Criteri di delega e diversificazione delle tutele contro i licenziamenti nulli. La Corte costituzionale “congeda” la distinzione tra nullità testuali e virtuali ai fini dell’applicazione della reintegrazione
1 Con sentenza n. 22 del 22 febbraio 2024 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 2, comma 1 del d.lgs. n. 23 del 2015, limitatamente alla parte in cui prevede l’applicazione della tutela della reintegrazione al licenziamento di cui è dichiarata la nullità solo laddove tale nullità sia «espressamente» prevista dalla legge.
La pronuncia segue le diverse sentenze che, nei mesi e negli anni passati, sono intervenute sulla legittimità costituzionale di norme che regolano le conseguenze sanzionatorie del licenziamento illegittimo. Si possono ricordare, tra queste, la sentenza n. 59 del 2021 e la sentenza n. 125 del 2022, sulla disciplina dettata dall’art. 18 St. lav. applicabile ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015; nonché la sentenza n. 194 del 2018, la sentenza n. 150 del 2020 e la sentenza n. 183 del 2022 sulle norme contenute nel d.lgs. n. 23 del 2015, applicabili agli assunti dopo il 7 marzo del 2015.
La sentenza in commento incide sul campo di applicazione della tutela della reintegrazione sul posto di lavoro quale conseguenza di un licenziamento nullo. L’art. 2, comma 1 citato aveva infatti limitato l’applicazione della reintegrazione per i licenziamenti nulli a quelli tali perché discriminatori o perché la nullità era espressamente prevista dalla legge (c.d. nullità testuali). Al contrario, qualora la nullità dell’atto non fosse stata prevista in modo esplicito dalla legge, ma fosse derivata, ex art. 1418, comma 1, dalla contrarietà dell’atto a norme imperative (c.d. nullità virtuali), non avrebbe trovato applicazione la tutela reintegratoria.
La scelta fu oggetto di discussione in dottrina. Fu infatti rilevato come l’intento del legislatore potrebbe essere stato quello di limitare la discrezionalità giudiziaria, in conformità con il disegno complessivo delle norme del c.d. Jobs Act in materia di sanzioni contro i licenziamenti illegittimi. Difatti, avendo ravvisato un impiego talora disinvolto della categoria della nullità virtuale con il fine di allargare l’area dell’applicazione della tutela reintegratoria, il legislatore avrebbe voluto ridurre l’incertezza sulla sanzione applicabile, limitando l’applicazione della reintegrazione alle sole nullità testuali.
Invero, in senso contrario, dopo l’approvazione della norma la dottrina ha proposto opzioni interpretative tese ad allargare il campo di applicazione della reintegrazione oltre le poche ipotesi di nullità testuale riferibili all’atto del licenziamento (v., per una completa ricognizione, anche nei riferimenti, del dibattito in dottrina, A. Zoppoli).
2. La questione di legittimità costituzionale della norma è stata sollevata dalla Corte di Cassazione con ordinanza del 7 aprile 2023, n. 9530.
Nel caso di specie giunto di fronte ai giudici, il licenziamento era stato dichiarato nullo per violazione di una norma speciale applicabile agli autoferrotranvieri e contenuta nell’art. 53 dell’Allegato A al r.d. n. 148 del 1931, che regola, in quello specifico settore, la procedura disciplinare da seguire per l’irrogazione di alcune sanzioni nei confronti del lavoratore, tra cui appunto il licenziamento.
La Corte, ritenendo che questa fattispecie di licenziamento illegittimo potesse rientrare tra i licenziamenti per i quali la nullità non è espressamente prevista dalla legge, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1 del d.lgs. n. 23 del 2015 in relazione all’art. 76 Cost., che regola i presupposti affinché la funzione legislativa possa essere delegata al Governo.
Il d.lgs. n. 23 del 2015 è infatti uno dei decreti attuativi della l. n. 183 del 2014, che aveva conferito deleghe al Governo anche in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro.
In particolare, l’art. 1, comma 7, lett. c delegava il Governo a adottare previsioni che limitassero «il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato».
Secondo il giudice rimettente, il legislatore, limitando la reintegrazione ai soli licenziamenti la cui nullità fosse espressamente prevista dalla legge, avrebbe ecceduto rispetto a questi principi stabiliti in sede di delega. L’art. 2, comma 1 avrebbe infatti introdotto «una distinzione di tutela non prevista nella norma delegante e di individuazione incerta».
3. La Corte costituzionale premette alle argomentazioni di merito circa la conformità alla delega della previsione oggetto della rimessione una completa disamina diacronica delle norme che hanno regolato e regolano il licenziamento nullo e le sue conseguenze.
Inoltre, la Corte ha ritenuto necessario un chiarimento preliminare in merito alla corretta interpretazione dell’art. 2, comma 1. Si è ritenuto che tale norma debba essere interpretata nel senso per il quale la tutela reintegratoria possa essere applicata solo laddove la legge, prevedendo il divieto di licenziamento, contestualmente disponga anche la nullità dell’atto. In questo modo i giudici costituzionali hanno aderito all’interpretazione fatta propria dalla sentenza di appello che ha deciso il caso di specie nell’ambito del quale è avvenuta la rimessione.
Altre interpretazioni di carattere “espansivo” dell’art. 2, comma 1, sarebbero infatti contrarie alla littera legis. Ciò anche in ragione del fatto che, come opportunamente rileva la Corte, l’avverbio “espressamente”, alla luce di un’interpretazione troppo distante dal dato testuale, si sarebbe altrimenti dovuto considerare inutiliter datum.
4. Sciolto il nodo preliminare di cui sopra circa la corretta interpretazione dell’avverbio “espressamente”, i giudici costituzionali hanno quindi potuto decidere sulla conformità ai criteri di delega del testo dell’art. 2, comma 1.
Come si è detto, il criterio di delega prevedeva infatti la limitazione della tutela reintegratoria, in genere, ai «licenziamenti nulli e discriminatori».
La disamina della questione in specie presuppone necessariamente un chiarimento riguardo gli orientamenti della giurisprudenza costituzionale in merito alla dichiarazione di incostituzionalità per “eccesso di delega”.
L’art. 76 Cost. prevede che l’esercizio della legislazione delegata da parte del Governo possa avvenire solo ove siano definiti i «principi e i criteri direttivi» nonché gli oggetti della delega. Sicché le norme attuative della delega che si pongano al di fuori dell’ambito di azione tracciato dal delegante potranno essere dichiarate costituzionalmente illegittime.
Nel corso del tempo, la giurisprudenza costituzionale ha dato spesso un’«interpretazione flessibile» dell’art. 76, tesa a valorizzare una lettura espansiva dei criteri elaborati dal delegante. In questo senso, è stato affermato che «l’art. 76 Cost. non impedisce l’emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo e, se del caso, anche un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante» (v. Corte cost., 8 luglio 2020, n. 192; e Corte cost., 6 aprile 1993, n. 141, nonché le altre pronunce citate nella motivazione della sentenza in commento). Secondo giurisprudenza altrettanto consolidata della Corte, inoltre, il legislatore delegato dovrebbe compiere un’attività di “riempimento” normativo, in ottica di uno sviluppo originale della delega, seppur necessariamente coerente con i principi e i criteri direttivi (v. Corte cost., 27 luglio 2023, n. 166).
Tracciato il quadro dei precedenti orientamenti in materia di eccesso di delega, la Corte ha individuato, dal punto di vista metodologico, gli strumenti interpretativi da utilizzare per la decisione della questione. Dapprima si renderebbe necessaria l’interpretazione letterale del testo della delega, quindi dovrebbe essere riservato spazio ad una indagine «sistematica e teleologica», in relazione alla ratio della delega. Secondo la Corte, quest’ultimo tipo di indagine, pur se presentato come residuale, assume tanto più importanza quanto meno «preciso e univoco» è il dato letterale della disposizione delegante.
5. Dopo ampie premesse, la Corte giunge quindi alla valutazione di merito nei punti 9 e 10, rispettivamente dedicati all’analisi della conformità della norma alla delega sotto il profilo letterale e sotto quello sistematico.
Sotto il primo profilo, secondo i giudici, non c’è modo di ritenere che la lettera della delega, nella parte in cui si riferisce alla disciplina sanzionatoria dei licenziamenti, sia interpretabile nel senso per il quale il legislatore delegante abbia voluto porre una distinzione tra licenziamenti espressamente e virtualmente nulli. Del resto, si dice, il legislatore, laddove ha voluto, ha attribuito discrezionalità al Governo, prevedendo ad esempio che la reintegrazione fosse limitata anche a «specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato». Questi argomenti paiono lineari e condivisibili.
Dal punto di vista sistematico, la Corte sostiene che l’esclusione della reintegrazione per i licenziamenti colpiti da nullità virtuale sarebbe contraddittoria in quanto non accompagnata dalla previsione di una diversa sanzione.
Se è vero che anche la dottrina giuslavoristica si è interrogata circa il tipo di tutela da riconoscere ai lavoratori il cui licenziamento sia dichiarato nullo ex art. 1418, comma 1 (v. sul punto M. Marazza; C. Pisani), bisogna però rilevare come la mancata completezza del sistema sanzionatorio sia un difetto del tutto interno alle norme di attuazione della delega. Sicché non pare corretto riflettere tale vizio sul giudizio circa la rispondenza di tali norme ai criteri di delega.
Peraltro, se proprio si volesse considerare il dato sistematico, bisognerebbe rilevare come la restrizione della tutela reintegratoria si ponga invero in continuità con gli obiettivi del complessivo disegno riformatore del legislatore dell’epoca.
In ogni caso, a parere di chi scrive, basterebbe la considerazione del solo dato letterale al fine di fondare su basi sufficientemente solide la dichiarazione di incostituzionalità della norma sub iudice per eccesso di delega.
Si deve segnalare inoltre come la Corte incidentalmente indugi, al punto 10.2, sulla rilevanza dell’«inedito ribaltamento della regola civilistica dell’art. 1418, primo comma, cod. civ.», che stabilisce la nullità del contratto contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente. Ebbene, nel caso di specie, secondo i giudici, «la previsione “diversa” serve, all’opposto, a derogare alla nullità che consegue alla violazione di norme imperative». Invero, bisogna rilevare che l’art. 2, comma 1 del d.lgs. n. 23 del 2015 non esclude la nullità dell’atto di licenziamento in violazione di norme imperative (ma cfr. T. Treu) ma esclude invece la conseguenza sanzionatoria della reintegrazione. Non vi sarebbe quindi alcun ribaltamento della regola che dispone circa la nullità, che infatti resterebbe tale pur in assenza dell’applicazione della sanzione della reintegrazione. Peraltro, la considerazione, nel suo complesso, non appare ben coordinata con gli altri argomenti circa la compatibilità, dal punto di vista sistematico, della norma oggetto di scrutinio con i criteri e i principi dettati dalla legge delega.
La Corte, alla luce delle argomentazioni appena ripercorse, ha quindi dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma limitatamente alla parola “espressamente”, precisando che «per effetto di tale pronuncia il regime del licenziamento nullo è lo stesso, sia che nella disposizione imperativa violata ricorra anche l’espressa (e testuale) sanzione della nullità, sia che ciò non sia espressamente previsto». La Corte non menziona il regime sanzionatorio comune, ma si può ovviamente dedurre che debba essere quello della reintegrazione ai sensi dello stesso art. 2, comma 1.
Infine, con un riferimento alla precedente sentenza n. 150 del 2020, i giudici hanno richiamato l’attenzione sulla necessità di «ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale» quale quella che regola il regime sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi. Il monito, pur se generalmente condivisibile, si concilia poco con la decisione in oggetto, dalla quale non deriva la necessità di alcun intervento adeguatore del legislatore. Il richiamo sembra piuttosto essere stato inserito quale elemento “di contesto”, in ragione del fatto che la pronuncia è solo l’ultima della tante che, negli ultimi anni, si sono dovute occupare, con una dichiarazione di illegittimità costituzionale, delle norme che regolano il licenziamento del lavoratore.