I rapporti tra Corti in uno scenario ancora più complesso ed articolato dopo Lisbona
Difficile immaginare un momento più propizio per avviare un dibattito in rete sia sulle peculirità e trasformazioni che caratterizzano i rapporti tra le Corti in un quadro ordinamentale sempre più articolato com’è quello rappresentato dallo spazio giuridico europeo relativo alla tutela dei diritti fondamentali, sia, prima ancora, sulla metodologia più adeguata per accostarsi ad un’indagine di una “materia” che, per sua natura, si presenta fluida e quasi liquida.
L’entrata in vigore del Trattato di Lisbona sembra avere aggiunto problematicità, e quindi interesse, alle già complesse dinamiche interordinamentali che collegano Strasburgo, Lussemburgo ed i giudici costituzionali e comuni degli Stati membri.
Per quanto riguarda Lussemburgo, il carattere vincolante finalmente acquisito dalla Carta di Nizza sembra, come era pronosticabile, avere ulteriormente incoraggiato la Corte a vestirsi del ruolo di giudice dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Gli sviluppi derivanti dal consolidamento di un tale ruolo e sono già interessanti, anche se di natua ambivalente. La Carta è servita recentemente ai giudici europei, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, sia quale base di legittimazione al tentativo di consolidare in Kücükdeveci il principio già espresso, seppur in termini non univoci, in Mangold relativo all’ efficacia diretta orizzontale di una direttiva, in forza del suo farsi portatrice di un principio generale di diritto europeo, sia per fondare un’interpretazione, ancor più recentemente, molto garantista ed assai estensiva in tema di ricongiungimento familiare.
Quello che è certo è che, trovandosi finalmente la Corte di giustizia un parametro normativo superprimario in tema di diritti fondamentali ( di equivalente forza para-costituzionale rispetto a quello presente fin dal 1957) relativo alla tutela delle libertà economiche fondamentali, i primi non saranno più costretti ad essere bilanciati con le seconde, così come inevitabilmente è successo nel caso di Omega e Dynamic Medien, soltanto nella fase dell’eventuale giustificazione alla già accertata restrizione della libertà fondamentale, ma detto bilanciamento potrà finalmente avvenire ad uno stadio anteriore, in cui l’eventuale restrizione alle libertà fondamentali potrebbe non essere neanche presa in considerazione, in quanto ad essa potrebbe essere anteposta già ab origine la tutela prioritaria dell’identità costituzionale degli Stati membri.
D’altronde è lo stesso Trattato di Lisbona che impone un vincolo in questo senso in capo all’Unione europea, e il Tribunale costituzionale tedesco non ha scelto la via più soft per farlo presente.
A Strasburgo sembra che il nuovo Trattato e la prospettiva dell’adesione alla CEDU a cui è adesso obbligata l’Unione europea, abbiano, se possibile, ulteriormente amplificato la self perception della Corte EDU quale Corte costituzionale paneuropea dei diritti fondamentali, con una conseguente accelerazione, da parte della stessa Corte, lungo il percorso che l’ha portata, negli ultimi tempi, a ridurre drasticamente il margine di apprezzamento in capo agli Stati contraenti ed ad amplificare la sua indifferenza per l’eventuale impatto della sua giurisprudenza sulla struttura costituzionale degli stessi Stati. Basti vedere, in relazione a quest’ultimo profilo, la decisione del 22 dicembre 2009 in cui i giudici di Strasburgo non hanno avuto alcuna difficoltà a dichiarare, in contrasto con la Convenzione alcune disposizioni della Carta costituzionale della Bosnia Erzegovina. In relazione al primo profilo evocato, accanto alla notissima presa di posizione della Corte EDU rispetto all’obbligo di esposizione del crocifisso nelle scuole in Italia, una ancor più recente espressione della progressiva riduzione, nella giurisprudenza di Strasburgo, del margine di apprezzamento in capo agli Stati membri la si trova in una pronuncia dello scorso febbraio in cui è stata condannata la Turchia per violazione dell’art. 10 della CEDU perché un editore che aveva curato la traduzione in lingua turca del classico di Apollinaire “le undicimila vergini” si era visto comminare una sanzione penale per diffusione di materiale osceno a mezzo stampa e sequestrare tutte le copie del volume. Non stupisce, evidentemente, la conclusione, abbastanza pronosticabile della Corte europea dei diritti dell’uomo relativa all’accertamento della violazione dalla libertà di espressione. Sorprende invece il passaggio in cui la stessa Corte, rispondendo al Governo turco, che aveva sottolineato come la nozione di morale pubblica e le sue modalità di tutela variassero sensibilmente tra i vari Paesi del Consiglio d’Europa, affermava candidamente «que la portée de cette marge d’appréciation, en d’autres termes, la reconnaissance accordée aux singularités culturelles, historiques et religieuses des pays membres du Conseil de l’Europe, ne saurait aller jusqu’à empêcher l’accès du public d’une langue donnée, en l’occurrence le turc, à une œuvre figurant dans le patrimoine littéraire européen». La domanda nasce spontanea: siamo sicuri che spetti alla Corte di Strasburgo decidere se e quando un’opera artistica possa considerarsi inclusa all’ interno del patrimonio letterario europeo» e quindi l’interesse ad averne accesso in una determinata lingua debba essere considerato prevalente rispetto alle decisioni di uno Stato circa le modalità di protezione della morale pubblica nel proprio ordinamento?
In Italia, la Corte costituzionale ha voluto recentemente ricordare, nelle decisioni nn 311 e 317 del 2009, in prossimità dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, in evidente reazione alla nuova aggressività interordinamentale della giurisprudenza di Strasburgo, la better position degli Stati e la best position della stessa Corte nel valutare le peculiarità del contesto “locale” nell’opera di bilanciamento tra diritti fondamentali.
Non per questo ha però la Consulta fatto alcuna marcia indietro, tutt’altro, rispetto al vincolo interpretativo che, a suo dire, pone, in capo a tutti i giudici nazionali la giurisprudenza di Strasburgo, fino ad obbligarci a domandarci se il vincolo alla legge cui è sottoposto, ai sensi dell’art. 101, c.2, della Costituzione, il giudice in Italia debba ora leggersi in senso ampio, quale sottoposizione “al diritto”, specie se esso è di natura sovranazionale.
D’altronde, l’entrata in vigore della Carta non ha fatto attendere molto una presa di posizione della Corte costituzionale sul punto, che sembra confermare il suo corso di maggiore apertura alle ragioni del diritto europeo, inaugurato con l’attivazione dello strumento di dialogo istituzionale con la Corte di giustizia e con la disponibilità mostrata, in quella stessa occasione, a rivedere la visione rigidamente dualistica che in Granital caratterizzava i rapporti tra ordinamento interno ed ordinamento europeo, qualificando quest’ultimo come «autonomo, integrato e coordinato» con il primo. Nella decisione n. 20 del 2008 è proprio la Carta di Nizza, ed in particolar il suo art. 49 a costituire la base legittimante per valorizzare tale integrazione ordinamentale sotto il profilo particolare della tutela condivisa del principio del favor rei.
Ed i giudici comuni? Uno sguardo alla più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato evidenza orientamenti per molti versi divergenti. La Cassazione, che sembra soffrire non poco la rigidità del vincolo interpretativo alla giurisprudenza di Strasburgo emergente dalla giurisprudenza costituzionale, ha deciso qualche tempo fa di applicare direttamente la dottrina del margine di apprezzamento e di non sollevare la questione di costituzionalità alla Corte costituzionale per non mettere quest’ultima nella “imbarazzante” alternativa di dichiarare in contrasto la legge Pinto con la CEDU oppure, “peggio ancora”, dichiarare quest’ultima in contrasto con la Costituzione.
Il Consiglio di Stato, in una recentissima pronuncia, ha confermato invece un atteggiamento, più che di sofferenza, di distanza dalle questioni relative ai rapporti tra Carte e Corti in Europa. La stessa distanza che qualche tempo fa lo aveva portato a confondere la Carta di Nizza con il Trattato di Nizza. In questo caso, invece, in una decisione di rilevanza puramente interna, affermava che « i principi sulla effettività della tutela giurisdizionale vanno desunti non soltanto dall’art. 24 della Costituzione ma anche dagli articolo 6 e 13 della CEDU» che, a detta del Consiglio stesso, «sono divenuti direttamente applicabili nel sistema nazionale, a seguito della modifica dell’art. 6 del Trattato, disposta dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre 2009».
Ci vorrà un po’ di tempo e fantasia per comprendere appieno il senso di questa affermazione, specialmente con riferimento al discrimen temporale identificato nell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Quello che è certo è che se il pericolo che ha portato le decisioni 348 e 349 del 2007 ad insistere quasi ossessivamente sulle differenze strutturali e quindi di trattamento “giudiziale” tra diritto europeo e diritto CEDU era quello della sovrapposizione tra i due ambiti di applicazione, con la conseguente indebita comunitarizzazione del diritto CEDU, tale pericolo non sembra essere stato del tutto fugato se, in una fattispecie di rilevanza esclusivamente interna, si è tirato in ballo il diritto europeo al fine di riconoscere applicazione diretta a delle disposizioni della CEDU.
Come si vede, la moltiplicazione tra incroci pericolosi tra corti, carte, e sistemi giuridici, in uno scenario europeo sempre più articolato di protezione multilivello dei diritti fondamentali, invita a lasciare gli approdi certi ma spesso insoddisfacenti cui si perviene attraverso l’applicazione della teoria delle fonti, a favore del tentativo di risolvere i conflitti interordinamentali in materia di diritti fondamentali facendo leva su criteri di matrice pluralistica, che si fondino sulla valorizzazione delle potenzialità, in questa nuova stagione del costituzionalismo cooperativo in Europa più che mai irrinunciabili, offerte dall’applicazione teoria dell’interpretazione e dalla logica di bilanciamenti caso per caso che evidentemente questa si porta con sè.
Auguri a tutti per il primo post! Premetto che non mi colloco tra gli euroscettici, nè tra i nostalgici dello Stato-Nazione. Tutt’altro. Mi pare tuttavia, che la sentenza del Consiglio di Stato riportata testimoni del “rischio” sotteso alla acquisizione di un’efficacia diretta della Cedu (come interpretata dalla giurisprudenza di Strasburgo), cui la Corte costituzionale, con le sentenze del 2007, aveva opposto la necessità di un proprio “filtro”: come non tenere conto del fatto che manca, nell’ordinamento della Convenzione, un meccanismo affine a quello del rinvio pregiudiziale, che consenta al giudice comune di non sobbarcarsi l’intero onere di interpretazione della normativa internazionale? O della circostanza che le sentenze della Corte EDU non prevedono una traduzione ufficiale nelle lingue nazionali, costringendo il giudice comune a operazioni di traduzione che – quando sono in gioco interessi molto ingenti – trapassano dal piano meramente letterario a quello materiale? Si prospetta, mi pare, il rischio che presagiva Cesare Pinelli nella sua nota adesiva alle sentenze del 2007 (su Giur. cost., 2007): la raffigurazione ideale di un giudice Pangloss (rivisitazione in chiave “umanistica” del giudice Hercules di dworkiniana memoria…), capace di tutto comprendere, tutto sapere, tutto bilanciare. Una visione molto idealizzata, che nel rinuciare a meccanismi giurisprudenziali gerarchizzati, può comportare il rischio di sacrificare le domande di giustizia.
scusate ma alla fine si pò dire che il principio del favor rei è un principio costituzionale o di rango supremo?in base a quali articoli della cedu lo potremmo sostenere?grazie