«Ex cathedra loquitur»: rileggendo Alexander Bickel, il judicial review come problema
Il judicial review – afferma Alexander Bickel – «is the power to construe and apply the Constitution in matters of the greatest moment against the wishes of a legislative majority which, in turn, helpless to affect the judicial decision».
In The Least Dangerous Branch (I ed.: Bobbs-Merrill, 1962), Alexander Bickel pone, tra i primi, il problema della legittimazione del judicial review, che gli appare potenzialmente, se slegato da alcune cautele, una vera e propria antitesi al principio democratico. A Bickel esso appare come «a deviant institution in the American democracy».
Il titolo dell’opera – ironico e graffiante – riprende una famosa frase tratta dal celeberrimo e citatissimo n. 78 dei Federalist Papers di Hamilton, in cui il Framer aveva definito la Corte Suprema e il potere giudiziario in generale come il “meno pericoloso” dei poteri pubblici, perché privi sia del potere della borsa che della spada. Un’affermazione che Bickel ritiene quanto mai inappropriata.
D’altronde, già Toqueville aveva compreso il peso effettivo del potere giudiziario, del «caso che si ripete tutti i giorni». In realtà, ad un’analisi più approfondita, Bickel conferisce una parte di ragione ad Hamilton, riconoscendo la difficoltà di rendere effettive le sentenze: se è vero che i giudici non hanno «neither force nor will, neither the sword nor the purse» da ciò consegue che per garantire effettività alle loro decisioni «they have only the society’s striving for the rule of principle, its readiness to receive principle from the Court, and its strong, habit-formed inclination to accept, to accord and harmonize, to obey» perché «like the Pope, the Court takes on an ultimate dimension dum ex cathedra loquitur».
Ma Bickel appare ben consapevole anche del fatto che «courts have certain capacities for dealing with matters of principle that legislatures and executives do not possess […]. The courts are concerned with the flesh and blood of an actual case. […] Elected institution are ill fitted or not so well fitted as the courts to perform the latter task». L’Autore, infatti, è ben lontano dal mero scetticismo, crede nella funzione fondamentale della Corte. Ciò è evidente quando afferma che «Marbury is a great historic event, a famous victory – one of the foundation stone of the republic». Ciò non toglie che, al di fuori dal circuito della responsabilità politica e privo di alcuna legittimazione popolare, il potere di judicial review appare, prima facie, svincolato da ogni reale possibile limite ponendosi perciò in (apparente) irrimediabile contrasto con i principi dello Stato democratico.
Il problema è tutto qui – si potrebbe dire –: nell’inevitabile e instabile equilibrio che si instaura tra i poteri nel momento in cui si materializza la contermajoritarian difficulty.
In pagine molto dense di riferimenti giurisprudenziali, Bickel, rielaborate e criticate importanti teorie che tendevano a limitare eccessivamente il potere di judicial review (come quella del clear mistake di Thayer) e ridefiniti i confini dell’idea di neutralità di Wechsler, cerca di ricostruire i limiti reali dell’azione della Corte suprema come giudice costituzionale, esaltandone in particolare le “virtù passive”, il diritto di standing, il self-restraint nelle political questions e il problema della ripeness (maturità), della vagueness o della delegation, strumenti capaci di instaurare un colloquio necessario con il potere legislativo.
Individua, poi, il difficile compito dei justices nel ricercare un equilibrio tra principi da dedurre dalla Costituzione e casi concreti da decidere: è la c.d. “linconian tension” ovvero la problematica convivenza tra principle and expediency in ragione della quale i justices devono dare o meno risposte specifiche a domande concrete in base a principi dedotti dalla Carta fondamentale intesa, peraltro, almeno in un passaggio del libro, sulla scia del justice Brandeis, come un living organism. Bickel, infatti, si scaglia contro gli originalisti perché compito dei giudici è anche sapersi svincolare da quello che definisce «the wonder of the past and its tyranny». È consapevole l’Autore che «nothing but disaster could result for government under a written constitution if it were generally accepted that the specific intent of the framers of a constitutional provision is ascertainable and is forever and specifically binding».
Anche quando la Corte suprema rigetta una questione di costituzionalità, essa compie un’operazione delicata perché finisce per avallare una normativa legislativa riconoscendole una sorta di “certificato di legittimità” (conseguenza dell’autorevolezza della Corte suprema ed espressione della c.d. mystic function). Secondo Bickel, dunque, la Corte esercita tre funzioni: «it checks, it legitimates, or it does neither». Per garantirsi la protezione dalle critiche, quella autorevolezza che si deve costantemente guadagnare sul campo e per catalizzare il dialogo con gli altri attori istituzionali, è pertanto necessario che la Corte – bilanciando l’insormontabile parodosso “contromaggioritario” – rinunci talora a decidere, sfruttando le c.d. passive virtues (chiamate anche devices of not doing).
Per bilanciare tale paradosso una sentenza della Corte deve sempre essere self-conscious intelligibile, rationale and candid. Ecco perché – alla fine del suo lavoro – Bickel sottolinea che «the function of Justices […] is to immerse themselves in the tradition of our society». «The Court is a leader of opinion, not a mere registered of it, but it must lead opinion, not merely impose its own». Non deve sembrare mai, insomma, che la Corte parli per dogmi o ex cathedra.
Brown v. Board of Education è senz’altro, insieme alle altre che con questa formano i c.d. School Segregation Cases, la decisione che ha scatenato le attenzioni di Bickel: è con Brown ed i suoi “obblighi di fare” imposti al legislatore che si appalesa definitivamente il paradosso “contromaggioritario”. Brown ha svelato come la Corte si ponesse su un piano molto problematico nei confronti del potere rappresentativo, ma è anche uno di quei momenti in cui la Corte riesce a liberarsi dalla tirannia del passato. L’ultimo capitolo del libro il 6° – per quanto il tema sia richiamato più volte anche nei capitoli iniziali – è tutto dedicato alle decisioni sugli School Segregation Cases, vere e proprie pietre angolari delle tesi di Bickel: qui si manifestano al contempo le potenzialità del judicial review ed i limiti del suo enforcement dinanzi the Bar of Politics. È questo, in particolare, il piano su cui «the history of School Segregation Case sheds its lights» (notissima la storia del rifiuto di dare esecuzione a questa sentenza opposto da alcuni Stati che ha costretto poi il Governo federale ad usare l’esercito).
Per il lettore odierno, The Least Dangerous Branch può ancora essere considerato un testo molto attuale, che merita una rilettura in un momento in cui l’attivismo giudiziale appare particolarmente incisivo ed in cui le “supplenze” al legislatore, che sembra spesso impotente nel rispondere alla molteplicità dei casi concreti, si moltiplicano in un clima – non sempre irenico – di dialogo: il problema dell’attuazione dei “concetti indeterminati” e della legittimazione dei giudici a concretizzare le Carte fondamentali, insomma, appare ben lontano dall’essersi chiuso.
Molto gradita questa nota che ricorda l’importanza del contributo dirimente di Bickel sul ruolo del judicial review e sulla natura presuntamente antidemocratica del controllo di costituzionalità negli Stati Uniti.
Fu durante la Progressive Era, l’epoca della democrazia diretta, della riforma del sistema di elezione del Senato (1913), che parve impensabile che un gruppo di giudici seduti alla Corte Suprema, lontani da ogni forma di legittimazione ed irresponsabili di fronte a qualsiasi altra istituzione grazie al mandato vitalizio, potessero imporre una visione economica della vita individuale e collettiva a tutte le altre istituzioni tentando di costituzionalizzare i principi del laissez-faire. Quella società che rimaneva aliena a questa impostazione invocò il nonsenso di una corte che, non eletta, aveva il potere di sindacare chi era invece investito direttamente dalla volontà popolare. Per questo motivo, per lungo tempo la countermajoritarian difficult fu patrimonio della cultura progressista, di coloro che, per la loro estrazione liberal, attaccavano la Corte Suprema ed il suo retrivo conservatorismo. Brandeis, Holmes, Stone diedero corpo ad un orientamento dissenziente imperniato sul semplice assunto secondo cui, ogni volta che la Corte Suprema abbatteva una legislazione perequativa delle risorse, in verità minava le scelte operate dalla maggioranza della società nella forma di una legge. Delegittimare la tendenza liberista della Corte significava dunque enfatizzare la superiorità del meccanismo democratico su quello giurisdizionale, antimaggioritario per definizione.
Quando, diversi decenni più tardi, la sterzata riformista venne favorita dalla presidenza di Earl Warren alla Corte Suprema, chi da sempre aveva espresso riserve sulla censura a leggi con cui la maggioranza del popolo sembrava essere in sintonia non poteva – ora che l’orientamento della Corte Suprema era favorevole alle sue preferenze politiche – evitare di sottoporre allo stesso vaglio le decisioni della Corte divenuta progressista. La countermajoritarian difficulty ha così continuato ad ossessionare la dottrina liberal anche quando la Corte finalmente accolse le istanze progressiste. Bickel è figlio di questa generazione, e così il suo contributo.