Corte di Strasburgo e Crocifisso: l’intervista di “Avvenire” a Marta Cartabia
da “Avvenire” del 21 agosto 2010
«Crocifisso, ecco perché la corte deve ripensarci»
In attesa della sentenza definitiva della Corte europea dei diritti umani sulla esposizione del crocifisso nelle scuole italiane, uno dei giuristi nel nostro Paese che ha più studiato l’azione delle Corti europee, Marta Cartabia esprime un motivato auspicio di revisione del pronunciamento della seconda sezione della corte di Strasburgo emessa il 3 novembre dello scorso anno. La docente di diritto di costituzionale a Milano Bicocca è appena tornata da un anno di lavoro negli Stati uniti dove, nel centro Law and Justice diretto da Joseph Weiler, ha approfondito il problema della “enfatizzazione” dei diritti individuali nel mondo globalizzato.
Del resto la stessa Unione europea, deluse le speranze di una effettiva partecipazione politica, tende a giustificare la sua esistenza come Grundrechtsgemeinschaft, cioè come comunità basata sulla tutela dei diritti individuali. Comunque proprio dall’America viene una risposta a questa deriva giuridica e culturale, il riproporsi, cioè, in versione aggiornata del diritto naturale, ripresa che può essere considerata uno degli obiettivi del magistero di Benedetto XVI.
L’auspicio è dunque che la Grande Chambre riveda la sentenza contro l’esposizione del crocifisso? Si. Sia per il tema in discussione, sia perché un ripensamento di quella sentenza potrebbe significare che è stata solo momentanea la infelice tendenza mostrata dalle Corti europee negli ultimi anni a sposare una linea particolare in campi molto controversi (etica, bioetica, la libertà religiosa) riducendo “il margine di apprezzamento”, cioè la discrezionalità degli Stati in queste materie. Sarebbe una indicazione che la Corte torna alla sua consolidata linea giurisprudenziale, basata su un intervento sussidiario rispetto alle istituzioni nazionali, per garantire a tutti gli individui alcuni basilari diritti imprescindibili. Adottare un punto di vista particolare, in ambiti nei quali le posizioni degli Stati sono molto differenziate può far perdere alla Corte la sua autorità e la legittimazione come garante dei diritti umani al di sopra delle parti, indurre a sospettare un uso politico, se non ideologico, della tutela dei diritti.
Come valuta l’intervento del professor Weiler a Strasburgo? È stato, oltre che strategicamente molto efficace, ricco di una profondità di contenuti di cui si dovrà tenere conto. Non so se sposterà la decisione della Corte, ma quanto meno la indurrà ad argomentare più ampiamente la sua posizione.
La presenza di un giurista ebreo osservante con la kippah in testa è stata significativa? È stata la prova più eloquente che oggi le principali divisioni non sono tra le diverse religioni, ma tra i sostenitori di posizioni laiciste e credenti, come lui stesso ha detto. Quindi l’idiosincrasia per ogni simbolo sacro, derivata dalla rivoluzione francese, non è neutrale, ma un atteggiamento di parte.
In un libro del 2007 lei ha denunciato il “colonialismo” della corte di Giustizia europea di Lussemburgo. Oggi estenderebbe questo giudizio a Strasburgo?
La parola “colonialismo” è volutamente provocatoria per attirare l’attenzione su un problema che in Italia non era avvertito. Si guardava sempre alle istituzioni europee come alle depositarie del progresso civile. In ogni modo l’ultimo anno di giurisprudenza può far pensare che anche la Corte di Strasburgo sia stata contagiata da quella tendenza.
Per quali motivi?
La riduzione, nelle sentenze, del margine di apprezzamento dei singoli stati ed il numero esorbitante di casi pendenti: 120mila. Un fattore quest’ultimo che può dipendere anche dall’esterno, cioè dall’esplosione della mentalità dei diritti individuali. Si tratta in ogni caso di un fattore che denota un’anomalia e che desta preoccupazione sia per la qualità delle decisioni della Corte sia per il dilatarsi dei tempi di giudizio.
Ma anche i magistrati italiani sembrano favorire lo sviluppo del fenomeno… Infatti ormai da svariati decenni tendono ad usare direttamente tutto ciò che viene dalle istituzioni europee, anche disapplicando leggi interne, saltando la Consulta, il Parlamento, in molti casi fuori dai limiti costituzionali. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea non era ancora in vigore e già veniva utilizzata nei giudizi in Italia (così come in altri Paesi europei). In questo modo con una pluralità di fonti, aumenta il margine di discrezionalità dei giudici ed il loro potere. Spesso la motivazione è buona, ma quando saltano i paletti delle regole del gioco si insinua una possibilità di uso ideologico dei diritti individuali che poi diventa difficile contrastare.
Appunto diritti individuali. Possiamo fare un quadro del fenomeno? Si deve distinguere tra Paesi occidentali e “Sud” del mondo, inteso in senso non strettamente geografico, area dove si soffre ancora della mancata attuazione dei diritti umani basilari. In occidente, invece, a partire dalla fine della guerra fredda, per impulso delle istituzioni internazionali, si è registrata una enfasi esagerata sui diritti individuali. Da un lato essi vengono assolutizzati, non se ne riconoscono più i limiti, che del resto sono strutturali in tutte le Costituzioni e le dichiarazioni internazionali, dall’altro lato vengono moltiplicati. Ogni nuovo problema, perfino il problema del cambiamento climatico, tende ad essere coartato in questa gabbia concettuale. Problemi che, invece, con più coerenza ed efficacia, potrebbero essere affrontati in chiave politica, di solidarietà nazionale o internazionale. Il fenomeno ha avuto origine negli Stati uniti, ma ora è l’Europa ad essere presa dall’ebbrezza di diritti individuali.
In America dove va la scienza giuridica? Negli Usa si nota una ricchezza del dibattito, una originalità e una varietà di posizioni incomparabile a quella attualmente presente sul Vecchio Continente. Non si ha paura di affrontare temi e problematiche scomode e poco in linea con il politically correct. Personalità di grande calibro scientifico hanno ripreso ad occuparsi di diritto naturale – insegnando, discutendo e anche criticando -, mentre in Europa quella tradizione rimane un tabù. Negli Stati uniti riemerge insomma il profilo morale, molti giuristi si pongono la domanda sul dover essere: «Questa legge è giusta?». Una domanda che in Europa si considera totalmente esterna, non pertinente alla neutralità del diritto, inteso riduttivamente solo come diritto positivo.
Una riscoperta del diritto naturale? Non so se questa tendenza possa essere definita come una ripresa del diritto naturale come è stato tramandato nella tradizione occidentale. Il fatto è che si ritiene necessario istituire un tribunale esterno al diritto, non astratto, ma attento soprattutto all’esperienza umana che la legge produce. Una umanità in azione, in concreto, dentro l’esperienza diventa il benchmark alla luce del quale valutare la bontà e la giustizia di ogni legge. Questo criterio può aiutarci di più a trovare punti di convergenza in una società così plurale e multiculturale come è quella occidentale oggi.
Pier Luigi Fornari
www.avvenire.it
L’intervista a Marta Cartabia, grazie alla usuale acutezza d’indagine della Professoressa, solleva problemi di ordine cruciale alla base delle dinamiche dei rapporti tra corti e tra ordinamenti in Europa. Emerge chiaramente, d’altronde, la nuova aggressività interordinamentale della Corte di Strasburgo, decisa, mi pare, sempre più, a voler assurgere al ruolo di Corte costituzionale paneuropea dei diritti fondamentali. Ambizione che, come la nostra Corte costituzionale nelle due sentt. nn. 311 e 317 di fine 2009 ha fatto ben capire, non è che sollevi particolari entusiasmi nelle corti costituzionali e supreme degli Stati contraenti. Tutt’altro. Resta da verificare se tale aggressività sia condivisa anche dalla Corte di giustizia, o se invece questa, come mi pare, stia facendo qualche passo indietro che si concretizza nel passaggio da una versione assoluta e radicale del concetto di primacy ad una relativa ed aperta a bilanciamenti. Se così fosse, alla luce del passo indietro di Lussemburgo e dei molti passi avanti di Strasburgo, potrebbe emergere una tendenza all’approssimazione tra l’idea che le due corti hanno dell’incidenza, rispettivamente, di diritto dell’Unione e diritto CEDU sulla sovranità (residua) degli Stati membri. Il che, a sua volta, potrebbe portare, un giorno, all’emersione di una teoria generale dell’impatto interordinamentale del diritto sovranazionale. Sarei molto interessato ad avere le vostre opinioni a riguardo. op
Complimenti alla professoressa Cartabia per la consueta chiarezza di posizioni, ma anche all’Avvenire, per aver dato risalto a temi raramente dibattuti nei quotidiani. Personalmente, trovo molto condivisibile la preoccupazione per l’atteggiamento giurisprudenziale assunto dalla Cedu nella protezione del principio di laicità, che mi pare vada “universalizzandosi” in modo acritico, perdendo di mira il rilievo dei “contesti” nazionali.
Proprio il rafforzamento dell’ “argomento contestuale” nelle giurisprudenze delle Corti sovranazionali potrebbe essere la via d’uscita moderata, tra un’eccessiva universalizzazione retorica del trattamento dei diritti umani e la critica minimalista e particolarista che pure va prendendo piede, reattivamente, come si dà conto nell’intervista.
Anche io trovo che la Professoressa abbia colto con grande precisione gli aspetti problematici di una Corte ormai sempre più impegnata su temi sensibili. Mi sentirei solamente di aggiungere, in relazione anche a quanto dice A.B., che alla base del margine d’apprezzamento c’è l’esigenza di conciliare un grado ragionevole di pluralismo con la dimensione concreta del giudizio. Mi spiego: se è vero che una retorica pienamente costituzionale non è sostenibile, perché la Corte non può non tener conto delle diversità nazionali, è altresì vero che dietro una visione “essenzialista” dell’argomento contestuale, attenta ad esempio alle tradizioni nazionali en bloc, può celarsi una retorica internazionalistica, a mio avviso non meno discutibile. Alla luce di ciò, una via d’uscita potrebbe essere quella di modulare il grado di pluralismo ponendo come termine del consensus standard il concreto bilanciamento che la Corte si trova ad affrontare. In Lautsi, ad esempio, quello che mi chiedo è su quale terreno la la Grande Chambre misurerà il common ground. Weiler ha evidentemente spinto per un termine di comparazione molto generale, quello cioè della presenza religiosa negli spazi pubblici, mentre personalmente mi augurerei un test incentrato sul terreno concreto della controversia, vale a dire la tutela delle minoranze nella scuola. Per riprendere un esempio da un recente contributo (Ilenia Ruggiu nell’ultimo numero di Quad. cost.), una cosa è bandire la domenica come festività, un’altra è eliminare il crocifisso da un’aula scolastica. Non tutti gli argomenti culturali, insomma, hanno lo stesso peso …