Enough is enough! La Corte di Giustizia interviene sull’(il)legittimità delle proroghe “a catena” dei controlli alle frontiere interne. Ma lo Spazio Schengen rimane a rischio.
Spielfeld è una località del Land austriaco della Stiria, situata nei pressi del confine sloveno, in un incantevole scenario di boschi e montagne. La tranquillità che questo contesto infonde è stata improvvisamente turbata per il Sig. NW quando egli, nell’attraversare il confine austro-sloveno con la propria auto, veniva fermato per un controllo di frontiera. Richiesto di esibire il passaporto e sottoporsi a verifiche, si rifiutava, in una sorta di atto di disobbedienza civile europea, ritenendo illegittimi i controlli e lesa la propria libertà di circolazione.
I cittadini europei, in effetti, amano la libertà di circolazione più di ogni altra cosa (v. Eurobarometro 95/2021 e Eurobarometro 96/2022 : 9 cittadini su 10 ne sono a favore). Eppure, sono anni che lo spazio Schengen non è più del tutto “senza frontiere” per via della proliferazione di misure di ripristino dei controlli adottate sulla base di (più o meno fondate) minacce per la sicurezza. In assenza di contromisure efficaci da parte dell’Ue, gli Stati membri hanno potuto continuare sostanzialmente indisturbati nelle proprie pratiche di erosione dello spazio Schengen e del principio della libera circolazione.
Ecco allora che NW ha fatto del suo caso una questione di principio: il rifiuto di esibire il passaporto e la multa che ne è seguita (36 euro) hanno attivato un contenzioso amministrativo dal quale, tramite un rinvio pregiudiziale, la questione ha raggiunto la Grande Camera di Lussemburgo. Con sentenza del 26 aprile 2022 la Corte di Giustizia si è finalmente pronunciata sulla legittimità del ripristino dei controlli alle frontiere interne dello spazio Schengen, fornendo una serie di preziose indicazioni che – teoricamente – dovrebbero contenere le future condotte degli Stati membri entro più chiari limiti procedurali.
Schengen e la sua lunga crisi
Come ha ricordato la Commissione in una recente Comunicazione, Schengen è “innegabilmente parte integrante del DNA europeo” (p.1). Esso, tuttavia, è fiaccato dai continui e prolungati ripristini dei controlli alle frontiere interne che vanno ad impattare sul principio di libera circolazione. La reintroduzione dei controlli rappresenta la reazione dei governi ad una spirale di eventi critici che hanno interessato l’Ue: nel 2015 la crisi dei rifugiati e i movimenti secondari in risalita verso il cuore geografico del Continente (su Schengen e crisi dei migranti v. Peers); negli anni successivi, la serie di attacchi terroristici nel cuore dell’Europa (su Schengen e terrorismo v. Guild); infine, la pandemia (su Schengen e Covid-19 v. Montaldo; Carlier-Frasca-Gatta-Sarolea).
Tali minacce hanno condotto alla proliferazione di misure di ripristino dei controlli alle frontiere interne, prorogate “a catena” e spesso in difformità con la rilevante disciplina dell’Ue. La cornice procedurale del Codice Frontiere Schengen, infatti, è stata “piegata” dai governi, grazie ad una strategia di strumentalizzazione che ha consentito di aggirarne limiti e condizioni: cambiando la base giuridica per reintrodurre i controlli, giustificando gli stessi su motivi in parte diversi, ovvero tramite il riferimento a minacce generiche o astratte (Carrera). Ne è seguito un cortocircuito procedurale che ha condotto ad un paradosso: l’inversione tra la regola (la libera circolazione) e l’eccezione (il ripristino dei controlli).
Le istituzioni europee hanno reagito timidamente. Il Parlamento, ad esempio, dopo aver evidenziato i costi socio-economici del ripristino dei controlli di frontiera in uno studio del 2016 (“the cost of non-Schengen”), in una risoluzione del 2018 aveva sostenuto chiaramente che le proroghe dei controlli “non [sono] conformi alle norme esistenti in quanto alla loro estensione, necessità o proporzionalità, risultando pertanto illecite” (§10). La Commissione, dal proprio canto, è rimasta essenzialmente inerte, limitandosi all’emanazione di talune comunicazioni (infra). Lo stesso Parlamento, in una risoluzione del 2021, non ha mancato di osservare che, su Schengen, “la Commissione è stata lenta o apertamente riluttante ad avviare procedure d’infrazione” (§4). In questo scenario, allora, è toccato alla Corte di Giustizia intervenire per ripristinare l’ordine.
Termini e durata del ripristino dei controlli di frontiera
Il Codice Frontiere Schengen (CFS) consente il ripristino temporaneo dei controlli alle frontiere interne, prevedendo, a tal fine, una serie di appositi requisiti. Si tratta, in particolare, di un quadro generale per il ripristino (art. 25), da attuare in conformità a determinati criteri (art. 26) e passaggi procedurali (art. 27), nonché di procedure specifiche in caso di azione immediata (art. 28) e di rischio per il funzionamento globale dello spazio Schengen (art. 29). Il CFS si premura di stabilire anche la durata massima del ripristino dei controlli, che, nel caso della procedura generale ex art. 25, ammonta a 6 mesi, proroghe comprese (§4).
Il caso austriaco è paradigmatico della strumentalizzazione delle diverse procedure di ripristino dei controlli di frontiera previste nel CFS: a partire dal 2015, in piena “crisi dei rifugiati”, l’Austria aveva ripristinato i controlli alle proprie frontiere interne con Ungheria e Slovenia, inizialmente, in base alla procedura per un’azione immediata ex art. 28; poi in base a quella generale ex art. 25, quindi in base a quella per rischio globale dello spazio Schengen ex art. 29. Tale ultima procedura – che prevede una raccomandazione del Consiglio agli Stati membri circa tempi e modi del ripristino dei controlli – si era “esaurita” nel 2017. Il governo di Vienna, nondimeno, basandosi nuovamente sull’art. 25, aveva prolungato di propria iniziativa il ripristino del controllo alle frontiere a colpi di proroghe semestrali, senza soluzione di continuità fino al 2021. Risultato: controlli alla frontiera interna de facto protratti per oltre 6 anni.
Da qui, il tema centrale del rinvio pregiudiziale operato dal giudice a quo austriaco: è legittimo spingere i controlli oltre il tetto massimo di 6 mesi previsto dall’art. 25(4) CFS? La Corte di Giustizia risponde negativamente, finalmente “smascherando” l’illegittimità della pratica austriaca. La conclusione è raggiunta in base all’interpretazione letterale, sistematica e teleologica della norma. Anzitutto, il tenore letterale dell’art. 25(4) CFS non lascia spazio a dubbi: prevedendo che “la durata totale del ripristino… incluse eventuali proroghe… non è superiore a sei mesi”, risulta evidente che il legislatore dell’Ue abbia inteso fissare con chiarezza e precisione la cornice temporale dei controlli. Inoltre, la Corte ricorda che la libertà di attraversamento delle frontiere interne rappresenta la regola, il ripristino dei controlli l’eccezione. Le deroghe alla libera circolazione, dunque, vanno interpretate restrittivamente e devono costituire una misura di ultima istanza. Infine, la previsione di criteri e procedure per il ripristino dei controlli risulta funzionale allo scopo generale del CFS: garantire l’equilibrio tra la libera circolazione e il mantenimento dell’ordine pubblico e della sicurezza interna.
La Corte, pertanto, conclude che il periodo di durata massima totale di sei mesi è “imperativo” (§78), di modo che il suo superamento comporta l’incompatibilità con il diritto dell’Ue di qualsiasi controllo di frontiera interna ripristinato ex art. 25 CFS e praticato oltre la scadenza del prescritto periodo semestrale.
Nuovi controlli, nuova minaccia
La Corte chiarisce che, una volta “esaurito” il tetto totale di un semestre, lo Stato membro potrà ripristinare i controlli di frontiera, per una durata massima di ulteriori 6 mesi, dovendo però dimostrare la sussistenza di una nuova minaccia, distinta da quella inizialmente individuata come base giustificativa del precedente periodo semestrale (§79). Questa precisazione, che pur lascia un certo margine di manovra agli Stati, non equivale a una carta bianca: deve esserci una nuova minaccia e non, semplicemente, una nuova valutazione di una minaccia preesistente, come invece argomentato dal governo austriaco (nonché da quelli di Francia e Danimarca, intervenuti in causa, §55).
Come si individua allora una nuova minaccia? Questa deve essere identificata riferendosi a circostanze, eventi e avvenimenti che ne dimostrino l’effettiva differenza rispetto a quella precedente (§§80-81). Con questo chiarimento la Corte sembra giocare d’anticipo, cercando di porre già taluni paletti nell’ottica di evitare condotte elusive da parte degli Stati. Tuttavia, la Corte nemmeno entra nel dettaglio, di modo che il criterio della “nuova minaccia” potrebbe in futuro venire sfruttato dai governi, come camouflage per reintrodurre i controlli, seppur magari in modo meno sistematico ed eclatante rispetto al passato (Thym).
Leggendo tra le righe: un monito agli Stati membri e una (velata) critica alla Commissione
Spingendo lo sguardo oltre gli aspetti più strettamente tecnico-giuridici, nella sentenza della Corte sembra potersi cogliere un messaggio di fondo: Schengen non è dominio esclusivo degli Stati. Lo era un tempo, quando nacque, quale esperienza ad impulso intergovernativo. Ora è parte integrante e cruciale del diritto dell’Ue, il quale ne detta regole comuni per il funzionamento. Detto altrimenti: i governi non possono fare ciò che vogliono con i controlli alle frontiere interne, la cui gestione è imbrigliata in un preciso recinto procedurale europeo (Bornemann).
Su queste premesse, la Corte disinnesca l’argomento dell’art. 72 TFUE quale norma che – in nome delle responsabilità incombenti sugli Stati membri per il mantenimento di ordine pubblico e sicurezza interna – consentirebbe di superare i limiti della normativa Schengen e derogare alla durata massima semestrale per il ripristino del controllo alle frontiere interne. L’argomentazione, avanzata dal governo tedesco intervenuto in causa (§§55 e 83), aveva convinto l’Avvocato Generale, ma non la Corte (per la posizione dell’Avvocato Generale, v. Cebulak-Morvillo).
Questa mossa era già stata tentata dai governi Ungherese e Polacco nel contenzioso sulla ricollocazione dei richiedenti asilo (C‑643/15 e C‑647/15 e C‑715/17, C‑718/17 e C‑719/17), proprio al fine di fare dell’art. 72 TFUE un “cavallo di Troia” per forzare il sistema in situazioni di (presunto) rischio per la sicurezza interna (Savino). In quell’occasione, così come nel caso austriaco dei controlli di frontiera, la Corte ricorda che la deroga ex art. 72 deve essere interpretata restrittivamente, non potendo essere invocata a piacimento dagli Stati per sottrarsi alle regole di diritto Ue. Peraltro, nel caso di Schengen, la previsione di un tetto massimo totale di 6 mesi per il ripristino dei controlli di frontiera è proprio funzionale all’obiettivo di una libera circolazione in sicurezza. Il legislatore dell’Ue, infatti, ha tenuto debitamente in conto le responsabilità degli Stati, ritenendo 6 mesi un periodo sufficiente per far fronte a una minaccia e ripristinare l’ordine e la sicurezza nazionali.
Tali argomenti servono anche alla Corte come assist per esprimere una critica alla Commissione e alla sua eccessiva prudenza nei confronti delle proroghe dei controlli alle frontiere. In effetti la Commissione – tanto a guida Juncker quanto Von der Leyen – negli anni si è limitata ad “incoraggiare” i governi al rispetto della pertinente normativa europea. Lo ha fatto, in particolare, con delle comunicazioni dai titoli evocativi, come ad esempio “Ritorno a Schengen” (COM(2016) 120), “Preservare e rafforzare Schengen” (COM(2017)570) ovvero, più di recente, “Strategia per uno spazio Schengen senza controlli alle frontiere interne pienamente funzionante e resiliente” (COM(2021) 277). Ha mancato, però, di fare uso dell’infrazione, quale istituto ad hoc che il diritto Ue pone nelle sue mani in quanto “guardiano dei trattati”. Insomma, molte parole, pochi fatti.
Ebbene, a proposito della pluriennale inerzia della Commissione, la Corte osserva che il CFS prevede appositi meccanismi di verifica circa il ripristino dei controlli alle frontiere interne. Si tratta di un sistema di controllo incrociato, che coinvolge gli Stati membri e la Commissione, in una logica di cooperazione e monitoring reciproco. L’art. 27(4) CFS, in particolare, attribuisce un ruolo attivo alla Commissione, prevedendo che la stessa debba emettere un parere se “nutre preoccupazione sulla necessità o proporzionalità del ripristino del controllo”. Eppure, nel caso austriaco, la Commissione, come essa stessa “ha espressamente ammesso in udienza” (§91), non ha emesso alcun parere nei confronti dell’Austria, pur essendo intervenuta in causa per sostenere l’illegittimità dei controlli al confine con la Slovenia.
Un autogol, su cui la Corte non sorvola, sottolineando che per garantire il buon funzionamento dello spazio Schengen è essenziale che vi sia attenzione e vigilanza tanto da parte degli altri Stati membri quanto della Commissione. Se i primi sono chiamati a cooperare con attività di informazione e consultazione reciproca, la seconda deve esercitare le specifiche competenze che le sono attribuite dal CFS: essa, infatti, “è tenuta” ad emettere un parere e svolgere le verifiche sul ripristino dei controlli (§91). Insomma, se non intende attivare la procedura di infrazione – che rimane un atto politico discrezionale e “forte” – la Commissione abbia almeno la coerenza di usare i meccanismi più soft espressamente previsti dalla normativa Schengen.
Schengen è salvo?
Con la sentenza sul caso austriaco la Corte arriva dove la Commissione ha fallito, indossando le vesti del “guardiano dei trattati” e riportando il funzionamento dell’area Schengen entro la legalità (Cebulak-Morvillo). Emblematico il percorso che ha condotto – dopo anni di continue proroghe dei controlli alle frontiere – alla pronuncia della Grande Camera: non la procedura d’infrazione ad opera della Commissione, vale a dire, il canale tendenzialmente più logico e naturale, bensì il rinvio pregiudiziale, con approccio “dal basso” frutto di un abile caso di strategic litigation (Cebulak-Morvillo).
Oltre alle indicazioni interpretative generali sul ripristino dei controlli di frontiera, la Corte in qualche modo si spinge fino a pronunciarsi sul caso concreto, affermando che “nel caso di specie… sembra… che la Repubblica d’Austria non abbia dimostrato l’esistenza di una nuova minaccia” (§82). Sebbene si premuri di specificare che spetterà al giudice nazionale verificare le circostanze del caso e decidere (come del resto l’istituto del rinvio pregiudiziale richiede) i giudici del Lussemburgo sostanzialmente “suggeriscono” più o meno esplicitamente la decisione: appare difficile, infatti, che il giudice austriaco possa discostarsi da quanto indicato dalla Corte di Giustizia, peraltro in formazione giudicante di Grande Camera. Questa “ingerenza” o “sconfinamento” da parte della Corte non sono sfuggiti ad alcuni commentatori, che non hanno esitato a parlare di “significant and unprecedented supranational judicial intervention” (Bornemann, v. anche Thym). Lo si può interpretare come un ulteriore segnale forte da parte della Corte, volto ad esercitare pressione sugli Stati membri, quanto meno nei confronti di quelli responsabili dei casi più “clamorosi” di ripristino dei controlli alla frontiera, come appunto l’Austria.
Nel complesso, la sentenza è stata letta positivamente, come salvataggio o ripristino del funzionamento di Schengen, nonché come incentivo per un futuro riallineamento delle condotte statali con la normativa Ue (Cebulak-Morvillo; Bornemann). Se la pronuncia autorizza un cauto ottimismo, d’altro canto si è anche osservato, con realismo, che è bene non riporre assoluta fiducia nella condotta dei governi (Thym). In particolare, con il criterio della nuova minaccia – che, se dimostrata, consente di reintrodurre nuovi controlli fino a un nuovo tetto massimo semestrale – la Corte ha in qualche modo lasciato aperto una fessura. Una fessura che gli Stati potrebbero tentare di sfruttare per guadagnare tempo e ottenere una nuova base giustificativa per ulteriori controlli.