Finalmente giustizia: la Corte suprema nipponica riconosce dignità alle vittime della disciplina eugenetica
Il 3 luglio 2024, la Corte suprema giapponese ha emesso una sentenza storica, dichiarando l’incostituzionalità di una legge per la tredicesima volta dalla sua istituzione e riconoscendo finalmente le violazioni dei diritti umani intercorse per quasi cinquanta anni a causa della disciplina censurata. La pronuncia riguarda la ormai abolita Eugenic Protection Law, in vigore dal 1948 al 1996, che prevedeva la sterilizzazione forzata di persone con disabilità, coinvolgendo oltre 25.000 individui. Tali dati hanno portato i commentatori a definirla come la più grande violazione dei diritti umani nella storia del Dopoguerra giapponese.
Per meglio contestualizzare la pronuncia, è opportuno analizzare il contesto socioculturale e giuridico.
L’ideologia eugenetica ha una lunga storia nel Paese del Sol Levante, risalente alla fine del sakoku. Infatti, in seguito allo sbarco delle “Navi Nere” (1853), capitanate dal comandante Matthew Perry, si individuò la potenziale minaccia delle potenze straniere. Proprio per garantire la “qualità” della popolazione giapponese e contrastare le forze statunitensi, si diffuse l’idea di favorire i matrimoni tra persone “selezionate”. Con questo substrato socioculturale, le teorie eugenetiche di Galton, volte a migliorare la “razza” umana, trovarono terreno fertile.
Nel 1940 venne approvato il National Eugenic Act, che introdusse una forma di sterilizzazione volontaria mirata alle persone con disabilità intellettive e genetiche. Tale legge, a ben vedere, aveva lo scopo di incrementare la popolazione, incentivando le unioni tra persone con “geni di qualità”. Tuttavia, ebbe scarsa applicazione nella pratica, stante la volontarietà delle misure.
In seguito al Secondo conflitto mondiale, il Governo, scontrandosi con la sovrappopolazione e la scarsità di risorse, decise di varare nel 1948 una nuova legge: Eugenic Protection Law. L’obiettivo della disciplina, come esplicitato nell’art. 1, era quello di prevenire l’incremento di “inferior descendant” dal punto di vista eugenetico e proteggere la vita e la salute della madre. Infatti, sempre per contrastare la sovrappopolazione, e quindi in un’ottica pubblicistica e non individuale, la legge introdusse anche la disciplina dell’aborto. In aggiunta alle forme di sterilizzazione volontaria, vennero introdotte forme di sterilizzazione coattiva (artt. 4 e 12), previo parere di una Commissione ad hoc.
Nel 1949, il Ministero della Salute nipponico sollevò dubbi sulla compatibilità della legge con i diritti umani proclamati nella neo-approvata Costituzione (1947). Un dubbio legittimo se consideriamo che solo quattro anni prima iniziò il processo di Norimberga che portò all’elaborazione degli omonimi principi (1950), responsabilizzando i funzionari nell’esecuzione degli ordini impartiti. Il Ministero della giustizia, tuttavia, rassicurò che la sterilizzazione, tutelando l’interesse pubblico, non contrastava con lo spirito della Costituzione.
Seguirono diversi emendamenti alla legge: il primo nel 1952, atto a estendere le operazioni anche a disabilità non ereditarie; il secondo nel 1957, volto a prevedere la sterilizzazione anche per i criminali.
Inoltre, nel 1953 il Ministero della salute emise una circolare autorizzando l’uso di metodi quali l’anestesia, la costrizione fisica e l’inganno nel caso di opposizione del paziente.
Durante la vigenza di questa disciplina, in Giappone furono eseguite oltre 25.0000 sterilizzazioni, con un picco negli anni Cinquanta. Le disposizioni eugenetiche rimasero in vigore fino alla revisione della legge nel 1996, avvenuta anche grazie alle critiche della comunità internazionale in seguito alla denuncia dell’attivista Asaka Yūko durante la Conferenza del Cairo sulla popolazione e lo sviluppo (1994). L’anno seguente, inoltre, alcune attiviste sollevarono la questione durante la Quarta Conferenza Internazionale delle donne di Pechino.
Con l’emendamento del 1996, approvato all’unanimità, tutti i riferimenti eugenetici vennero rimossi e la legge venne rinominata Maternal Health Protection Law. Sebbene diverse associazioni della società civile, a partire dal 1997, richiesero scuse ufficiali e risarcimenti, lo Stato si rifiutò, sostenendo che le operazioni, poiché effettuate secondo disposizioni di legge, erano di per sé legittime.
Nel 2016, in seguito alla strage di Sagamihara, la società civile si rese conto di quanto i valori eugenetici fossero stati interiorizzati dalla popolazione. Pertanto, nel 2018 due donne della prefettura di Miyagi, sterilizzate rispettivamente nel 1963 e nel 1972, intentarono un ricorso contro lo Stato al fine di conseguire un risarcimento per i danni subiti. Inoltre, esse speravano di ottenere un mutamento nella percezione sociale dei disabili.
Nel 2019, la Corte distrettuale di Sendai riconobbe l’incostituzionalità della legge poiché contrastante con l’art. 13 della Costituzione, ossia il diritto alla ricerca della felicità e il rispetto dell’individuo. Tuttavia, i giudici respinsero le richieste di risarcimento, applicando il termine prescrizionale di 20 anni previsto all’art. 724 del Codice civile. Le due ricorrenti, vedendo insoddisfatte le loro pretese, proposero appello. La loro battaglia innescò un mutamento sociale ed istituzionale.
Da un lato, la loro azione sollecitò altre vittime a proporre a loro volta ricorsi. Dall’altro lato, la Dieta emanò ad aprile del 2019 una legge per risarcire le vittime, accordando una cifra forfettaria di 3.2 milioni di yen (circa 18.500 euro), da richiedersi entro 5 anni dall’emanazione della legge. Il testo legislativo fu oggetto di critiche poiché non chiariva le responsabilità politiche della disciplina eugenetica. Pertanto, molte vittime preferirono intentare ricorsi per ottenere un risarcimento effettivo e maggiore chiarezza sulle atrocità avvenute.
Nel 2020, il Parlamento iniziò un’inchiesta per rilevare dati e statistiche sull’applicazione della legge. Il rapporto, di 14.000 pagine, vide la luce nel 2023. I dati contenuti in esso provocarono una forte riprovazione sociale: delle 25.000 vittime, alcune di soli 9 anni, ben 16.500 furono sterilizzate con la forza. Inoltre, molte persone non comparirebbero nelle statistiche poiché alcune operazioni sarebbero state condotte al di fuori dell’applicazione della legge.
In parallelo, l’iter giurisdizionale avviato dagli ormai 39 ricorrenti proseguì. Il susseguirsi di ricorsi ed appelli portò a esiti parzialmente discordanti: sebbene tutti i giudici riconoscessero l’incostituzionalità della ormai defunta disciplina, non tutti garantirono il risarcimento. Peraltro, alcuni ricorrenti, a causa dell’età avanzata, morirono in attesa del giudizio.
Nel 2024 erano rimaste pendenti cinque cause (decise delle Alte Corti di Sapporo, Sendai, Osaka, Kyoto e Tokyo), che sono state riunite e rimesse alla Corte suprema. Quest’ultima è stata chiamata a pronunciarsi sia sulla costituzionalità della disciplina, sia sull’eventuale applicazione della prescrizione ventennale. Infatti, sebbene la giustizia costituzionale giapponese adotti un modello di carattere diffuso, la Corte suprema rimane giudice di ultima istanza sulle questioni di costituzionalità.
L’udienza, in cui i 15 giudici hanno sentito le testimonianze delle vittime, si è tenuta il 30 maggio 2023.
In quattro dei casi trattati (Sapporo, Tokyo, Kobe e Osaka) la Corte suprema ha confermato la decisione delle Alte Corti, dichiarando la legge incostituzionale e confermando il risarcimento. Riguardo alla decisione dell’Alta Corte di Sendai, l’unica che aveva negato la compensazione, la Corte suprema ha accolto il ricorso delle vittime e rinviato la questione alla Corte inferiore, affinché questa proceda con la definizione del risarcimento.
Nella decisione della Corte suprema, i giudici hanno statuito all’unanimità che la legge comportava serie violazioni dei diritti umani, infrangendo i principi costituzionali della dignità personale (art. 13) e dell’uguaglianza (art. 14). La Corte suprema ha inoltre osservato che gli organismi internazionali, come il Comitato per i Diritti Umani, e gli organismi nazionali, come la Federazione degli avvocati giapponesi, avessero più volte criticato la mancata compensazione per le vittime. Infatti, la Corte ha riconosciuto il risarcimento previsto dalla legge del 2019 come non sufficiente e non idoneo a riconoscere la responsabilità del Governo. Infine, secondo i 15 giudici, poiché la legge era incostituzionale, l’applicazione della prescrizione ventennale perpetuava l’ingiustizia e le violazioni dei diritti umani causate dalla disciplina eugenetica.
Possiamo adesso chiederci perché tale sentenza costituisce un mutamento storico.
Poiché la disciplina eugenetica era già stata abolita, la sentenza ha primariamente lo scopo di illustrare che le violazioni dei diritti umani non saranno tollerate neanche se giustificate da testi legislativi. In secondo luogo, la decisione ha finalmente portato chiarezza sulle responsabilità: successivamente al deposito della sentenza, il primo ministro Kishida ha annunciato che incontrerà i ricorrenti per porgere personalmente le sue scuse.
Inoltre, in questo caso, la Corte suprema ha mostrato un volto nuovo, più vicino alle persone. Non solo è stato ammesso a numerosi uditori di partecipare all’udienza (l’affluenza è stata talmente alta che le persone ammesse a partecipare sono state sorteggiate), ma per la prima volta le spese degli interpreti della lingua dei segni sono state pagate con fondi pubblici. Sembrerebbe altresì che i giudici, in continuità con la sentenza del 25 ottobre 2023 inerente al procedimento per la transizione di genere, mostrino un maggiore attivismo, non applicando più in maniera stringente la dottrina dell’atto politico e intervenendo di fronte a violazioni dei diritti umani. Inoltre, in questo caso la Corte suprema si è posta in aperto contrasto con il Governo, criticando la legge del 2019.
In conclusione, possiamo riconoscere anche l’importanza della mobilitazione sociale, coadiuvata dalla comunità internazionale, nel favorire il mutamento istituzionale. Le vittime, utilizzando la strategic litigation hanno combattuto per ottenere giustizia: il loro obiettivo principe non era il denaro, ma la rimozione del velo di omertà che per lungo tempo ha precluso l’assunzione della responsabilità politica.