Every cloud has a silver lining: la Corte di Giustizia, la direttiva rimpatri e il reato di inottemperanza all’ordine di allontanamento del questore
Il 28 aprile scorso la Corte di Giustizia (Hassen El Dridi, causa C-61/11 PPU) si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale sollevato dalla Corte d’appello di Trento – sottoposto al procedimento d’urgenza stante la detenzione dell’interessato – relativo alla interpretazione degli artt. 15 e 16 della direttiva rimpatri (2008/115/CE): l’art. 15 prevede le condizioni per il trattenimento e il rimpatrio stabilendo, tra l’altro, che gli Stati membri “possono trattenere il cittadino di un paese terzo (…) soltanto per preparare il rimpatrio e/o effettuare l’allontanamento”; l’art 16 prevede che “il trattenimento avvenga di norma in appositi centri di permanenza temporanea”. Nella sostanza il giudice del rinvio chiedeva alla Corte se le suddette norme dovessero essere interpretate nel senso di impedire la reclusione di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare per non aver ottemperato all’ordine di allontanamento del questore previsto dall’art. 14 comma 5 ter del testo unico sull’immigrazione. Si tratta di una fattispecie introdotta con la legge n. 189 del 2002 oggetto di due modifiche legislative (l. 271/04 e l. 94/2009) e sulla cui legittimità la stessa Corte costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi diverse volte, ora dichiarando l’infondatezza della questione sollevata (sent. 5/2004), ora statuendone l’illegittimità parziale (sent. 223/2004) altrove pronunciandosi nel senso dell’inammissibilità (sent. 22/2007). Da ultimo, come si ricorderà, sulla base del principio ad impossibilia nemo tenetur la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale della norma successiva a quella qui considerata e cioè l’art. 14, comma 5-quater, laddove non prevede la clausola del giustificato motivo come scriminante per la condotta dello straniero che, condannato ai sensi del 14, comma 5 ter, sia inottemperante ad un nuovo ordine di allontanamento (sent. 359/2010).
Con tale sentenza, pertanto, la Corte di Giustizia da un lato si inserisce all’interno di questo intenso avvicendamento di interventi normativi e giurisprudenziali riuscendo a sciogliere – grazie all’innesto delle norme della direttiva rimpatri – uno dei nodi più critici dell’ingarbugliato sistema di misure preordinate all’allontanamento che la Corte costituzionale, pur auspicando un intervento legislativo (22/2007), non era ancora riuscita a superare, affermando di dover arrestare il proprio sindacato di fronte alla discrezionalità delle scelte politiche del legislatore (ad es. 236/2008); dall’altro il giudice europeo interviene sedando il vivo contrasto giurisprudenziale che aveva interessato i giudici ordinari italiani successivamente alla scadenza del termine di recepimento della direttiva rimpatri (24 dicembre 2010) e che aveva condotto ad esiti, talvolta, diametralmente opposti. Così ora si erano disapplicate le norme interne ritenendo quelle della direttiva del 2008 self executing (ad es. Trib. di Cagliari sent. del 14/1/2011), ora al contrario si era ritenuta la legislazione italiana conforme al diritto UE (Trib. di Verona sent. del 18/1/2011), mentre altrove si era sollevata la questione di legittimità costituzionale (Trib. di Modica ord. del 23/3/2011).
L’attesa pronuncia del giudice europeo ha quindi riconosciuto che la direttiva “osta ad una normativa che preveda l’irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo per la sola ragione che questi permane in detto territorio senza giustificato motivo”. Ne deriva la disapplicazione dell’art. 14, comma 5 ter, con conseguente scarcerazione degli stranieri detenuti in base al reato ivi previsto.
Incidentalmente ci si limita a rilevare – ancorché ciò sia meritevole di più ampie riflessioni – la difformità tra il disposto della Corte appena citato e la presunta “bocciatura” del reato di “clandestinità” attribuita invece dai media al giudice europeo. Ciò non ha impedito, tuttavia, di sollevare dubbi di compatibilità con il diritto dell’Unione europea in relazione al reato di ingresso e soggiorno illegale (lo nota ad es. B. Nascimbene in Guida al diritto n. 20, 2011, p. 12).
Il contrasto tra la normativa italiana e quella europea è argomentato dalla Corte a partire dalle finalità della direttiva il cui obiettivo è “l’attuazione di un’efficace politica in materia di allontanamento e rimpatrio (…) affinché le persone siano rimpatriate in maniera umana nel rispetto dei loro diritti fondamentali e della loro dignità” (considerando n. 2 e p. 31 della sent.). Quindi il giudice europeo procede ad enumerare le disposizioni della direttiva che rilevano ai fini del contrasto segnalando, in particolare: la possibilità per gli stati di prevedere misure interne più favorevoli e il divieto speculare di stabilire disposizioni più severe rispetto a quelle previste dalla direttiva; la priorità da accordare al rimpatrio volontario; la gradazione delle misure per l’allontanamento e il rimpatrio che devono informarsi al principio di proporzionalità. Al riguardo non manca nella motivazione della Corte, ed appare meritevole di attenzione in un’ottica di dialogo tra Corti europee, il riferimento alla giurisprudenza della Corte EDU e in particolare al caso Saadi c. Regno Unito del 2008 in quanto “il trattenimento di una persona non si protragga oltre un termine ragionevole, vale a dire non superi il tempo necessario per raggiungere lo scopo perseguito”. In proposito il solo richiamo alla applicazione pressoché univoca dell’accompagnamento coattivo alla frontiera quale modalità di esecuzione dell’allontanamento oltre alla sequela detentiva che il sistema delineato nell’art. 14 t.u. imm. cond. stran. innesca, lascia con evidenza emergere i profili di difformità con quanto rilevato dalla Corte e l’insieme delle misure della normativa italiana in tema di espulsione e rimpatrio. Queste ultime peraltro sono ben lungi dal realizzare una efficace politica dei rimpatri e su questo punto si concentrano i rilievi finali della Corte di Giustizia. In particolare appare condivisibile la riflessione del giudice europeo sul nesso tra il fallimento delle norme in materia di allontanamento e la sua ripercussione sulla sorte dei migranti, laddove afferma che “gli Stati membri non possono introdurre al fine di ovviare all’insuccesso delle misure coercitive adottate per procedere all’allontanamento coattivo (…) una pena detentiva come quella prevista dall’art. 14, comma 5-ter del decreto legislativo n. 286/1998, solo perché un cittadino di un paese terzo (…) permane in maniera irregolare nel territorio nazionale”.
Di qui, pur in considerazione della necessità di tutelare i diritti fondamentali dei migranti, la pronuncia enuclea nella inefficacia della normativa italiana nella esecuzione delle espulsioni e dei rimpatri l’aspetto decisivo per evidenziarne la difformità rispetto agli obiettivi dell’UE: icasticamente, infatti, la Corte conclude affermando che una tale pena (quella prevista dal 14 comma 5 ter) rischia di compromettere la realizzazione dell’obiettivo perseguito da questa direttiva, ossia l’instaurazione di una politica efficace di allontanamento”.
Senza dubbio gli effetti della sentenza avranno e hanno già avuto – per la verità – rilevanti ripercussioni in Italia. Da ultimo, il 16 giugno il Consiglio dei ministri, su proposta del Presidente del Consiglio e del Ministro dell’interno – il quale a seguito della sentenza El Dridi aveva dichiarato che “l’Europa ci complica la vita” poiché “in questo modo si rendono impossibili le espulsioni” (La Repubblica, 29/04/2011, p. 1) – ha presentato uno schema di decreto legge che darebbe attuazione sia alla direttiva 2004/38/CE (sulla libera circolazione dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari) che alla direttiva 2008/115/CE. Per quel che più da vicino rileva in questa sede, la risposta del governo alla sentenza della Corte di giustizia sarebbe quella di sostituire la pena della reclusione con una multa (fino a 20.000 euro). In realtà, come si è sottolineato prontamente, ciò non impedirebbe l’alternarsi della catena ordini di allontanamento-condanne ex art. 14, co. 5 ter-trattenimento che manterrebbe la “spirale di intimazioni al rimpatrio e restrizioni della libertà” (così Briguglio riprendendo le parole dell’ord. 11050/2011 Cass. Cfr il parere dell’autore sullo schema di d.l.
Dal punto di vista delle prime applicazioni giurisprudenziali, invece, si segnalano numerose pronunce sul punto: la Cassazione già all’indomani della pronuncia della Corte di Giustizia, cominciava ad annullare senza rinvio tre pronunce dei giudici di appello utilizzando la formula assolutoria “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato” (Cass. sez. pen. nn. 1590, 1594 e 1606 del 2011) configurandosi, pertanto, un’ipotesi di abolitio criminis (v. Cass. n. 21579/2008; in proposito per indicazioni più precise cfr. L. Masera – F. Viganò, Addio Articolo 14, in penalecontemporaneo.it). Seguivano quindi diverse pronunce di disapplicazione dell’art. 14 comma 5 ter da parte dei giudici ordinari (ex pluribus cfr. Trib. di Roma, sent. del 9/5/2011; Trib. di Ravenna, sent del 9/5/2011). Peraltro le conseguenze del giudizio della Corte europea si riverberavano anche in fattispecie diverse dall’esecuzione dell’espulsione: è il caso della sentenza del Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria n. 7 del 2011, che è intervenuta sulla vexata quaestio del reato di inottemperanza all’ordine del questore e la sua inclusione tra i reati ostativi alla regolarizzazione dei lavoratori stranieri (prevista dalla legge n. 102/22009): infatti, afferma il giudice amministrativo “deve concludersi che l’entrata in vigore della normativa comunitaria ha prodotto l’abolizione del reato previsto [dall’art. 14 comma 5 ter] e ciò a norma dell’art. 2 del codice penale ha effetto retroattivo, facendo cessare l’esecuzione della condanna e i relativi effetti penali”, non potendo, pertanto la condanna di cui al art. 14, comma 5 ter, essere ostativa all’emersione del lavoro irregolare.
Pur con una sentenza probabilmente sbilanciata nell’insistenza per l’efficacia dei rimpatri, la Corte di Giustizia sembra aver inserito un importante tassello nella sfera che riguarda i diritti fondamentali degli stranieri irregolari la cui esigenza di tutela fino ad ora ha rivestito un aspetto del tutto recessivo nelle politiche migratorie europee: in particolare ne esce rafforzata la libertà personale la cui limitazione, come si legge nella sentenza, “deve avere durata quanto più breve possibile” (anche se, per la verità, il limite di trattenimento massimo fissato a 18 mesi dall’art. 15 della direttiva sembra in parte contraddire tale avviso). Ne deriva che la pronuncia della Corte di giustizia, rappresenta un esito rilevante rispetto a quella difficile saldatura tra paradigma universalista, sotteso all’art. 13 Cost., e la condizione giuridica dei migranti: una tensione che ha visto Corte costituzionale e legislatore italiano impegnati in un continuo confronto negli ultimi anni che non ha risparmiato da parte di quest’ultimo elusioni profonde dei rilievi formulati dal giudice costituzionale.
Ai risultati rilevanti della giurisprudenza costituzionale (105/2001, 223 e 224/2004, 359/2010) – che, peraltro, ha presentato talora battute di arresto significative (22/2007), talaltra ha lasciato interrogativi aperti sulle politiche di immigrazione ancora in attesa di risposta (è il caso, ad es., dei centri di trattenimento come rileva, da ultimo, A. Di Martino, Il territorio dallo Stato nazione alla globalizzazione, Milano, 2010, p. 498) – si sono affiancati i percorsi della Corte EDU che ha costruito su alcune disposizioni della Convenzione del ’50 (sulla base degli art 5, ma anche, par ricochet, ex artt. 3, e 8 su cui si rinvia a G. Bascherini, Immigrazione e diritti fondamentali, Napoli, 2007, p. 234 ss.) argini importanti rispetto alle normative nazionali in materia di espulsione suscettibili di incidere, direttamente o indirettamente, sulle possibilità di limitare la libertà personale degli stranieri o anche il diritto di difesa: la Corte di giustizia, pertanto, che fino ad ora aveva avuto rispetto alle Corti nazionali e a quella di Strasburgo un ruolo secondario nella protezione dei diritti degli stranieri, si inserisce in questo scenario composito arricchendo il processo cooperativo tra giudici europei e nazionali di cui si alimenta il costituzionalismo multilivello dei diritti.
In conclusione l’apparato sanzionatorio previsto dal legislatore italiano, che aveva disegnato una sequenza di meccanismi detentivi potenzialmente sine die, ne esce indebolito, peraltro, a seguito dell’interpretazione di una normativa, come quella offerta dalla direttiva rimpatri, già di per sé criticabile sotto diversi profili (su cui v. già A. Algostino in forumcostituzionale.it): segno che la situazione della legislazione italiana sull’immigrazione si trova ben al di sotto delle norme comuni introdotte dal legislatore europeo.