Deborah Scolart, L’Islam, il reato, la pena. Dal fiqh alla codificazione del diritto penale, Roma, Istituto per l’Oriente C.A. Nallino, 2013, pp. 424
Si tratta di un libro che, al di là del suo intrinseco valore scientifico – di utilità “pratica” a fini di studio e ricerca – serve a dipanare tutta una serie di dubbi e (sovente anche di) preconcetti su quella branca del diritto islamico, che è l’ambito penalistico, intorno a cui maggiormente si addensano le nubi dell’ignoranza e del pregiudizio, stante anche la scarsezza di lavori sul tema, soprattutto in lingua italiana. Il libro, inoltre, è corredato da un amplissimo apparato di note a piè di pagina che costituisce un vero e proprio “testo parallelo”, la cui estensione rappresenta una miniera di dati importante per “illuminare” e allargare l’orizzonte su quanto narrato nel corpo del testo. Si tratta, perciò, di un opera che può essere di grande ausilio anche per chi non studia (da specialista) il diritto (penale) islamico ma si interessa in generale del rapporto tra diritto e religione (soprattutto in chiave comparatistica) e che guarda con attenzione (ma anche solo curiosità) alle costruzioni razionali “differenti” da quella occidentale. Una strada obbligata, quest’ultima, se non ci si vuole precludere la possibilità di comprendere ciò che è diverso.
Patrick Glenn, in una delle sue opere più importanti (Tradizioni giuridiche nel mondo. La sostenibilità delle differenze, Bologna, 2010, con la bella Presentazione di Sergio Ferlito, che ha curato pure la traduzione in italiano) non solo puntualizza che: «II diritto islamico è una tradizione giuridica altamente sviluppata e complessa» (p. 321), ma aggiunge pure che: «Il diritto penale islamico è rinomato più per le sanzioni che per il contenuto» (p. 319), a dimostrazione di quanto sia assolutamente necessario avere sempre chiaro il contesto complessivo nel quale si situa un singolo argomento e (come sottolinea Ferlito), «al tutto che illumina le parti e dà loro un senso». E’ una materia, perciò, quella penale, da un lato, poco approfondita dagli studiosi di tutte le epoche, ma anche altrettanto scarsamente analizzata dallo stesso Profeta, nonché sviluppatasi solo nei secoli successivi alla Rivelazione attraverso l’attività della dottrina, stante la laconicità delle fonti – da qui la conservazione di alcune regole pre-islamiche (su cui l’Autrice pone massima attenzione) opportunamente modificate e adattate ai principi della nuova religione.
Detto questo, c’è un primo importante aspetto che emerge dal libro in questione e che a mio avviso merita di essere sottolineato. Mi riferisco al fatto che, in materia penale islamica un peso enorme riveste la collettività, ritenuta responsabile nella condizione di colpevolezza del reo, proprio perché questi, contando sull’appoggio (e sulla protezione) della Comunità non è stato incoraggiato (rectius: ben guidato) a praticare il bene. Il diritto islamico, nella sua complessità, si regge pertanto solo sulla Comunità islamica; non esiste nella tradizione giuridica islamica un termine corrispondente a diritto in senso soggettivo – anche se questo non esclude l’importanza dell’individuo nella tradizione – nel senso che non c’è un legislatore islamico (sebbene adesso ci siano legislatori statali negli ordinamenti islamici) né una Chiesa istituzionalizzata e gerarchica: tutta l’autorità legale è conferita alla Comunità (privata o religiosa).
Un altro aspetto meritevole di essere richiamato, consiste nel fatto che, al di fuori dell’Islam, è assai frequente sentir dire qualcosa a qualcuno su singoli argomenti di diritto islamico – basti pensare alle tante questioni attinenti certi problemi pratici della libertà religiosa e della laicità in Europa, come: abbigliamento, alimentazione, istruzione, simboli, etc. Quante volte capita di imbattersi (soprattutto sui giornali e in televisione) nel pensiero di “esperti di cose islamiche” (soprattutto politici, con tutto quanto ne deriva in termini di proposte legislative finalizzate a disciplinare aspetti inerenti diritti e bisogni – non solo – a carattere religioso). Ebbene, in ambito penale è noto il fatto (“tutti sanno”) che ci sia un versetto del Corano secondo cui: “Quanto al ladro, sia uomo che donna, tagliategli le mani” (versetto 5,38 del Corano). Ma si tratta di frammenti che spesso, come nel caso della materia penalistica, sono visti da un’altra tradizione e spesso appaiono perciò immediatamente scioccanti. Da qui il dubbio sulla sostenibilità delle differenze. Ma, come scrive Ferlito nella presentazione al libro di Glenn: «I concetti [presenti all’interno delle grandi tradizioni giuridiche, islamica inclusa] possono (forse) essere definiti con qualche parvenza di rigore solo nel loro nucleo centrale (chi è mai riuscito a definire in termini esaustivi il diritto o la religione?); ma mano che ci allontaniamo da tale nucleo e ci spostiamo verso i suoi margini, le categorie concettuali diventano più incerte e sfumate, i problemi più “pelosi”, e le differenze si convertono più in una questione di gradazione che di confini netti. [Per cui] Qualsiasi sforzo di separazione, classificazione, definizione e astrazione concettuale si rivela almeno in parte arbitrario e artificiale» (p. XX).
Concretamente, un aspetto che colpisce il non specialista del diritto penale islamico è la contrapposizione tra la professata solidarietà tra credenti (che sorregge la tesi dell’abbandono di tutte le forme di crudeltà non necessarie) e l’efferatezza intrinseca a certe regole di giustizia connotate in senso religioso. Ma la maggior parte del diritto islamico non è così sconvolgente, mentre le parti che colpiscono di più nella concreta loro attuazione (apprendiamo anche dal libro della Scolart) sono spesso sottoposte (in contesti geografici, politico-sociali e tempi diversi) ad ogni possibile tipo di eccezione e restrizioni. Per cui, quali effetti di carattere sistematico produce l’interpretazione? E poi – sulla scorta di quanto scrive Glenn – Il cambiamento [come processo di rinnovamento] può ancora avvenire? Può realizzarsi come risultato [dell’interazione tra] differen[ti] opinioni che si riflette nelle relazioni fra le scuole e nelle diverse concezioni dell’islam? (p. 334).
Particolarmente avvincente risulta poi la seconda parte del lavoro della Scolart, quella cioè dedicata ai percorsi di codificazione. A partire dall’Impero Ottomano dove, per la prima volta, si assiste alla messa in pratica (da parte statuale) del proposito di conciliare le disposizioni della sharia con quelle del diritto moderno di matrice laica ed europea. Ampia attenzione, per esempio, viene indirizzata alle riforme kemaliste volte alla totale laicizzazione dello Stato con la contestuale abolizione della sharia dall’ambito legislativo (W.B. Hallaq, Introduzione al diritto islamico, Bologna, 2013, pp. 113, ss.). Qui, il modello di riferimento in materia penale è stato (ci spiega l’Autrice) il codice Zanardelli (1889). Non mancano però indicazioni anche sul “presente” della Turchia in una prospettiva di adesione all’Ue (il nuovo codice penale è del 2005). Altrove, invece, come in Libano (1944) e in Egitto (1937) è stato il Codice Rocco a destare interesse e a fungere da termine di orientamento, stante «l’esattezza dei suoi termini, delle sue definizioni e delle subdivisioni» (p. 246). In Egitto, in particolare, la legislazione penale si presenta in massima parte distante dalla tradizione penale sciaraitica, ma non mancano disposizioni di contenuto religioso (es. l’art. 7 c.p., in base al quale, l’applicazione del codice «non deve violare alcun diritto individuale stabilito dalla sharia» – p. 266).
Di grande interesse è anche il caso libico dove l’apporto italiano si è materialmente realizzato grazie alla partecipazione di un magistrato (Vito Gianturco) alla stesura del codice penale del 1953. Prima della presa del potere da parte di Geddafi (1969) era stata introdotta la separazione tra tribunali laici e religiosi. Successivamente si ritenne, da parte di un Consiglio della Rivoluzione, che fosse illegale la distinzione degli ordini civile e religioso. Così, nel 1971 la Libia è diventato il primo paese islamico a codificare il diritto penale sciaraitico ricorrendo alle moderne tecniche legislative: rigidità formale da un lato, eccezioni e limitazioni dall’altro; tant’è che l’Autrice rimarca che la pena dell’amputazione della mano per furto non è stata mai applicata. Una legge del 1994 ha introdotto in seguito il taglione e il prezzo del sangue in quell’ordinamento, ma non risulta che sino ad oggi siano state pronunciate sentenze di condanna al taglione.
Esempio di massima islamizzazione del diritto penale è poi l’Iran di Khomeini (dopo gli eventi rivoluzionari del 1978-79 e l’entrata in vigore della nuova Costituzione). La peculiarità dell’Iran «consiste nell’essere l’unico Stato islamico moderno ad aver consegnato il potere legislativo e politico al clero» (p. 329) e alla Guida Suprema che, in base a quanto stabilito dall’art. 110 della Cost., si pone al di sopra e al di fuori del sistema istituzionale. E’ interessante la parte dedicata all’Iran e al codice penale in particolare, in quanto, dall’analisi che l’Autrice fa del testo approvato nel 1991 (e attualmente in vigore) emerge chiaramente la dimensione pubblica totalizzante del peccato. E siccome, «nessuno è in grado di dire cosa sia, o cosa non sia un peccato anche a causa della sovrapposizione di numerose fatawà in materia, il risultato è che la persona non è in grado di prevedere, al momento di compiere un’azione, se essa sarà considerata lecita dall’ordinamento o invece attratta nell’orbita del diritto penale semplicemente attraverso la sua qualificazione in termini di peccato» (p. 335).
Singolare, e di grande interesse, stante la vicinanza all’Italia, è il caso albanese, un paese che diventa a maggioranza musulmana solo nel XVII e che, per motivi ben noti (prima l’occupazione italiana, poi la dittatura comunista), solo a partire dal 1990 registra una ritrovata presenza della religione sulla scena pubblica. Qui, la particolarità è costituita dalla refrattarietà da parte degli albanesi verso il complesso delle regole giuridiche sciaraitiche, sovrastate dai celebri kanun (raccolte di diritto consuetudinario esprimenti il sistema di valori che innerva l’identità albanese). Un sistema penale consuetudinario, dunque, che: «ruota attorno al concetto di onore, interpretato in maniera assai rigida e vincolante con la conseguenza che moltissime condotte finiscono per essere considerate lesive dell’onore e, dunque, meritevoli del sangue». Ancora oggi, prosegue l’Autrice, «nel XXI secolo, le regole del kanun sono attuate e percepite come vincolanti da larghissima parte della popolazione» (p. 251). Durante il periodo comunista, invece, queste consuetudini erano rimaste sotto traccia; dopo il 1991, con l’incedere della crisi e a causa dell’avanzamento di fenomeni di corruzione e disgregazione politico-sociale, lo Stato si è «rivelato incapace di arginare sia il crescente radicamento dei fenomeni criminali, sia la riemersione dei meccanismi di faida e vendetta che rendono un affare privato la nozione di giustizia» (p. 252).
Il diritto penale islamico costituisce, perciò, un’ottima cartina di tornasole per misurare il grado di influenza dell’elemento religioso all’interno dei diversi contesti sociali di cultura musulmana e per valutare la portata dei cambiamenti politici all’interno di essi sulla base delle prassi e delle trasformazioni d’ordine politico. Si legge infatti nel libro che quando la difesa dei valori culturali si fa decisa e il discorso sul “recupero” della sharia più stringente è, infatti, il diritto penale ad essere in gioco e con esso i meccanismi classici del taglione, del prezzo del sangue (diya) e delle sanzioni coraniche (hudud).
Da qui, soprattutto nei momenti di passaggio da una fase storica all’altra (i c.d. processi di re-islamizzazione in atto in diversi paesi), emerge l’importanza della formazione del giurista chiamato ad interpretare norme con le quali potrebbe non avere familiarità e soprattutto in contesti dove si rivela difficile conciliare la tradizione sciaraitica (sostenuta dal desiderio di non disperderne la memoria) con i nuovi assetti politico-legislativi frutto di trasformazioni sostanziali dell’ordine sociale e delle strutture familiari (che tradotto significa nuove Costituzioni, nuovi parlamenti, etc.) anche sul terreno della protezione dei diritti umani. Nel libro si rimarca il ritardo di molti legislatori statali nell’affrontare il tema della re-islamizzazione penale, la cui integrale condivisione e affermazione significa operare forzature e travisamenti di non poco conto. L’Autrice, infine, riprendendo il pensiero di altri autori, si chiede quale sia l’utilità di conservare ancora oggi l’amputazione della mano per il furto quando reati assai più lesivi degli interessi della Comunità (quali la frode, la truffa, la corruzione, la concussione) “beneficiano” della sanzione (tazir) consistente nella reclusione in carcere.
E’ un lavoro, dunque, quello di Deborah Scolart, che colpisce perché va al di là della descrizione puntuale delle singole fattispecie di reato nel diritto penale islamico, oltre che della comparazione fra contesti politico-ordinamentali noti, per puntare, invece, sulla “struttura profonda”, sulla “scoperta” dei tanti nessi strutturali soggiacenti all’intero progetto giuridico islamico, a cavallo tra tradizione e “modernità”.