Corte costituzionale e responsabilità civile del magistrato: sulla pronuncia n. 205 del 2022
1. Con la sentenza n. 205 del 2022 , la Corte Costituzionale si è pronunciata sul tema della responsabilità civile dei magistrati, con riferimento specifico alla risarcibilità dei danni non patrimoniali.
La Corte di Cassazione, sezione terza civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale in relazione legge del 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), e sulla base dell’asserita violazione degli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione. In specie, il giudice di legittimità ha sollevato questione di costituzionalità
- dell’art. 2, comma 1, nel testo antecedente alla modifica apportata dall’art. 2, comma 1, lettera a), della legge 27 febbraio 2015, n. 18 (Disciplina della responsabilità civile dei magistrati), nella parte in cui limita la risarcibilità dei danni non patrimoniali a quelli derivanti da privazione della libertà personale;
- dell’art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 18 del 2015, nella parte in cui non dispone l’applicazione della suddetta modifica, introdotta all’art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 1988, ai giudizi ancora in corso e per fatti antecedenti alla sua entrata in vigore.
2. La legge n. 117 del 1988 – cd. legge Vassalli – è stata novellata con la legge n. 18 del 2015 in conseguenza di alcune sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (sentenza Commissione c. Italia, 24 novembre 2011; sentenza 13 giugno 2006, in causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo S.p.a.; sentenza 30 settembre 2003, in causa C-224/01, Köbler) le quali hanno indotto il legislatore nazionale ad adottare una più idonea normativa interna in materia di responsabilità dei magistrati.
In particolare, la CGUE aveva richiamato il legislatore nazionale ad un intervento normativo teso ad attuare i principi di diritto interno e comunitario al fine di superare le incompatibilità con il diritto dell’Unione, tenuto conto della necessità di assicurare la stessa tutela a tutti i cittadini degli stati membri danneggiati da attività illecita dei propri organi istituzionali.
In questa direzione, la legge n. 18 del 2015 ha modificato l’art. 2 della legge 117 allargando le potenzialità operative della norma – la quale originariamente prevedeva che «[c]hi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale» – espungendo dal testo le parole «che derivino da privazione della libertà personale».
In tal senso, il legislatore ha provveduto a ridisegnare la fattispecie di colpa grave e il perimetro dei danni risarcibili, novellando, peraltro, l’intero comma 3 e aggiungendo un comma 3 bis all’art. 2 della precedente legge Vassalli.
Alla luce della riforma, l’art. 2, comma 1, individua dunque quale elemento soggettivo illecito tutti i comportamenti, atti o fatti posti in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero il diniego di giustizia.
Il comma 2 dell’art. 2 individua ciascun comportamento del funzionario giudiziario connotato da colpa grave: (i) la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’UE; (ii) il travisamento del fatto o delle prove; (iii) l’affermazione di un fatto la cui esistenza sia incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; (iv) la negazione di un fatto la cui esistenza risulti incontrastabilmente dagli atti del procedimento ovvero l’errore revocatorio; (v) l’adozione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi previsti dalla legge o privo di motivazione.
Il comma 3 bis dell’art. 2 della legge n. 18 del 2015 ha inoltre precisato i presupposti della violazione manifesta della legge e del diritto dell’UE per la quale deve tenersi conto “del grado di chiarezza e precisione delle norme violate; dell’inescusabilità e della gravità dell’inosservanza” come pure “della mancata osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE, nonché del contrasto dell’atto o del provvedimento con l’interpretazione espressa della Corte di Giustizia dell’UE”.
In via generale, la legge – pur confermando che il magistrato non può essere chiamato a rispondere per l’attività di interpretazione della legge e di valutazione del fatto e delle prove – non esclude la sua responsabilità nei casi l’abbia fatto con dolo, colpa grave, violazione manifesta della legge e del diritto dell’Unione Europea. In tal senso, il legislatore stabilisce la c.d. clausola di salvaguardia tale da rafforzare l’elemento soggettivo del giudice civilmente responsabile nel suo esclusivo carattere di specialità posto a presidio dell’indipendenza e dell’autonomia della funzione giudiziaria.
Con riferimento all’azione in giudizio, l’art. 4, modificato anch’esso dalla novella del 2015, stabilisce che chi ha subito il danno ingiusto non può avocare direttamente in giudizio il magistrato ma può proporre l’azione contro lo Stato nella persona del Presidente del Consiglio dei Ministri. Quanto all’azione di rivalsa, divenuta obbligatoria con la legge del 2015, lo Stato può rivalersi nei confronti del magistrato civilmente responsabile come previsto dall’art. 13, fatta salva l’ipotesi in cui il danno causato dal magistrato consegua a un fatto che costituisca reato. La legge stabilisce che la competenza spetta al Tribunale del capoluogo del distretto della Corte d’appello da determinarsi ai sensi dell’art. 11 c.p.p. e dalle disp. att. c.p.p.
Il legislatore del 2015 ha peraltro modificato il comma 2 dell’art. 4 della legge n. 117 del 1988 stabilendo che è possibile proporre azione di risarcimento del danno contro lo Stato soltanto nel caso in cui siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione e gli altri rimedi o comunque quando sia esaurito il grado del procedimento nell’ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno. Tale azione, come previsto al comma 3 dell’art. 4, può essere esercitata decorsi tre anni (in luogo dei precedenti due) a pena di decadenza, a partire da quando sia possibile esperirla, cioè dopo tre anni dalla data in cui il fatto è avvenuto o, nei casi previsti dall’art. 3, entro tre anni dalla scadenza del termine entro il quale il magistrato avrebbe dovuto provvedere all’istanza.
Al comma 4, infine, l’art. 4 stabilisce che “in nessun caso il termine può decorrere nei confronti della parte che, a causa del segreto istruttorio, non abbia avuto conoscenza del fatto”.
La legge n. 18 del 2015 è intervenuta anche sul c.d. filtro di ammissibilità della domanda ex art. 5 della legge n. 117 del 1988, oggi abrogato, secondo il quale il Tribunale avrebbe dovuto valutare l’ammissibilità o meno della domanda e disporre per la prosecuzione o meno del processo, una volta sentite le parti. Tuttavia, per effetto dell’abrogazione, la legge non prevede più la delibazione preliminare di ammissibilità dell’azione di risarcimento dello Stato.
A seguito dell’accertamento della responsabilità del magistrato, ed entro due anni dal risarcimento avvenuto sulla base di un titolo giudiziale o stragiudiziale, lo Stato esercita obbligatoriamente l’azione di rivalsa, nel risetto dei limiti quantitativi individuati dalla legge nei confronti dello stesso, nel caso di diniego di giustizia ovvero per violazione manifesta della legge o del diritto dell’Unione Europea nonché per travisamento del fatto o delle prove quando determinati da dolo o negligenza inescusabile.
Infine, viene confermata la sola responsabilità dolosa dei giudici popolari delle Corti d’assise e agli estranei che partecipano alle funzioni giudiziarie.
3. Così delineato il quadro normativo relativo alla responsabilità civile del magistrato nella sua evoluzione storica, con la pronuncia n. 205 la Consulta ha rilevato profili di irragionevolezza e illegittimità costituzionale.
La questione sottoposta al sindacato di costituzionalità promossa dalla Corte di Cassazione muove da un’azione di risarcimento dei danni patrimoniali e non, avanzati e conseguenti all’erroneo coinvolgimento del ricorrente in un procedimento penale instauratosi davanti alla Procura della Repubblica di Catanzaro.
Il Tribunale ordinario aveva inizialmente emesso un decreto di inammissibilità del ricorso, riformato in sede di reclamo dalla Corte d’Appello di Salerno la quale aveva rimesso gli atti al primo giudice per la prosecuzione del giudizio.
In seguito, il Tribunale aveva accolto parzialmente la domanda escludendo il risarcimento del danno non patrimoniale ascrivibile alla sola fattispecie di lesione della libertà personale del ricorrente, assente nel procedimento instaurato. Il ricorrente aveva proposto ricorso per Cassazione al fine di ottenere l’asserito risarcimento dei danni non patrimoniali, ai sensi e per gli effetti del novellato art. 2, comma 1, lettera a) introdotto dalla legge n. 18 del 2015.
In particolare, la Corte di Cassazione – pur disattendendo i motivi del ricorso – ha ritenuto rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale relative al perimetro dei danni risarcibili e all’applicazione retroattiva della legge del 1988, non avendo la novellata legge n. 18 del 2015 previsto una disciplina transitoria tale da derogare al principio di irretroattività di cui all’art. 11 delle preleggi.
In merito alla rilevanza della legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 1988, occorre anzitutto osservare che i fatti posti alla base dell’azione di risarcimento si sono verificati in vigenza di tale testo normativo. Posto che il diritto al risarcimento del danno sorge nel momento in cui si verificano i fatti lesivi e i conseguenti danni, appare ragionevolmente esclusa, in via ermeneutica, l’applicazione della novellata legge del 2015 che, al contrario, si porrebbe in contrasto con il principio di irretroattività della legge. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha ritenuto che l’assenza di un’estensione della nuova formulazione dell’art. 2 della legge del 1988 avrebbe legittimato l’applicazione di un regime risarcitorio superato sul piano normativo, in grado di provocare “una disparità di trattamento e una lesione dei principi di effettività ed integralità del risarcimento correlato alla violazione di diritti primari della persona”, frutto di una disciplina ritenuta non più rispondente alla mutata sensibilità sociale.
La Corte Costituzionale, avendo escluso una soluzione ermeneutica delle questioni di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 2 della legge del 1988, rileva l’irragionevolezza della norma per contrasto con l’art. 3 della Costituzione. In particolare, tale irragionevolezza si ravvisa nella scelta del legislatore del 1988 di aver negato la piena tutela risarcitoria dei danni non patrimoniali a tutti i diritti inviolabili della persona diversi dalla libertà personale quali diritti che la Costituzione riconosce e garantisce all’art. 2 Cost. e ai quali si ascrive certamente anche il diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost. In un passaggio particolarmente esplicativo, la Consulta rileva come “la selezione di un unico diritto inviolabile della persona (di cui all’art. 13 Cost.), cui garantire, a fronte di un illecito civile, piena ed effettiva tutela risarcitoria, appalesa oggi, con il maturare della consapevolezza circa la rilevanza e le funzioni del risarcimento dei danni non patrimoniali a tutela dei diritti inviolabili della persona, i tratti della irragionevolezza e, dunque, della contrarietà all’art. 3 della Costituzione”.
A parere del giudice delle leggi, infatti, la compressione dei diritti inviolabili della persona si traduce in una irragionevole limitazione della responsabilità civile dello Stato e del magistrato. Di conseguenza, affermare la possibile liquidazione dei danni non patrimoniali da lesione dei diritti inviolabili della persona non equivale a un ampliamento del raggio dell’illecito ma implica soltanto un’estensione del danno risarcibile, pur sempre circoscritto all’elemento oggettivo ovvero al nesso di causalità giuridica.
Sul punto, già nel 2003, la Corte di Cassazione con una serie di pronunce (terza sezione civile, sentenze 31 maggio 2003, n. 8828 e n. 8827 e 12 maggio 2003, n. 7283, n. 7282 e n. 7281) aveva stabilito la necessità di estendere – a tutela della persona – la risarcibilità dei danni non patrimoniali, attraverso un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., intercettando nell’art. 2 della carta costituzionale il criterio di garanzia e apertura. Tenuto conto che l’art. 2059 c.c. stabilisce che il danno non patrimoniale deve essere risarcito soltanto nei casi previsti dalla legge, l’interpretazione costituzionalmente orientata ha consentito di estendere le fattispecie del risarcimento per i danni non patrimoniali, in caso di lesione dei diritti inviolabili della persona, prescindendo dal “fare reddituale” del danneggiato e con lo scopo di rafforzare la funzione solidaristica della Costituzione, posta a presidio dell’intero ordinamento.
Tutto ciò ha finito per rendere ancora più evidente il contrasto fra la scelta operata dall’art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 1988 (c.d. Legge Vassalli) e l’esigenza di una piena tutela risarcitoria di tutti i diritti inviolabili della persona. In conseguenza, con la pronuncia in commento, dunque, la Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 1988, nel testo antecedente alla modifica apportata dall’art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 18 del 2015, nella parte in cui limita il risarcimento dei danni non patrimoniali alla sola lesione della libertà personale, escludendo dalla medesima tutela tutti gli altri diritti inviolabili della persona garantiti dall’art. 2 Cost.
4. Da ultimo, e a proposito della seconda questione di legittimità costituzionale – quella relativa alla mancata applicazione retroattiva delle norme riformate dal legislatore del 2015 -, la regola giuridica che ne è derivata, all’esito del giudizio di legittimità costituzionale sull’art. 2, comma 1 della legge del 1988, ha finito per combaciare con il testo riformato. Poiché l’applicazione retroattiva della nuova regola introdotta nel 2015 mirava a difendere i diritti di cui agli artt. 2 e 32 Cost., ricondotti nell’alveo dei diritti tutelati dalla Costituzione con la pronuncia in commento, la Corte ha dichiarato non fondate le relative questioni di legittimità costituzionale.
In conclusione, con questa sentenza il giudice costituzionale ha risposto nuovamente all’esigenza di preservare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura nel rispetto dei principi di cui agli artt. 101 e 103 Cost. perseverando nel delicato ma necessario bilanciamento degli interessi di chi risulta ingiustamente danneggiato, e consacrando la risarcibilità dei danni non patrimoniali in conseguenza della lesione di “interessi costituzionalmente protetti”.