“Divided we… stand”: il federalismo etnico della Bosnia ed Erzegovina dichiarato nuovamente in contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo
A quasi vent’anni dall’adozione dell’Annesso 4 agli Accordi di Dayton – che costituisce la peculiare e provvisoria, purtroppo solo negli intenti dei suoi redattori, “costituzione internazionale” della Bosnia ed Erzegovina – il discutibile sistema elettorale a base etnico-territoriale di questo Stato torna a far parlare di sé.
Con la sentenza nel caso Zornić c. Bosnia ed Erzegovina, del 15 luglio 2014, infatti, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato, confermando quanto già sostenuto nella celebre decisione Sejdić e Finci c. Bosnia ed Erzegovina del 2009, che le modalità di elezione del Parlamento e della Presidenza della Bosnia ed Erzegovina, ispirate al modello del federalismo etnico, sono in contrasto con il divieto di discriminazione (art. 1 del protocollo n. 12 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo) e il diritto a libere elezioni (art. 14 della Convenzione in combinato disposto con l’art. 3 del protocollo n. 1).
In effetti, sulla base dell’Annesso 4, la Bosnia ed Erzegovina è stata riconosciuta come uno Stato dotato di un’organizzazione territoriale fondata sui principi del federalismo etnico. La Bosnia, infatti, sulla base dell’applicazione di una “variante multietnica” del principio di sovranità, è composta da due Entità: la Federazione di Bosnia ed Erzegovina, a prevalenza bosgnacca e croata, e la Repubblica Srpska, a prevalenza serba. In tale contesto istituzionale, la sovranità appartiene non ad uno ma a tre “popoli costitutivi”: i bosgnacchi, i croati e i serbi.
Tutti gli organi dello Stato, così, sono composti in modo da assicurare uguale rappresentanza ai tre popoli. In particolare, il sistema che regola le elezioni della Presidenza e del Parlamento è disciplinato dagli art. IV e V dell’annesso 4 e dalla legge elettorale n. 21/2001, che ne dà attuazione. Sulla base di tali fonti, sono eleggibili in entrambe le istituzioni i candidati che dichiarino di appartenere ad uno dei tre popoli costitutivi. L’appartenenza a ciascuno di essi è esclusivamente frutto di scelta autonoma da parte dei cittadini della Bosnia ed Erzegovina, che si esprime in una dichiarazione agli uffici amministrativi. In particolare, la Camera dei Rappresentanti è composta da 28 deputati bosgnacchi e croati – eletti dai cittadini residenti nella Federazione di Bosnia ed Erzegovina – e da 15 deputati serbi, eletti dai cittadini residenti nella Repubblica Srpska. Sulla base dello stesso criterio, la Camera dei Popoli è composta da 10 deputati bosgnacchi e croati, eletti dalla Camera dei Popoli della Federazione di Bosnia ed Erzegovina e da cinque deputati serbi eletti dall’Assemblea Nazionale della Repubblica Srpska. Infine, la Presidenza della Repubblica non è affidata ad un organo monocratico, ma ad un Ufficio composto da tre membri, di etnia rispettivamente bosgnacca, serba e croata: i membri bosgnacco e croato sono eletti in via diretta dai cittadini residenti nella Federazione della Bosnia ed Erzegovina, mentre il membro serbo dai cittadini residenti nella Repubblica Srpska.
Risulta evidente che tale complesso sistema elettorale, adottato nel 1995 nell’intento di garantire stabilità politica ad un Paese appena fuoriuscito da uno dei più pesanti conflitti etnici della storia contemporanea europea, rischia tuttavia di non offrire adeguata garanzia, da una parte, ai cittadini che risiedano in una Entità nella quale il proprio popolo costitutivo di appartenenza sia una minoranza e, dall’altra, agli “Altri”, ovvero tutte le minoranze, non riconosciute in nessun popolo costitutivo, che in quel territorio statale risiedono. A questi, inoltre, devono essere aggiunti tutti coloro che non si riconoscano in nessuno dei popoli costitutivi, ma preferiscono considerarsi “cittadini bosniaci” (si tratta peraltro di casi tutt’altro che residuali, considerando la frequenza di matrimoni misti).
Proprio la violazione del principio di non discriminazione e del diritto di voto degli “Altri” ha giustificato la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo, nel caso Sejdić e Finci c. Bosnia ed Erzegovina, con la quale è stata dichiarata l’incompatibilità del sistema elettorale del Parlamento e della Presidenza con la Convenzione europea,a fronte dell’inerzia del Legislatore statale – ordinario e costituzionale – nell’adozione di una riforma dell’intero sistema costituzionale della Bosnia ed Erzegovina.
In effetti, numerosi progetti di revisione costituzionale, volti a riformare, in primo luogo, la forma di stato del federalismo etnico, pur discussi dalle istituzioni bosniache con il sostegno delle organizzazioni sovrastatali, non hanno mai dato luogo a risultati concreti. E a nulla è valso neppure il monito che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha rivolto al Legislatore bosniaco, nel caso Sejdić e Finci c. Bosnia ed Erzegovina. A cinque anni di distanza, quella storica pronuncia non ha mai trovato esecuzione, nonostante le sollecitazioni provenienti dalla comunità internazionale e soprattutto dalle istituzioni europee, che hanno minacciato la sospensione del processo di adesione della Bosnia all’Unione nel caso di inadempienza (come la Commissione europea, nelle Joint Conclusions from the High Level Dialogue on the Accession Process with Bosnia and Herzegovina and the Road Map for BiH´s EU membership application, del 2012). In questo modo, sia le elezioni del 2010 che quelle appena concluse del 2014 si sono svolte sulla base del discutibile sistema elettorale fondato sul federalismo etnico.
In tale contesto, la decisione adottata a luglio di quest’anno dalla Corte europea nel caso Zornić c. Bosnia ed Erzegovina non stupisce né introduce elementi di sostanziale novità rispetto a quanto già affermato cinque anni fa.
In questa occasione, il ricorso è stato proposto dalla signora Azra Zornić, che lamentava la violazione del suo diritto di voto passivo alla Camera dei Popoli e alla Presidenza della Bosnia ed Erzegovina, in quanto la stessa non riteneva di appartenere a nessuno dei popoli costitutivi, dichiarandosi esclusivamente cittadina bosniaca. Come anticipato, nel sistema costituzionale posto in essere nel 1995 con gli Accordi di Dayton, paradossalmente, nessun diritto di cittadinanza veniva riconosciuto al “popolo bosniaco”, la cui esistenza, invece, era del tutto ignorata dai documenti costituzionali. Per queste ragioni, la signora Zornić si vedeva negato il diritto a candidarsi per tali istituzioni.
E la Corte europea, richiamando le motivazioni già espresse nel caso Sejdić e Finci, ha così dichiarato che l’adozione delle disposizioni costituzionali impugnate ha rappresentato una misura necessaria per garantire la pace nel contesto di una fragilissima tregua, negoziata allo scopo di porre fine ad un brutale conflitto, segnato dalle terribili esperienze del genocidio e della pulizia etnica. Tuttavia, come sottolinea la Corte, a diciannove anni dalla fine della guerra, non vi è più alcuna ragione per mantenere in vigore tali disposizioni, discutibili sul piano del rispetto del principio di non discriminazione e del diritto di voto, tanto attivo quanto passivo. Per questo, la Corte invita nuovamente il Legislatore bosniaco ad istituire, senza ulteriore ritardo, un sistema politico che garantisca ad ogni cittadino il diritto a concorrere alle elezioni per la Presidenza della Repubblica e per la Camera dei Popoli, senza alcuna discriminazione basata sull’affiliazione etnica e che non escluda né le minoranze, né i cittadini della Bosnia ed Erzegovina.
Peraltro, la Corte sostiene che la mancata riforma del sistema costituzionale ed elettorale non implica solo la violazione del principio di discriminazione e del diritto di voto, come già affermato in Sejdić e Finci, ma, proprio per questo, anche dell’art. 46 della Convenzione, secondo il quale gli Stati contraenti sono tenuti ad un obbligo di esecuzione delle decisioni della Corte in tutti i casi in cui essi siano parti. Infatti, come ricorda la Corte, richiamando una giurisprudenza ormai consolidata, l’art. 46 della Convenzione, interpretato alla luce dell’art. 1, impone allo Stato convenuto l’obbligo giuridico di adottare, sotto la supervisione del Comitato dei Ministri, misure generali e/o individuali appropriate, a garanzia del diritto del ricorrente ritenuto violato. In effetti, si legge nella sentenza, «la violazione (degli articoli della Convenzione) nel caso di specie costituisce la conseguenza diretta del fallimento delle autorità dello Stato convenuto di introdurre le misure volte ad eseguire la sentenza nel caso Sejdić c. Finci».
Il caso Zornić, dunque, conferma, ancora una volta, come la strada per il consolidamento della democrazia costituzionale sia ancora lunga e tortuosa per la Bosnia. In effetti, quella che potrebbe apparire come una “semplice” riforma costituzionale, richiede, in realtà, l’avvio di un vero e proprio processo costituente, nel quale si esprima, definitivamente, la volontà di un popolo che è sopravvissuto ad un atroce conflitto etnico. Ma la stessa adozione di una Costituzione, che modifichi gli assetti emergenziali introdotti con gli Accordi di Dayton, si presenta come un percorso complesso e ricco di ostacoli. Proprio il federalismo etnico – al quale, in ogni caso, non può essere negato il merito di aver garantito diciannove anni di pace – ha tuttavia prodotto effetti distorti difficili da correggere. L’idea di avviare la transizione della Bosnia ed Erzegovina attraverso la forma di stato federale e la democrazia consociativa, in effetti, ha favorito la progressiva esaltazione dei nazionalismi locali, che, pur non essendo mai degenerata in nuovi conflitti, ha prodotto un sistema costituzionale incapace di evolversi, per effetto dell’abuso degli stessi strumenti volti a garantire la pacifica convivenza tra nazioni diverse, tra i quali, in primo luogo, il potere di veto nel procedimento legislativo. Amare osservazioni, che, alle soglie del ventennale degli Accordi di Dayton – e nel contesto di un preoccupante revival nazionalistico in tutta Europa – impongono una riflessione sulle transizioni democratiche e costituzionali guidate dalla comunità internazionale, sulla soluzione dell’“esportazione” di modelli costituzionali nel corso di tali processi, e sulle responsabilità dirette delle istituzioni sovrastatali non solo nel momento dell’individuazione di soluzioni di emergenza in contesti di crisi politica e costituzionale, ma anche nel processo di adattamento e riforma di quelle soluzioni, perché queste ultime producano un effettivo, e duraturo, consolidamento della democrazia costituzionale.