È arrivato Godot. A proposito della recente sentenza sullo Statuto catalano
Con una sentenza di ottocentottantuno pagine, il 28 giugno scorso il Tribunale costituzionale si è pronunciato sul ricorso d’incostituzionalità promosso contro la Legge organica 19 luglio 2006, n. 6 contenente il nuovo Statuto di autonomia della Catalogna.
La decisione del Tribunale costituzionale (STC 31/2010) è arrivata al termine di un lunghissimo e tormentato iter processuale nel quale non sono mancati forti momenti di tensione, come testimoniano le polemiche suscitate dalla ricusazione del giudice Pérez Tremps. Dichiarando l’incostituzionalità di quattordici disposizioni e ricorrendo in maniera assai generosa alla tecnica dell’interpretazione conforme, il Tribunale costituzionale ha inciso profondamente su alcuni punti dello Statuto catalano, anche se non sono mancate fra i primi commenti opinioni che hanno inteso porre maggiormente l’accento sul rigetto delle censure mosse dal gruppo parlamentare del Partito Popolare a centoquattordici articoli dell’EAC (F. BALAGUER CALLEJÓN).
Una prima questione ha coinvolto innanzitutto i riferimenti ad i termini «nazione» e «realtà nazionale» contenuti nel preambolo. Secondo il T.C., tali espressioni sono prive non solo di efficacia giuridica normativa – al pari di qualsiasi disposizione contenuta in un preambolo (STC 36/1981, 132/1989, 150/1990) – ma sono altresì prive di efficacia giuridica interpretativa, essendo inidonee pertanto a configurare un criterio ermeneutico utile alla ricostruzione della volontà del legislatore. Il termine «nazione» – si legge nella sentenza – può infatti collocarsi su due diversi livelli: un livello culturale, storico, linguistico, sociologico e persino religioso. In questo primo significato, l’auto-rappresentazione di una collettività come realtà nazionale, pur priva di efficacia giuridica, assume piena legittimità in un ordinamento democratico. Un secondo livello individua invece la “nazione” nella sua dimensione giuridico-costituzionale: «ed in questo specifico significato… la Costituzione non conosce altra Nazione che quella spagnola», così come individuata nel preambolo e nell’art. 2 C.E.
Possiede invece valore giuridico meramente interpretativo il riferimento del preambolo al «diritto inalienabile della Catalogna all’autogoverno» proclamato dallo Statuto. Tale diritto, si sostiene nella pronuncia, non è altro che il «diritto all’autonomia delle nazionalità e delle regioni» che integrano la Nazione spagnola sancito dall’art. 2 C.E. Nello stesso senso, la menzione dei «simboli nazionali della Catalogna» contenuta nell’art. 8 EAC deve essere interpretata, d’accordo con la Costituzione, nel significato di «simboli di una nazionalità costituita come Comunità autonoma nell’esercizio del diritto che riconosce e garantisce l’art. 2 C.E.»
Il preambolo dello Statuto individua poi nella Costituzione, «così come sui diritti storici del popolo catalano» il fondamento dell’«autogoverno della Catalogna». Tale disposizione trova concreto sviluppo nell’art. 5 dello Statuto, in base al quale «l’autogoverno di Catalogna è anche fondato sui diritti storici del popolo catalano, sulle sue istituzioni secolari, e sulla tradizione giuridica catalana, che il presente Statuto incorpora e attualizza nel quadro dell’articolo 2, Disposizione Transitoria Seconda, e delle altre disposizioni della Costituzione, da cui deriva il riconoscimento di una posizione unica della Generalitat in relazione al codice civile, alla lingua, alla cultura, ed al sistema istituzionale nel quale è organizzata la Generalitat». La formula «diritti storici», coniata nel contesto canadese allo scopo di tutelare alcune prerogative delle popolazioni native dinnanzi alla colonizzazione occidentale, come noto, è stata ripresa dalle Disposizioni aggiuntive della Costituzione del 1978, anche se la lettura pacifica di queste norme ha riferito tali diritti ai soli territori basco e navarro. Secondo l’alto tribunale solo impropriamente, rectius, non giuridicamente, è possibile intendere i diritti storici come fondamento dell’autogoverno autonomico. In questo senso, l’art. 5 EAC si riferisce a «diritti storici in un significato ben distinto da quello corrispondente ai diritti dei territori forali» previsti dalla I disposizione aggiuntiva C.E.». In definitiva, la legittimità costituzionale della disposizione in esame è stata fatta salva solo al prezzo di una interpretazione conforme che ha ridimensionato pressoché totalmente il tentativo di fondare sull’art. 5 una clausola aperta per l’acquisto di nuove competenze.
Il Tribunale costituzionale ha invece rigettato le censure mosse all’art. 2.4 EAC in base al quale «i poteri della Generalitat emanano dal popolo di Catalogna». Secondo i magistrati costituzionali, tale disposizione non intende individuare un soggetto concorrente al «popolo spagnolo», il quale ai sensi dell’art. 1.2 C.E. rimane il solo ed esclusivo titolare della sovranità nazionale. La norma statutaria, infatti, non può che essere letta congiuntamente all’art. 1 EAC, in base al quale «la Catalogna… esercita il suo autogoverno… conformemente alla Costituzione», sicché è lo stesso Statuto a muoversi nell’ordine di idee secondo il quale l’unico titolare della sovranità è il popolo spagnolo. Affermando che i poteri della Generalitat emanano dal popolo di Catalogna, l’art. 2.4 ha inteso piuttosto collocarsi sul terreno del principio democratico: se per popolo catalano deve intendersi quel gruppo di cittadini spagnoli che sono destinatari delle decisioni dei pubblici poteri previsti dallo Statuto, una elementare esigenza di legittimazione democratica impone di consentire a questi stessi destinatari di partecipare alla formazione della volontà dei poteri della Generalitat. È solo in questo senso, dunque, che può intendersi la disposizione statutaria oggetto di impugnazione.
Con una operazione interpretativa per certi aspetti analoga, il T.C. ha altresì rigettato le censure mosse agli artt. 3.1 e 7 EAC. In base all’art. 3.1 i rapporti fra la Generalitat e lo Stato sono retti «dal principio generale secondo il quale la Generalitat è Stato». Tale formula, la quale alludeva più o meno velatamente ad una sorta di natura statuale sub-federale della Comunità autonoma catalana, è apparsa tuttavia ai giudici costituzionali «indiscutibile». Secondo l’alto tribunale, lo Stato spagnolo (Stato in senso ampio) non è costituito infatti solamente dallo Stato centrale (Stato in senso stretto) ma anche dalle Comunità autonome nelle quali quest’ultimo si organizza. Quanto al concetto di «cittadini della Catalogna» (art. 7 EAC) con riferimento ai «cittadini spagnoli legalmente residenti» nella C.A., esso «non è altro che una specie del genere “cittadinanza spagnola”, alla quale non si oppone da un punto di vista ontologico».
Per una dichiarazione di incostituzionalità “secca” ha optato invece il T.C. con riferimento all’art. 6.1. EAC nella parte in cui dispone che «il catalano… è la lingua preferenziale in tutti i corpi dell’amministrazione pubblica catalana e nei mezzi di comunicazione pubblica». Secondo il Tribunale, ben può l’art. 6.1., come effettivamente dispone, stabilire che il catalano è «la lingua d’uso normale». Peraltro, il concetto di «preferenziale», a differenza di quello di normalità, proprio «per il suo tenore, trascende la mera descrizione di una realtà linguistica ed implica il primato di una lingua sull’altra nel territorio della Comunità autonoma» pregiudicando in maniera inammissibile l’equilibrio fra due lingue – il catalano ed il castigliano – «ugualmente ufficiali».
Quanto al dovere dei cittadini della C.A. di conoscere il catalano (art. 6.2 EAC), questa disposizione sarebbe radicalmente incostituzionale se tentasse di imporre un dovere della medesima natura di quello sancito dall’art. 3 C.E. con riferimento al castigliano. Tuttavia, secondo la Corte, è possibile escludere questa interpretazione riconoscendo la diversa natura del dovere imposto dall’art. 6.2. Lungi dal potere essere esteso a tutti i cittadini della C.A., il dovere di conoscere il catalano integra esclusivamente un dovere «esigibile individualmente», assumendo un ambito più circoscritto e apparendo funzionale alla realizzazione di due specifici diritti inclusi nel catalogo di cui al titolo I dello Statuto. In questo senso, il dovere ex art. 6.2 si impone innanzitutto nel campo dell’insegnamento e dell’educazione, in quanto «gli allievi hanno il diritto di ricevere l’insegnamento in catalano al livello non universitario. Hanno anche il diritto e l’obbligo di avere una conoscenza sufficiente orale e scritta del catalano e del castigliano alla fine degli studi obbligatori» (art. 35.2 EAC). In secondo luogo, il dovere di conoscere il catalano involge i rapporti con la pubblica amministrazione, dal momento che ciascun cittadino ha diritto di usare la lingua ufficiale di propria scelta nelle sue relazioni con le amministrazioni (art. 33 EAC).
Fra gli indicatori che consentono di distinguere una costituzione sub-federale da uno statuto regionale, quello dell’esistenza di una disciplina completa ed autonoma di diritti è probabilmente uno dei più importanti. Da questo punto di vista, l’incorporazione nell’EAC di un catalogo di «diritti, doveri, criteri direttivi» si è mossa nella direzione tracciata dalle costituzioni delle Province argentine o dei Länder tedeschi. E tuttavia, non sembra che la “rilettura” proposta dalla sentenza in esame abbia assecondato l’aspirazione alla “costituzionalizzazione” dello Statuto catalano.
Ad avviso dei deputati ricorrenti lo Statuto è fonte inidonea sia ad includere “diritti fondamentali” sia ad incidere su quelli, che con la medesima qualifica di “fondamentali”, venivano riconosciuti negli artt. da 15 a 29 C.E.. Rispetto tali argomenti, l’alto tribunale ha innanzitutto distinto fra “diritti fondamentali” ed “altri diritti”. Fra i primi rientrano, «in senso stretto, solo quelli che, in garanzia di libertà ed uguaglianza, vincolano tutti i legislatori, siano essi la Cortes Generales o le Assemblee legislative delle Comunità autonome, senza eccezioni. Questa funzione limitativa può essere realizzata solamente dalla norma comune e superiore a tutti i legislatori, ossia la Costituzione». Disposizioni statutarie concernenti diritti fondamentali – nel senso sopra specificato – appaiono così ammissibili solamente se meramente riproduttive delle norme costituzionali. Quanto ai diritti “non fondamentali”, il T.C., richiamando il proprio precedente sullo Statuto valenziano (STC 247/2007), ha affermato che, lungi dall’integrare dei diritti pubblici soggettivi, essi vanno considerati alla stregua di «mandati ai pubblici poteri» rientranti nel contenuto non necessario dello Statuto. Evidenti sono i punti di contatto fra la posizione espressa dal Tribunale spagnolo e l’indirizzo della Corte costituzionale italiana (sentt. 2, 372, 378 e 379 del 2004).
L’alto tribunale ha escluso inoltre che i diritti fondamentali possano essere attuati da uno Statuto. Tale funzione spetta invece alla legge organica prevista dall’art. 81 C.E. (LOPJ) e in subordine dalla legge ordinaria, anche autonomica, secondo quanto sancito dall’art. 53.1 C.E.. In questa logica, l’inidoneità dello Statuto ad attuare diritti fondamentali emerge non solo sul terreno delle fonti del diritto, ma anche e soprattutto su quello del «principio di uguaglianza in materia di diritti fondamentali».
Enunciate queste premesse, il T.C. ha respinto le censure di costituzionalità, o al massimo ha proceduto ad una interpretazione conforme, con riferimento ai singoli diritti ricompresi nel catalogo statutario. Volendo cercare, pur nella diversità delle problematiche, un filo conduttore nell’iter logico seguito dalla sentenza in ordine alle disposizioni sui diritti oggetto di impugnazione, esso può essere ravvisato nel peso «determinante» che è stato riconosciuto alla clausola contenuta nell’art. 37.4 EAC ai fini di una corretta comprensione di tutte le norme che integrano il titolo I. Ai sensi dell’art. 37.4, precisamente, «i diritti ed i principi del presente titolo non implicheranno alterazione del sistema di distribuzione delle competenze né la creazione di nuovi titoli di competenza né la modifica di quelli già esistenti. Nessuno dei provvedimenti del presente titolo sarà applicato o interpretato in forma riduttiva o limitativa dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione e dai trattati e dalle convenzioni internazionali ratificati dalla Spagna».
Pur rinviando alla versione integrale del contributo per un esame più approfondito della sentenza n. 31/2010, è possibile concludere con alcune annotazioni problematiche. Per prima cosa, benché il dispositivo indichi solamente ventisette disposizioni statutarie oggetto di una interpretazione conforme, dalla lettura della motivazione emerge un uso assai più esteso di tale tecnica, investendo così almeno un centinaio di articoli (CARLOS VIDAL). Non è casuale, in questo senso, che proprio il ricorso a quella che potrebbe essere definita come una interpretazione conforme “silenziosa”, ha costituito uno dei passaggi maggiormente approfonditi dalle opinioni particolari dei giudici dissenzienti. Scrive in particolare Rodriguez-Zapata Perez: «le leggi vengono portate dinnanzi a questo tribunale affinché ne venga controllata la propria conformità costituzionale, non certo perché vengano chiamati con altri nomi principi, diritti, competenze e potestà che il legislatore ha già creato». D’altronde – prosegue l’opinione dissenziente – «solo ad Adamo (Iddio) condusse tutti gli animali della campagna e tutti gli uccelli del cielo per vedere con quale nome li avrebbe chiamati; poiché il nome che egli avrebbe imposto ad ogni animale vivente, quello doveva essere il suo vero nome (Genesi 2, 19)».
Così, «assieme alla “Sentenza manifesta”, con la quale si rileva l’inefficacia di alcuni incisi del preambolo, si dichiara l’incostituzionalità di alcuni norme o si giunge, nel dispositivo, ad interpretazioni conformi a Costituzione… c’è una Sentenza occulta che non figura in questo dispositivo ma che manipola numerosi precetti essenziali dello Statuto». Queste interpretazioni – ribadisce Rodriguez-Zapata Perez – «operan como la “sentencia oculta” (“sentenza mascherata” o “sentenza nascosta” en expresión italiana)».
Un secondo elemento riguarda le prospettive del processo autonomico dopo la sentenza sullo Statuto catalano. È difficile in questo senso fare delle previsioni sui possibili scenari che potrà aprire la pronuncia del Tribunale costituzionale. A parte infatti le sicure ripercussioni sul dibattito politico interno e la necessità di modificare almeno una decina di leggi varate dal Parlamento catalano in attuazione dello Statuto, la cifra fondamentale che sembra dominare questo delicato passaggio politico-costituzionale sembra essere quella dell’incertezza. Nel complesso, tuttavia, un dato sembra emergere con chiarezza: se a partire dal 2004 era iniziato un lento e graduale processo di revisione della forma di Stato a costituzione invariata (I. RUGGIU), con le quattordici dichiarazioni d’incostituzionalità ma ancor più con le numerose interpretazioni conformi prospettate dalla sentenza sullo Statuto catalano, il Tribunale costituzionale sembra aver individuato le “colonne d’Ercole” al di là delle quali gli statuti di seconda generazione non potranno spingersi.
Renato Ibrido
Il contributo costituisce un estratto dell’editoriale del n. 42 di Palomar. La versione integrale è disponibile su http://www.unisi.it/dipec/palomar/palomar.html