosto perseguiti come criminali. La minaccia russa fa riferimento a degli istituti specifici del diritto internazionale umanitario (DIU), la branca del diritto internazionale che regola la condotta delle ostilità. L’uso del termine “mercenario” ha inoltre connotazioni politiche e giuridiche assai negative, trattandosi di un fenomeno tradizionalmente associato ad interessi di guadagno personali, che il diritto internazionale ha tentato negli ultimi decenni di sradicare. L’intento di questo post è di offrire una breve disamina dei parametri giuridici che regolamentano la presenza di combattenti stranieri in un conflitto armato, tentando di seguito di applicarli alla presenza di volontari che dovessero partecipare alla guerra russo-ucraina.
Le norme rilevanti ai nostri fini sono rinvenibili nella III Convenzione di Ginevra del 1949 (III CG), relativa al trattamento dei prigionieri di guerra, e nel I Protocollo Aggiuntivo alle Convenzioni del 1949 (I PA), adottato nel 1977 e relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali. Sia la Russia che l’Ucraina sono parti di entrambi i trattati, e nessuno dei due Stati ha apposto riserve o dichiarazioni interpretative alle disposizioni oggetto d’analisi.
Riassumendo per sommi capi, il DIU stabilisce che nei conflitti fra Stati soltanto i combattenti legittimi possano prendere parte attiva alle ostilità e che debbano, se catturati, godere dello status di PDG (I PA, Art. 43(2) e 44(1)). Si tratta di una garanzia importante, dato che il combattente legittimo non potrà essere processato per aver partecipato al conflitto, sempre che non abbia commesso violazioni gravi delle norme di DIU (c.d. “crimini di guerra”). Inoltre, in caso di cattura, l’acquisizione dello status di PDG gli darà diritto a una lunga serie di garanzie e ad essere rimpatriato al termine delle ostilità (Krähenmann, 2013, pp. 359-411). Il rovescio della medaglia è che il combattente legittimo può sempre essere bersaglio di attacchi militari da parte del nemico, salvo il caso in cui sia fuori combattimento. Chiunque non rientri nella categoria dei combattenti è invece un civile (I PA, Art. 50), che non può essere oggetto di violenza bellica e deve anzi essere protetto dagli effetti delle ostilità (I PA, Art. 51(1)). Esiste tuttavia un’ulteriore categoria cui i foreign fighters potrebbero essere ascritti, ossia quella dei “mercenari”. Quest’ultima è una figura cui il DIU non conferisce alcun diritto specifico, prevedendo anzi che un mercenario “non ha diritto allo statuto di combattente o di prigioniero di guerra” (I PA, Art. 47(1)). La stessa disposizione prevede che egli non abbia la nazionalità di uno degli Stati in conflitto. Tuttavia, gli ulteriori requisiti fissati dal I PA fanno sì che non sia facile attribuire la qualifica di “mercenario” a combattenti stranieri.
Possono i foreign fighters essere considerati combattenti legittimi? Le regole applicabili per effettuare questa determinazione variano a seconda del trattato applicabile, con la III CG che presenta criteri più restrittivi rispetto al I PA. Tuttavia, l’Art. 44(6) del I PA prevede espressamente che continuino a trovare applicazione anche le norme della III CG, che verranno pertanto qui prese in esame. Si suppone infatti che coloro che fossero riconosciuti quali “combattenti legittimi” ai sensi della III CG, lo sarebbero a maggior ragione se si applicassero le norme più espansive del I PA (Mallison e Mallison, 1978, p. 22).
La disposizione centrale è l’Art. 4 della III CG, che elenca i criteri da applicare per riconoscere lo status di PDG a un combattente catturato. La norma fa riferimento a diverse categorie di combattenti, ma rilevanti ai nostri fini sono quelle identificate ai paragrafi A.1 e A.2. Secondo il paragrafo A.1, hanno diritto ad essere riconosciuti come PDG “i membri delle forze armate di una Parte belligerante, come pure i membri delle milizie e dei corpi di volontari che fanno parte di queste forze armate”. La categoria include il personale militare in servizio presso lo Stato belligerante. L’appartenenza alle forze armate si fonda su disposizioni di legge nazionali, che disciplinano chi fa formalmente parte delle stesse. Lo stesso ordinamento giuridico nazionale stabilisce le modalità secondo le quali “le milizie e i corpi di volontari” possano essere incorporati nelle forze armate. Il Tribunale internazionale penale per la ex Jugoslavia ha stabilito che il processo di incorporazione può avvenire anche a conflitto armato già iniziato (Prosecutor v. Delić, 2008, para.i 165-199).
L’Art. 4A(2) si riferisce invece ai “membri delle altre milizie e degli altri corpi di volontari, compresi quelli dei movimenti di resistenza organizzati, appartenenti ad una Parte belligerante e che operano fuori o all’interno del loro proprio territorio”. Ai membri di tali milizie, tuttavia, sarà riconosciuto lo status di PDG solo se adempiono ad una serie di condizioni: 1. essere comandati da una persona responsabile dei propri subordinati; 2. portare un segno distintivo fisso e riconoscibile a distanza; 3. portare apertamente le armi; e 4. uniformarsi, nelle loro operazioni, alle leggi e agli usi della guerra. Tali condizioni dovranno essere rispettate cumulativamente, e si sommano ad altri due requisiti esplicitati nella prima parte della disposizione, ossia la natura “organizzata” della milizia e l’appartenenza ad una delle parti belligeranti. Tutti i membri della milizia dovranno rispettare i requisiti elencati, ma violazioni occasionali da parte di singoli affiliati non comporteranno la perdita dello status di PDG per gli altri membri del gruppo (Rosas, 1976, p. 361). La disposizione fu introdotta nel trattato per offrire, memori della lezione della II guerra mondiale, una protezione giuridica ai combattenti delle forze partigiane di resistenza antinaziste. Tuttavia, la norma può benissimo attagliarsi a qualsiasi gruppo armato attivo in un conflitto interstatale.
Appare quindi evidente che nessuna delle disposizioni esaminate prevede la necessità che un membro delle forze armate abbia la nazionalità dello Stato per cui combatte. Se è vero che qualche norma della III CG sembra escludere dalla possibilità di godere dello status di PDG un combattente che abbia la stessa nazionalità dello Stato contro cui ha combattuto (Sommario, 2016, p. 147), nulla osta a che cittadini di qualsiasi altra nazionalità possano legittimamente combattere per l’esercito di un altro paese. Esistono in effetti numerosi esempi di unità militari interamente composte da cittadini stranieri che servono negli eserciti regolari di diversi Stati. Si pensi ad esempio alla Legione straniera in Francia, o ai Gurkha nepalesi che operano nell’esercito britannico. Anche per le milizie che non siano formalmente incorporate in un esercito nazionale la situazione non è significativamente diversa: se i loro membri rispettano i requisiti elencati all’Art. 4A(2), vanno considerati combattenti legittimi.
Ma potrebbero i foreign fighters essere invece classificati come “mercenari”? Come ricordato, il coinvolgimento di soldati di ventura in numerosi tentativi di colpo di stato negli anni ’50 e ’60 del ‘900 spinse la comunità internazionale a contrastare il fenomeno attraverso trattati a carattere globale e regionale, proibendo il reclutamento e l’utilizzo di mercenari nel corso di conflitti armati e in altre situazioni di violenza. A tali trattati si affiancò la sanzione prevista dall’Art. 47 del I PA, ossia il diniego dello status di combattente legittimo. Tuttavia, la definizione di mercenario offerta dalla disposizione è assai restrittiva. L’Art. 47(2) stabilisce che vada riconosciuto come mercenario solo chi: a) sia appositamente reclutato, localmente o all’estero, per combattere in un conflitto armato; b) prenda di fatto parte diretta alle ostilità; c) sia spinto dal desiderio di ottenere un profitto personale, e a cui sia stata effettivamente promessa, da una Parte in conflitto o a suo nome, una remunerazione materiale nettamente superiore a quella promessa o corrisposta ai combattenti aventi rango e funzioni similari nelle forze armate di detta Parte; d) che non sia cittadino di una Parte in conflitto, né residente di un territorio controllato da una Parte in conflitto; e) che non sia membro delle forze armate di una Parte in conflitto; e f) che non sia stato inviato da uno Stato non Parte nel conflitto in missione ufficiale quale membro delle forze armate di detto Stato. Anche in questo caso l’attribuzione dello status può aver luogo solo laddove tutti i criteri siano soddisfatti contestualmente. In particolare, la necessità di provare che il combattente sia motivato dal desiderio di guadagno e che venga pagato assai di più dei soldati dell’esercito al quale si affianca costituiscono ostacoli notevoli all’assegnazione dello status di mercenario (Gómez del Prado, 2019, p. 463). Celebre l’adagio secondo cui un combattente che non sia in grado di utilizzare la definizione dell’Art. 47 per evitare di essere qualificato come mercenario “merita di essere fucilato, assieme al proprio avvocato” (Best, 1980, p. 328).
Dovendo applicare il quadro giuridico fin qui delineato alla situazione ucraina, va anzitutto richiamato che la formale incorporazione di armati stranieri nell’esercito ufficiale di uno Stato fa sì che gli stessi divengano combattenti legittimi. Sembra in effetti quanto sta avvenendo in Ucraina ai combattenti stranieri che stanno raggiungendo il paese per schierarsi a fianco di Kyiv. Già dal 2016 la legge ucraina prevede la possibilità che cittadini stranieri o apolidi vengano reclutati nelle forze armate ucraine. Le autorità del paese stanno conducendo una campagna di arruolamento che prevede l’inserimento di quanti dovessero aderire in una Legione internazionale per la difesa dell’Ucraina. Ciò avverrà attraverso una fase di reclutamento formalizzata, che si concluderà con l’inserimento dei combattenti nei ranghi dell’esercito regolare. Anche in assenza di un’incorporazione formale, eventuali formazioni composte in toto o in parte da cittadini stranieri potrebbero rientrare fra le “milizie e i corpi di volontari” richiamati dall’Art. 4A(2) della III CG. Sarebbero pertanto comunque combattenti legittimi, sempre che rispettino i requisiti specifici previsti dalla disposizione. Parrebbe in ogni caso difficile qualificare i foreign fighters come “mercenari”. Sembra escluderlo la circostanza che le motivazioni dei combattenti sarebbero esclusivamente – o comunque prevalentemente – di natura idealistica. Inoltre, ai volontari stranieri non sarebbero stati promessi compensi “significativamente superiori” a quelli che ricevono i soldati ucraini.
Non si hanno ancora notizie certe circa il dispiegamento di foreign fighters a fianco delle truppe russe. Varrebbero ovviamente anche su quel versante le stesse considerazioni svolte fin qui. Una loro incorporazione formale nelle forze armate russe non è vietata, e conferirebbe alle truppe straniere lo status di combattenti legittimi. Lo stesso avverrebbe se milizie straniere affiancassero l’esercito russo senza esservi ufficialmente assimilate, fermi restando gli obblighi previsti dall’Art. 4A(2) della III CG. Anche in questo caso una classificazione come “mercenari” appare improbabile, specie se ad inviare i contingenti fosse uno stato terzo, rendendo così applicabile la clausola prevista dall’Art. 47(2)(f) del I PA.
Va infine ricordato che, quand’anche gli Stati belligeranti decidessero di non conferire ai combattenti stranieri catturati lo status di PDG, resta salva l’applicazione, a quanti non godessero di uno status protettivo particolare, delle garanzie minime individuate dall’Art. 75 del I PA. Si tratta di tutele elementari, tese a salvaguardare sempre e comunque l’integrità fisica e la dignità dell’individuo.