Diritto umano al clima e innaturalità del bilanciamento in situazione di “minaccia esistenziale”

Una recente decisione della Corte Suprema dello Stato delle Hawaii (Scot-22-0000418 Appeal Docket No. 2017-0122 march 13, 2023, consultabile qui) offre spunti interessanti di riflessione sul tema dell’esistenza o meno di un diritto umano al clima stabile e sicuro e sulla sua bilanciabilità con altri diritti o interessi; questione, com’è noto, dibattuta anche in Italia (cfr., per tutti, i diversi studi di A. Pisanò, a partire dalla monografia Diritto al clima).
Il caso posto all’attenzione dei giudici hawaiani riguardava un progetto di impianto a biomassa, respinto dall’autorità amministrativa competente (la Public Utilities Commission) per il fatto di non garantire la neutralità climatica dell’opera (ovvero lo stato di equilibrio, all’interno di tutto il processo produttivo, tra emissioni di gas serra e loro rimozione) e dunque di non coniugare la transizione “energetica” come effettiva transizione “ecologica” per la stabilizzazione del sistema climatico locale.
I giudici di appello hanno confermato la legittimità della decisione, non solo richiamando la Costituzione dello Stato, il cui art. XI, Sezione 1, dispone che i poteri pubblici custodiscono e proteggono tutte le risorse naturali dell’isola a beneficio della presente e delle future generazioni, ma escludendo anche qualsiasi bilanciamento assiologico o economico tra costi e benefici dell’iniziativa proposta, a favore della priorità da accordate alla dipendenza biofisica di ciascun abitante isolano dalla stabilità del sistema climatico locale, unico bene giuridico da tutelare senza compromessi.
In questo modo, il diritto a un ambiente salubre, scandito in Costituzione alla Sezione 9 del medesimo articolo, è stato esplicitato, con opinione concorrente del Justice Michael Wilson, come diritto di ciascuno a un «sistema climatico in grado di sostenere la vita» (right to a life-sustaining climate system), prevalente su (e non bilanciabile con) qualsiasi altro diritto o interesse in ragione della natura di «minaccia esistenziale» dell’emergenza climatica, riconosciuta dalla scienza e dichiarata pure dallo Stato hawaiano.
È la prima volta che un giudice, chiamato a decidere su questioni di transizione “energetica” ed “ecologica”, si esprime con un lessico così netto sulla questione del bilanciamento di diritti e interessi rispetto al carattere esistenziale della minaccia dell’emergenza climatica.
Ma che cosa significano «sistema climatico in grado di sostenere la vita» e «minaccia esistenziale»?
L’interrogativo interessa anche noi europei, perché il termine “minaccia esistenziale” ricorre in tutti i documenti fondativi del Green Deal della UE nella lotta appunto all’emergenza climatica (per una ricostruzione di questa ricorrenza, si v. M. Monteduro, La tutela della vita come matrice ordinamentale della tutela dell’ambiente).
Quest’ultima formula linguistica non è sinonimo di rischio o di pericolo: significa, purtroppo, Endgame, partita finale tra condizioni della vita umana e condizioni geofisiche e biofisiche del sistema climatico, da cui la vita umana dipende (si v., in merito, L. Kemp et al., Climate Endgame. Exploring Catastrophic Climate Change Scenarios).
Le scienze del sistema terrestre (dalla biofisica all’epigenetica all’ecologia ecc…) lo hanno evidenziato su due fronti: in primo luogo, rivoluzionando il paradigma epistemico della salute umana con l’approccio di analisi “One Health-Planetary Health” (la salute umana è un tutt’uno con gli equilibri della biosfera e delle altre sfere terrestri), accolto ora non solo dall’ONU (con la c.d. “Tripartite+“, le iniziative dell’UNFCCC – la Convenzione quadro sul cambiamento climatico – e le ricognizioni dell’IPCC – il Panel intergovernativo sul cambiamento climatico), ma anche dalla UE (con il Planetary Health European Hub) e dall’Italia (con il c.d. SNPS); in secondo luogo, iniziando a studiare i c.d. “Tipping Point esistenziali” dell’essere umano.
Quest’ultimo campo apre alla comprensione del costrutto «sistema climatico in grado di sostenere la vita».
La letteratura scientifica sta constatando sempre più dettagliatamente come l’accelerazione dell’emergenza climatica incida non solo sul piano geofisico (con i “Tipping Point” del sistema climatico, ossia la destabilizzazione irrimediabile delle fondamentali dinamiche che supportano i processi del pianeta, come le correnti marine, i cicli del carbonio, i flussi di energia e materia ecc…), ma pure su quello biofisico (i “Tipping Point” appunto  “esistenziali” che colpiscono la vita umana nella qualità dei suoi contenuti di sopravvivenza o di loro patogenesi).
Purtroppo, il primo “Tipping Point esistenziale” è stato ufficializzato di recente dall’ONU, in occasione della UN 2023 Water Conference: nel 2030 (ossia fra soli 7 anni), la domanda di acqua potabile supererà del 40% l’offerta di risorse idriche potabili naturali, compromesse dall’emergenza climatica. Questa forbice è una media, il che significa che è ubiqua nel suo manifestarsi ed è destinata solo ad aumentare: da qui il “Tipping Point”, il non ritorno.
I “Tipping Point esistenziali”, quindi, descrivono una regressione irreversibile della condizione quotidiana di esistenza di ciascun singolo individuo umano, indipendentemente se ricco o povero, se del nord o sud del mondo. In altre parole, tracciano i percorsi di perdita di qualità (e dignità) quotidiana della vita a causa del degrado altrettanto irreversibile del sistema climatico.
Molte di queste regressioni sono ormai prevedibili perché certe nella termodinamica del pianeta e, sciaguratamente, alcune di esse risultano ormai inevitabili (come nel caso dell’acqua potabile naturale). Sulla scorta di simili prospettive, confermate anche dal recente “Synthesis Report Climate Change 2023” dell’IPCC, si parla anche di “rischi esistenziali” e non più soltanto “sistemici”: rischi personali di ciascuno. The Existential Risk Space of Climate Change è il primo studio che prova a misurarne le manifestazioni spaziali. L’Università di Cambridge è la prima ad aver istituito un centro specializzato in questo genere di ricerche: il Center for the Study of Existential Risk.
Anche nella letteratura giuridica alcuni, pochi, se ne stanno rendendo conto, evocando la “rottura dell’Antropocene” per spiegare che è finita l’era della pressione umana sulla Terra e della “società del rischio”, perché saranno i “Tipping Point” del sistema climatico a premere sempre più frequentemente e pesantemente sugli esseri umani, sottoponendoli non più al “rischio” bensì alla irreversibilità dei “Tipping” della qualità della loro vita (R.E. Kim, Taming Gaia 2.0: Earth System Law in the Ruptured Anthropocene).
Orbene, la notorietà del bad-to-worst scenario ha spinto per la rivendicazione del diritto umano a un sistema climatico stabilizzato e sicuro in quanto situazione giuridica specifica non negoziabile per evitare appunto la regressione (si v., per esempio, la Declaration del Global Network for Human Rights and the Environment). Secondo alcuni, un così congegnato ordito disvelerebbe il carattere “adespota” o non esclusivamente individuale della pretesa (cfr., per esempio, S. Vincre, A. Henke, in One Health. Dal paradigma alle implicazioni giuridiche). L’evidenza scientifica sui “Tipping Point esistenziali”, tuttavia, consegna conclusioni opposte. Ci dice che tali “Tipping”, in quanto biofisici e non solo geofisici, sono propriamente individuali e non affatto indistintamente collettivi, colpendo, la regressione, ciascun singolo soggetto nella misura del suo incomparabile ed esclusivo metabolismo di materia ed energia con il sistema climatico circostante (si pensi, per esempio, al c.d. “Heat Index” che quantifica la capacità individuale di sopportazione degli stress climatici: cfr. L.R. Vargas Zappetello et al., Probabilistic Projections of Increased Heat Stress Driven by Climate Change). Detto in termini più semplici, i “Tipping Point esistenziali” riguardano tutti in modo irreversibile (per es. tutti noi avremo meno acqua potabile), ma il grado di gravità di tale regressione metabolica resta individuale, esattamente come avviene per l’altrettanto individuale salute del proprio corpo, oggetto del già riconosciuto “One Health-Planetary Health Approach”.
Ne consegue che negare dignità esistenziale al diritto umano al clima consumerebbe un’euristica tanto antiscientifica quanto contra naturam.
A questa euristica si sono opposti i giudici hawaiani, prendendo atto della impossibilità del bilanciamento tra questa esigenza umana al «sistema climatico in grado di sostenere la vita» e tutto il resto (inteso come altre pretese umane, altri interessi, altri valori, altri beni, altri diritti e così discorrendo nel profluvio delle invenzioni umane). D’altro canto, “tutto il resto” (le invenzioni umane, assiologiche o economiche che siano) dipende biofisicamente dal sistema climatico (che non è un’invenzione umana); di riflesso, non risulta esistenzialmente autonomo e separato da esso. Assumerne la bilanciabilità consumerebbe il vizio logico della c.d. implicazione inversa: una equivalenza tra fattori (stabilità del sistema climatico e “tutto il resto”) oggettivamente falsa riguardo all’ordine naturale della Terra.
Condurrebbe al paradosso del “suicidio” del bilanciamento stesso (G. Campeggio, L’emergenza climatica tra “sfera dell’insindacabile” e istituzioni suicide), garantendo magari la transizione “energetica”, ma non certo la transizione “ecologica”.