Esiste un obbligo di protezione da se stessi? Le risposte della giurisprudenza europea
La nascita e la morte sembrano oggi costituire le nuove frontiere del diritto. In una società pervasa dal progresso scientifico il diritto si trova dinnanzi alla sfida di dover disciplinare il momento della nascita e della morte, da sempre avvolte da un’aura di impenetrabile mistero.
Il dibattito sulle decisioni di fine vita scuote le nostre coscienze, la nostra sensibilità, solleva intimi e profondi interrogativi sulla fugacità della vita e sull’essenza dell’esistenza umana.
Significativa in un’ottica de iure condendo per quei Paesi non ancora dotati di una legislazione in merito si presenta l’esperienza giuridica nell’ambito della CEDU e segnatamente della giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani.
Il leading-case è rappresentato dalla vicenda di Dianne Pretty, malata terminale, paralizzata dal collo in giù, attaccata ad un ventilatore meccanico per respirare, nel pieno possesso delle proprie capacità intellettive e cognitive, aveva chiesto al marito di essere aiutata a morire dignitosamente, non potendolo fare da sola (C. Edu, Pretty c. Regno Unito, ricorso n. 2346/02, decisione del 29 aprile 2002). Di fronte al diniego dei giudici della High Court di prestare alla donna adeguate garanzie in ordine all’impunità del marito in forza del Suicide Act del 1961, Dianne Pretty intraprendeva una dura battaglia legale conclusasi con il giudizio della Corte Europea dei diritti umani, adita a seguito di esito infausto dell’appello proposto avanti alla House of Lords.
Per i giudici di Strasburgo l’art. 2 della CEDU contempla la vita come oggetto di un diritto di rango preminente, propedeutico e funzionale all’esercizio di tutti gli altri diritti e libertà fondamentali previste dalla Convenzione. Per tali ragioni l’art 2 CEDU non può essere interpretato, senza distorsione testuale, nel senso di conferire un diritto diametralmente opposto, vale a dire il diritto di morire; non può neppure far nascere un diritto all’autodeterminazione nel senso di dare ad ogni individuo il diritto di scegliere la morte piuttosto che la vita.
Dal diritto alla vita non può pertanto discendere un diritto antitetico a quello di esistere: il diritto alla vita è talmente peculiare da poter essere esercitato solo in senso positivo, come diritto di vivere appunto, e non anche in senso negativo, come diritto di morire, né tanto meno nel senso di conferire al titolare la facoltà di scegliere tra la vita e la morte.
Interessante è poi la ricostruzione interpretativa del ricorso alla luce dell’art. 8 della CEDU, chiave di volta per la risoluzione di gran parte dei dilemmi che aleggiano in tema di eutanasia.
Secondo la Corte il concetto di “private life is a broad term not susceptible to exhaustive definition”. Rientrano indubbiamente nel suo alveo l’integrità fisica e psichica di una persona, il diritto di instaurare delle relazioni personali e di interagire con il mondo esterno, di scegliere le modalità con cui vivere la propria vita anche ponendo in essere atti lesivi della propria integrità fisica e psichica.
Comincia a prendere forma nel caso Pretty il principio generale che fungerà da guida per i giudici nazionali secondo cui l’imposizione di trattamenti terapeutici contro il consenso, espresso in modo chiaro e consapevole da un soggetto adulto capace d’intendere e di volere, può costituire un’illegittima interferenza con i diritti tutelati dall’art. 8 CEDU. Ciò che rileva in questo campo è il diritto fondamentale della persona alla autonoma determinazione nelle scelte inerenti alla propria vita privata: nell’ombrello protettivo dell’art. 8 della CEDU rientra dunque anche il diritto del paziente di rifiutare un trattamento medico – anche quando tale rifiuto potrebbe condurre alla morte – se ciò è frutto di una scelta libera e consapevole dell’individuo.
Nel caso di specie però la paziente non rifiutava un trattamento medico ma chiedeva l’impunità del marito, ove costui avesse esaudito la sua volontà di porre fine alle pene della malattia neuro-degenerativa di cui era affetta. Se da un lato la decisione di una persona di scegliere le modalità con cui alleviare le proprie sofferenze, tra cui anche quella estrema della morte, rientra nel personalissimo giudizio della stessa e come tale insindacabile e degno della protezione di cui all’art. 8, par. 1 della CEDU dall’altro, osserva la Corte, la legge nazionale che espressamente qualifica come reati gli atti di assistenza al suicidio, lungi dall’apparire sproporzionata rispetto al valore supremo del diritto alla vita, costituisce un’interferenza giustificata ai sensi dell’art. 8 par. 2 CEDU nell’interesse generale di evitare abusi e proteggere persone vulnerabili – quali sono indubbiamente i malati terminali – specie quando non sono in grado di adottare decisioni di fine vita con pienezza di informazioni.
Ne pare discendere con la statuizione della Corte di non condannare il governo inglese il riconoscimento implicito della possibilità e legittimità delle leggi nazionali e delle decisioni dei giudici che, nel rispetto di talune condizioni (grave malattia terminale; effettiva volontà del paziente), consentono eccezionalmente di derogare alla CEDU con interventi che hanno come conseguenza la morte.
Diversa è invece la questione giuridica sottesa ad un altro caso deciso recentemente dai giudici di Strasburgo. Il ricorrente, Ernst G. Haas, è un cittadino svizzero che soffre da quasi venti anni di una grave psicopatia che gli impedisce di vivere una vita dignitosa (C. Edu, Haas c. Suisse, ricorso n. 31332/07, decisione del 20 gennaio 2011). Dopo aver tentato per ben due volte il suicidio senza riuscire nell’intento di porre fine alla propria vita, nel 2004 si rivolge ad un’associazione privata, Dignitas, che fornisce assistenza al suicidio grazie all’azione rapida e indolore di un potente barbiturico, il pentobarbitale sodico. Non essendo però riuscito a trovare uno psichiatra disposto a rilasciagli la prescrizione medica, obbligatoria per procurarsi il farmaco, il Sig. Haas adiva le autorità giudiziarie cantonali e federali al fine di ottenere la dispensa dalla ricetta medica e così mettere a segno l’agognato suicidio.
Il Tribunale federale, con sentenza del 3 novembre 2006, rigettava l’appello. Ernst Haas si rivolgeva nel 2007 alla Corte europea dei diritti umani sostenendo di essere vittima di un’eccessiva ingerenza dello Stato nella sua vita privata. Secondo il ricorrente l’impossibilità di trovare un medico disposto a rilasciargli la prescrizione medica e il rigetto da parte delle autorità federali dell’istanza di esonero dalla ricetta medica avrebbero vanificato e reso illusorio il diritto al rispetto della vita privata di cui all’art. 8 della CEDU.
Il fulcro della vicenda Haas non è quindi né la libertà di un individuo di decidere circa la propria morte né l’eventuale impunità della persona che gli presterà assistenza ma si concreta nello stabilire se, in forza dell’art. 8 della CEDU, possa discendere o meno in capo allo Stato un’obbligazione di facere. Il diritto ad un “suicidio degno” invocato dal ricorrente postula infatti il riconoscimento di un obbligo positivo in capo allo Stato di prendere le misure volte a facilitare l’accesso alla sostanza letale.
La Corte registra una certa disuniformità in seno agli Stati membri del Consiglio d’Europa circa il diritto di un individuo di scegliere quando e in che maniera mettere fine a propri giorni: eccezion fatta per i Paesi del Benelux che hanno previsto atti di assistenza al suicidio attivo o passivo, la maggior parte degli Stati membri accorda infatti maggiore protezione al diritto di vivere piuttosto che al diritto di morire. Ne deriva che in questa materia così intrisa e densa di implicazioni morali, gli Stati godono di ampio margine di apprezzamento. Incombe dunque sugli Stati il difficile compito di contemperare i confliggenti valori in gioco: da un lato la salvaguardia del diritto alla vita e dall’altro il diritto dell’individuo di decidere sulla propria morte che costituisce uno dei tanti volti del caleidoscopico diritto al rispetto della vita privata.
Gli Stati che propendono per la regolamentazione dell’eutanasia o dell’assistenza al suicidio devono, pertanto, ponderare l’obbligo positivo – nascente dall’art. 8 CEDU – di adottare le misure necessarie per facilitare un suicidio sicuro e indolore con l’opposto obbligo sempre di natura positiva discendente dall’art. 2 CEDU di impedire il suicidio di persone la cui volontà non si sia formata in modo libero e consapevole.
Giova mettere in luce che la vis espansiva dell’art. 2 CEDU non si esaurisce nella ricerca da parte del legislatore nazionale del giusto equilibrio tra gli antitetici interessi in campo. I suoi effetti si propagano infatti anche in una fase successiva alla regolamentazione imponendo agli Stati l’obbligo ulteriore di istituire adeguate procedure di controllo volte a prevenire abusi e a garantire la formazione di una volontà libera, consapevole, informata e avulsa da condizionamenti.
In definitiva la libera scelta di un individuo di rifiutare le cure e più in generale di morire, definendone tempi e modi, pur rientrando nel diritto all’autodeterminazione tutelato dall’art. 8, non comporta un obbligo per lo Stato di autorizzare il diritto a morire per mano altrui o di garantire il libero accesso alle sostanze necessarie a causare la morte.
La legge svizzera che assoggetta l’accesso a farmaci letali – qual è il pentobarbitale sodico – ad una perizia psichiatrica volta ad accertare la reale ed effettiva volontà del paziente e alla conseguente prescrizione medica non appare né arbitraria né irragionevole.
Le restrizioni imposte dal governo elvetico sono quindi in sintonia con la CEDU ed appaiono giustificate alla luce dell’art. 8 par. 2 CEDU per la protezione della salute, della sicurezza pubblica e per la prevenzione dei reati.
Il caso Pretty e il caso Haas sebbene accomunati dal desiderio di recidere la propria vita prima del suo naturale epilogo presentano vistose differenze: sono certamente diverse le condizioni psico-fisiche dei malati così come le richieste dei ricorrenti.
I riflessi sul piano pratico non indifferenti. Se Dianne Pretty, malata terminale affetta da una malattia degenerativa incurabile, non ha alternativa alcuna all’ausilio di un altro soggetto per porre fine alla propria vita, Hrnst Haas invece, pur potendo disporre di una rosa di possibilità per realizzare il suicidio, sceglie la modalità (l’assunzione del pentobarbitale sodico) per la quale si rende necessaria la cooperazione di terzi (medici ed autorità statali per ottenere la prescrizione di tale farmaco o la dispensa).
In un contesto così denso di implicazioni morali e giuridiche l’assunto di partenza è la statuizione della Corte secondo cui la decisione di un individuo di porre fine ai propri giorni rientra nel diritto fondamentale della persona all’autodeterminazione. Ne consegue che la scelta autonoma e consapevole di un soggetto di commettere il suicidio dovrebbe essere condizione necessaria e al contempo sufficiente per fugare qualsiasi interesse dello Stato ad impedirlo. A contrario, di fronte ad una decisione proveniente da un soggetto mentalmente incapace lo Stato potrebbe/dovrebbe invece intervenire predisponendo tutte le misure necessarie tese ad evitargli di compiere il gesto estremo della morte.
Una domanda sorge spontanea. Se l’autodeterminazione personale si pone quale unica eccezione all’obbligo degli Stati di preservare la vita, ci si chiede se in nessun caso la scelta autonoma e consapevole di un paziente di togliersi la vita potrebbe far nascere in capo agli Stati un altrettanto obbligo positivo di assistenza volto a rendere effettiva tale decisione.
Nel caso Pretty la Corte è giunta alla conclusione di non condannare il Regno Unito. Ma siamo davvero sicuri che Dianne Pretty non avesse diritto ad essere assistita dal marito?
La scelta politico-criminale del legislatore inglese di qualificare come reati gli atti di assistenza al suicidio può senza dubbio collidere con l’audeterminazione nelle scelte individuali e con il diritto al rispetto della vita privata. La Corte però, all’epoca dei fatti, non era pronta ad ammettere che una esplicita norma di divieto avrebbe potuto generare un illegittimo sconfinamento dello Stato nella sfera della vita privata.
Se il margine di apprezzamento costituisce uno strumento attraverso il quale riconoscere agli Stati il potere discrezionale di adottare anche misure positive che in un certo qual modo possano interferire con i diritti fondamentali e le libertà previsti dalla CEDU, a fortiori il consenso libero ed informato proveniente da chi considera la propria vita non più degna di essere vissuta potrebbe/dovrebbe legittimare una compressione dell’obbligo in capo agli Stati di proteggere e tutelare la vita, sempre e comunque.
La scelta di una persona che invoca il suicidio per mano altrui, in quanto espressione dell’autonomia individuale dovrebbe pertanto comportare la depenalizzazione degli atti di assistenza al suicidio o quanto meno l’impunità di chi presta assistenza in presenza di determinate condizioni che vanno accertate in concreto e caso per caso.
In conclusione la posizione dello Stato è paragonabile ad un pendolo che oscilla tra l’obbligo positivo di preservare la vita e quello negativo di astenersi dal compimento di atti che possono infrangere la sfera privata degli individui. In questo moto perpetuo sarebbe auspicabile quella posizione mediana che permette di autorizzare eccezionalmente soggetti intellettualmente coscienti ma fisicamente impotenti ad essere assistiti ed accontentati nel momento del trapasso.