Egalité de combat e “vivre ensemble”. La Corte di Strasburgo e il divieto francese del velo integrale nei luoghi pubblici

Lo scorso primo luglio la Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata sulla legge francese n. 2010-1192, stabilendo che il divieto generalizzato di coprire il viso quando si è in un luogo pubblico non costituisce violazione degli articoli 8 e 9 della Cedu (affaire S.A.S. c. France). La decisione aggiunge un nuovo tassello all’ormai copiosa giurisprudenza della Corte di Strasburgo in tema di simboli religiosi (solo in parte, e non del tutto coerentemente, richiamata in sentenza) e segna un ulteriore passo della Francia verso una pervicace (e parziale) neutralizzazione degli spazi pubblici.
Il caso nasce dal ricorso di una cittadina francese di origine pakistana e fede sunnita che, desiderando indossare anche in pubblico il niqab e il burqa, in seguito all’entrata in vigore della legge e alle prime condanne dei giudici francesi, si è rivolta direttamente alla Corte europea dei diritti dell’uomo, allegando una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 8 Cedu) e della libertà di manifestare il proprio credo (art. 9 Cedu). Nel ricorso si sottolinea che la donna non rivendicava il diritto di indossare sistematicamente il velo integrale nei luoghi pubblici – essendo disposta a mostrare il volto in caso di controlli di sicurezza o di accertamento di identità – e che la sua scelta era dettata non da pressioni del marito o della famiglia, ma dalla volontà di esprimere tramite il velo le sue credenze religiose e culturali.

 La decisione della Grande Camera ruota intorno a due profili: il modo in cui legislatore ha scelto di configurare il divieto di occultare il viso in pubblico e le motivazioni addotte dal Governo per dimostrarne la conformità alla Cedu.
Quanto al primo profilo, la legge n. 2010-1192 si caratterizza per la generalità del divieto introdotto e per l’apparente neutralità della formulazione impiegata. Nonostante, infatti, le perplessità manifestate dalla Commission nationale consultative des droits de lhomme e dal Consiglio di Stato (nonché le osservazioni di analogo tenore contenute nella Risoluzione 1743/2010 e nella Raccomandazione 1927/2010 dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa e nel parere del Commissario per i diritti umani dello stesso Consiglio), l’Assemblea nazionale ha infine optato per un testo legislativo contenente un divieto generalissimo, non delimitato cioè dalla sussistenza di concrete esigenze di ordine pubblico, di identificazione o di accesso a certi luoghi o servizi, ma consistente laconicamente nel prevedere che “Nul ne peut, dans l’espace public, porter une tenue destinée à dissimuler son visage”. In questo modo, ancor più che con la legge n. 2004-228 sul divieto di indossare ostensiblement simboli religiosi nelle scuole pubbliche, con la formula impiegata dalla legge n. 2010-1192 il legislatore francese ha cercato di schermarsi dall’accusa di discriminare o stigmatizzare il comportamento o le pratiche di alcuni soggetti soltanto (ma è sufficiente soffermarsi sulle eccezioni al divieto, contenute nel secondo comma dell’art. 2, per rendersi conto che lo schermo è davvero fragile).

Poiché per i giudici di Strasburgo una disposizione normativa come quella francese costituisce una limitazione dei diritti garantiti dagli articoli 8 e 9 della Cedu, alla Corte non rimaneva che verificare se le osservazioni presentate dal governo francese rispondessero a uno dei legittimi scopi in presenza dei quali la Convenzione ammette ingerenze o restrizioni ai diritti (purché necessarie e proporzionate). A questo proposito, è interessante notare come la Corte si sia cimentata in uno scrutinio basato su due differenti livelli di penetrazione: per un verso le valutazioni delle autorità francesi sono state sottoposte a un controllo più incisivo di quello che in casi analoghi la Corte applica in ordine alla sussistenza di quegli scopi; per l’altro, lo scrutinio si è fermato proprio là dove le argomentazioni dello Stato resistente avrebbero richiesto un maggiore sforzo di approfondimento da parte dei giudici.
Secondo il Governo, la legge n. 2010-1192 persegue due obiettivi, quello della protezione della pubblica sicurezza – espressamente richiamato anche dagli artt. 8 e 9 della Convenzione – e quello del rispetto “du socle minimal des valeurs d’une société démocratique et ouverte”, che si estrinseca nel rispetto dell’eguaglianza tra uomini e donne, in quello della dignità umana e, infine, nell’osservanza dei requisiti minimi richiesti dal “vivre ensemble”. Di questi tre valori, nessuno dei quali trova esplicita menzione nella Convenzione, solo l’ultimo è ricondotto dalla Corte alla “protezione dei diritti e delle libertà altrui”, così come prevista dagli artt. 8 e 9 della Cedu, accettandolo perciò come scopo legittimo della misura adottata.

I profili rispetto ai quali i giudici di Strasburgo aprono a un sindacato più penetrante rispetto al passato concernono – in modo del tutto condivisibile – il richiamo alle ragioni della pubblica sicurezza, nonché quello all’eguaglianza di genere e al rispetto della dignità umana. Quanto alla pubblica sicurezza, la Corte ha gioco facile nel sostenere che essa costituisce sì un obiettivo legittimo, in presenza del quale gli Stati possono limitare i diritti di cui agli artt. 8 e 9 Cedu, ma che, nel caso di specie, la formulazione del divieto di coprire per intero il viso è tale che la misura adottata non può ritenersi necessaria per il perseguimento dello scopo. La legge francese non è, infatti, congegnata in modo da far scattare il divieto solo quando vi sia la necessità di identificare un soggetto, perché sussiste un pericolo per la sicurezza di cose o persone ovvero vi sia il rischio di una frode di identità, ma contiene un divieto generalizzato, che potrebbe considerarsi proporzionato solo nel caso in cui vi fosse una generale e comprovata minaccia alla pubblica sicurezza (la qual cosa non è stata dimostrata dal governo francese).

Secondo la Corte, a mostrare le crepe è anche un altro elemento rimarcato dal Governo a difesa del divieto di coprire integralmente il volto in pubblico: garantire il rispetto dell’eguaglianza tra uomini e donne e quello della dignità umana. Quanto al primo aspetto, si tratta invero di un argomento che è spesso portato a sostegno dei provvedimenti legislativi con cui è negata o ristretta la possibilità di indossare il velo islamico nei luoghi pubblici (scuole, tribunali, aeroporti, ospedali) e non di rado i giudici di Strasburgo, seppure con accenti diversi, lo hanno fatto proprio (vedi Dahlab v. Svizzera, Leyla Sahin v. Turchia). Peraltro, il fatto che tale argomento sia chiamato in ballo a difesa di una legge che, come quella francese, si fa vanto di una formulazione “neutra” prova, in realtà, che i destinatari del divieto legislativo erano sin dall’inizio ben delimitati.
Questa volta, tuttavia, la Corte declina la difesa fondata sull’eguaglianza di genere e, anche sulla scorta delle osservazioni presentate da diverse associazioni non-governative, dichiara fermamente che lo Stato non può invocare l’eguaglianza tra i sessi per vietare la pratica di indossare il velo integrale. In caso contrario, infatti, poiché tale pratica è esercizio di diritti sanciti dalla Convenzione e, al contempo, essa è rivendicata da donne che, al pari della ricorrente, sostengono di osservarla per propria scelta, si giungerebbe alla paradossale conclusione che sulla base dell’argomento egalitario le persone possono essere “protette” finanche dall’esercizio dei loro stessi diritti e libertà. In modo analogo, una misura come quella francese non è ammissibile neppure se si invoca il rispetto della dignità umana, non soltanto perché il velo integrale è espressione di un’identità culturale, che costituisce un apporto al pluralismo democratico, ma soprattutto perché non c’è alcuna prova che le donne il cui viso sia interamente coperto dal velo intendano esprimere disprezzo verso gli altri ovvero offendere la loro dignità.

Sulla base di tali osservazioni sembra, dunque, che non vi sia alcuno spazio per un divieto generalizzato come quello congegnato dal legislatore francese. Tuttavia, è a questo punto che la Corte cambia repentinamente registro, affermando che, ciononostante, la legge n. 2010-1192 non comporta alcuna violazione degli artt. 8 e 9 Cedu: il divieto è, infatti, da considerarsi una misura legittima e necessaria in una società democratica, essendo volta a garantire le condizioni del “vivre ensemble”. I giudici danno, quindi, credito alle osservazioni del Governo, secondo cui il viso gioca un ruolo importante nell’interazione sociale e le persone che si trovano in uno spazio pubblico non desiderano essere esposte a pratiche che, al contrario, ostacolano ciò che costituisce un elemento indispensabile del vivere sociale, ovverosia la possibilità di intrattenere relazioni interpersonali aperte. Il fatto di portare il velo integrale violerebbe, infatti, il diritto degli altri a vivere in uno spazio di socializzazione, che agevoli e favorisca il vivere insieme.
Se, dunque, la Corte in diversi passaggi della sentenza mostra di voler rigettare gli stereotipi che circondano la pratica del velo integrale (di solito assunta come segno di costrizione, sottomissione e dipendenza), nell’ultima parte preferisce invece ritornare verso lidi più sicuri e, premurandosi di fare i dovuti distinguo rispetto alla pregressa giurisprudenza sull’art. 9 Cedu, si rifugia nuovamente nel richiamo all’ampio margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati, specie là dove, come nel caso di specie, non sussista ancora (a detta dei giudici) un “consenso europeo” sul divieto del velo integrale. Secondo la Corte, infatti, poiché la nozione di “vivre ensemble” è per natura flessibile e varia da Stato a Stato, dinanzi a tale argomento essa ritiene di doversi arrestare, esercitando il suo self restraint. Sul punto, pertanto, non le resta che accogliere le spiegazioni addotte dalla Francia, secondo cui il principio di interazione tra le persone, cui contravverrebbe il velo integrale, è essenziale per la manifestazione non solo del pluralismo, ma anche della tolleranza e dell’“esprit d’ouverture” propri di una società democratica.

In definitiva, a nulla è valso il riconoscimento del fatto che il divieto generalizzato di portare il velo integrale ha un impatto negativo sulle donne che decidono di indossarlo e che una misura come quella francese è ritenuta sproporzionata da molte organizzazioni internazionali, anche per lo stigma, le discriminazioni e gli stereotipi che veicola. Alla Corte non è stato neppure sufficiente ammettere che in questo modo le donne musulmane sono messe di fronte a un doloroso dilemma, che le costringe a scegliere tra il rispetto del divieto (e la relativa rinuncia a manifestare con il velo il proprio credo) e il rifiuto di osservarlo (con conseguente applicazione della sanzione penale); né tantomeno ha avuto un peso riconoscere che un divieto siffatto può produrre l’effetto di limitare l’autonomia delle donne musulmane, relegandole nel privato, escludendole dagli spazi in cui dovrebbero sottoporsi alla tanto declamata socializzazione e compromettendo l’esercizio dei loro diritti.

La deferenza verso gli Stati contraenti e il loro ampio margine di apprezzamento su alcune questioni hanno avuto, pertanto, la meglio, lasciando scoperti nodi che pure meritavano di essere ulteriormente sviscerati. Mi riferisco in primo luogo all’eguaglianza di genere, che per il modo in cui è stata sbandierata dal governo francese ha finito piuttosto per presentarsi come una égalité de combat. Il divieto generalizzato di portare il velo integrale nei luoghi pubblici incarna, infatti, un’eguaglianza tra uomini e donne paternalista, che paradossalmente viene imposta alle donne nonostante la scelta di coprirsi il volto e a dispetto della supposta intenzione di proteggerle dalla pressione patriarcale altrui. A tal proposito, se da un lato la Corte di Strasburgo sembra rigettare una lettura “militante” dell’eguaglianza tra i sessi, nel momento in cui si rifugia in un’interpretazione del tutto accomodante dell’alquanto vago concetto del “vivre ensemble”, essa finisce per svalutare le ripercussioni negative del divieto sulla vita e sui diritti delle donne musulmane, sia in termini di estromissione pratica e al tempo stesso simbolica dagli spazi pubblici, sia in termini di esposizione a violenze e molestie.
Diviene così evidente che i requisiti minimi del “vivere in società”, così come preservati dal divieto francese (e ratificati dalla Corte europea), hanno esiti discriminanti e sproporzionati, perché servono a “selezionare” coloro che entrano nello spazio pubblico e, al contempo, a proteggere la “serenità” di chi già lo abita. E sebbene nell’opinione dissenziente i giudici Angelika Nußberger e Helena Jäderblom giustamente rimarchino che, anche in virtù della giurisprudenza Cedu sull’art. 9, non esiste alcun diritto a non essere scioccati o provocati da modelli di identità religiosa o culturale anche molto distanti da quelli ai quali si è avvezzi, il risultato cui la sentenza conduce è esattamente questo. L’acritica accettazione dell’argomento secondo il quale l’esposizione del volto nei luoghi pubblici costituisce un elemento centrale del vivere sociale porta, infatti, con sé l’idea, fortemente stereotipata, che chi desidera coprirsi il volto anche in pubblico mostra con ciò stesso di rifiutare il confronto e di sottrarsi all’interazione sociale (monoliticamente intesa come scambio “a viso aperto”). Ma, come correttamente osservato nell’opinione dissenziente, se è vero che il “vivre ensemble” richiede la possibilità dello scambio interpersonale e che il viso gioca un ruolo importante nell’interazione umana, da ciò non può dedursi né che tale interazione sia preclusa dal solo fatto di coprirsi il volto né che quando si entra nello spazio pubblico si sia obbligati a comunicare con gli altri.
Diversamente, dovremmo concludere che la democrazia di cui gli Stati possono farsi scudo a difesa di divieti come quello francese è, invero, una democrazia dell’“esteriorità”, in cui l’interazione interpersonale che la innerva è miseramente ridotta a mera “estetica del confronto”, che non ammette altre forme di comunicazione. Sembra, inoltre, riaffacciarsi la vecchia separazione tra sfera pubblica e sfera privata, in virtù della quale le donne con il velo integrale sono “tollerate” purché rimangano nelle mura domestiche, ma si ignora quanto rilievo pubblico abbiano, invece, le controindicazioni derivanti da un divieto analogo a quello della legge n. 2010-1192 (o dell’omologa legge belga). E del resto, la scelta della Corte di dare particolare enfasi all’art. 9 Cedu, non considerando come in questi casi vi sia una stretta interrelazione con l’art. 8, dimostra una discutibile sottovalutazione degli intrecci fra quelle due sfere.

Dietro il modo in cui alcuni Stati europei stanno reagendo all’aumento di donne che indossano il niqab o il burqa vi è anche dell’altro. Si continua, infatti, a discutere dello spazio che la Cedu lascia agli Stati nel regolare i rapporti con le confessioni religiose e nel vietare o limitare alcune pratiche religiose, così come si dibatte se esista o meno un obbligo religioso di indossare quei simboli e in che misura esso vincoli le donne musulmane. In questo modo, tuttavia, si perde di vista – ipocritamente e forse volutamente – il nodo centrale: come emerge dalle osservazioni presentate dalla ricorrente e da quelle del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, le donne che in Europa indossano il niqab o il burqa sentono – non necessariamente, ma sempre più spesso – di mettere in atto un comportamento che è segno non solo e non sempre di una pratica religiosa, ma anche di una pratica culturale, attraverso la quale esse esprimono l’appartenenza a una cultura minoritaria e a un diverso modo di vivere lo spazio pubblico. Se così è, è chiaro allora che casi come quelli decisi dalla Corte di Strasburgo devono interrogarci molto più profondamente (e onestamente) di quanto pensiamo, perché non obbligano soltanto a fare i conti con comportamenti ritenuti dai più scioccanti e disturbanti, ma sollevano questioni più complesse. Come e fino a che punto conciliare i diritti delle minoranze con i principi che un ordinamento pone a fondamento del “patto sociale”? Nel decidere se riconoscere una pratica culturale minoritaria, rileva (e in che modo) il fatto che essa sia contestata all’interno della minoranza? L’eguaglianza di genere ha un contenuto essenziale, oltre il quale non è dato spingersi, o è passibile di “altre interpretazioni”?
La Corte europea ritiene, inoltre, che sul divieto del velo integrale non si sia ancora formato un “consenso europeo”, tale da consentirle uno scrutinio più penetrante. Ma la formazione di un consenso contrario al divieto, come sottolineano i giudici Nußberger e Jäderblom, non avrebbe forse potuto desumersi, eccezion fatta per la Francia e il Belgio, dall’assenza di legislazioni ad hoc negli altri Stati europei? E non c’è forse da chiedersi come mai il niqab e il burqa possano legittimamente essere ritenuti d’ostacolo al “vivre ensemble”, anche quando liberamente indossati, mentre analogo problema neppure si pone per il crocifisso, nell’ipotesi in cui sia obbligatoriamente esposto nelle aule delle scuole pubbliche (cfr. Lautsi II c. Italia, che la Corte tuttavia omette non a caso di richiamare)?
Si potrebbe discutere lungamente su ciascuno di tali interrogativi, ma preme adesso sottolineare un ultimo aspetto. La discussione di casi come quello in esame non dovrebbe mai andare disgiunta dalla considerazione del rischio di intersezione tra le diverse forme di discriminazione ed esclusione, cui le donne appartenenti a minoranze vanno incontro: esse, infatti, sono esposte a discriminazioni sovrapposte, derivanti cioè dall’intreccio di molteplici fattori, quali il genere, la religione, la cultura e le condizioni sociali. Non bisogna, dunque, sottovalutare che divieti come quello francese sono a tal punto controproducenti che, emarginando e confinando le donne nell’ambiente domestico, aggravano la loro iniziale condizione di vulnerabilità.
Non resta che una domanda: cui prodest?

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