Corte costituzionale, atti di nascita di bambini nati nell’ambito di una coppia lesbica e accesso alla p.m.a.
Con la sentenza n. 230/2020, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto alcune norme della legge sulle unioni civili, n. 76/2016, e dei regolamenti in materia di ordinamento dello stato civile e di filiazione, che impediscono l’indicazione, nell’atto di nascita di un bambino, della compagna unita civilmente alla partoriente. Nel caso in questione (cfr. l’ordinanza di rimessione del Tribunale di Venezia del 3 aprile 2019), una donna aveva prestato il proprio consenso alla procreazione medicalmente assistita (p.m.a.) di tipo eterologo, praticata sull’altra donna e avvenuta all’estero, senza contribuire alla gravidanza con propri gameti.
Com’è noto, la decisione si inserisce in una lunga serie giurisprudenziale, cresciuta negli ultimi anni e proveniente sia dalla Consulta (cfr. sentt. nn. 272/2017, 237/2019) sia dalla Corte di Cassazione (v. da ultimo Cass. SS.UU. n. 12193/2019), relativa alla trascrizione di atti di nascita formati all’estero, o in qualche caso in Italia, con riguardo a bambini nati da procreazione medicalmente assistita o da surrogazione di maternità. È opportuno richiamare alla mente che in tali costellazioni è corretto parlare di p.m.a. eterologa per le coppie omosessuali femminili e di surrogazione di maternità (o di gestazione/gravidanza per altri, a seconda della prospettiva adottata) per le coppie omosessuali maschili o eterosessuali, essendo la diversità delle tecniche una conseguenza inevitabile del modo in cui i bambini vengono al mondo: dal corpo di una donna, con la quale si instaura una relazione fisica ed emotiva già durante la gravidanza, e non da quello di un uomo. Il punto può sembrare banale ma non lo è, visto che spesso negli atti processuali si tende a offuscare tale differenza enfatizzando la sola genitorialità intenzionale, e visto che gli attivisti LGBT tendono spesso a privilegiare la promozione di liti strategiche da parte di coppie di donne, per poi estenderne gli esiti, qualora favorevoli, anche alle coppie di uomini, facendo leva sulla logica antidiscriminatoria (cfr. sul tema i lavori di Silvia Niccolai, Elisa Olivito e Francesca Angelini).
Ricordo che nella sentenza n. 272 la Corte aveva raggiunto un equilibrio tra principio della verità di parto e interessi del bambino, sostenendo, tra le altre cose, che la menzione del nome della madre surrogata (anziché del genitore solo intenzionale) corrispondesse anche all’interesse del minore che avrebbe desiderato conoscere la propria identità. In quella decisione la Consulta aveva altresì ribadito, come già nella sentenza n. 164/2012 sulla fecondazione eterologa, il divieto di surrogazione di maternità, collegandolo alla tutela della dignità della donna e alla tenuta delle relazioni umane. Questi principi erano stati ripresi dalla Cassazione a Sezioni Unite, che li aveva considerati parte dell’ordine pubblico internazionale. La conseguenza pratica di tali orientamenti giurisprudenziali è la trascrivibilità degli atti di nascita con riferimento al solo genitore biologico e la possibilità di richiedere, per il genitore intenzionale, l’adozione in casi particolari. Tale soluzione – contrariamente a quanto suggerisce l’ordinanza di rimessione della Cassazione, I. sez. civ., del 29 aprile 2020, volta a colpire il divieto di surrogazione di maternità – appare compatibile con il parere della Corte di Strasburgo del 10 aprile 2019, in cui i giudici europei hanno avallato una soluzione francese simile alla nostra. Semmai il caso francese invita a ragionare intorno alla estensione, alle coppie omosessuali maschili e femminili, dell’adozione piena. Esso suggerisce inoltre ulteriori cautele nell’insistere sull’argomento antidiscriminatorio, essendo chi osserva indotto/a a confrontare la condizione dei bambini nati all’estero attraverso p.m.a o surrogazione non solo con quella dei figli biologici di una coppia eterosessuale, ma anche con quella dei bambini in stato di abbandono o figli di madri e padri privati della potestà genitoriale.
Per completare il quadro occorre richiamare la sent. n. 221/2019, che ha affermato la non irragionevolezza della disciplina sul mancato accesso delle coppie omosessuali alle tecniche di procreazione assistita: nel caso di specie si trattava ancora una volta di una coppia lesbica, accuratamente individuata alla luce delle patologie dell’apparato riproduttivo di cui ciascuna delle due donne era affetta. Nella pronuncia la Corte ha ribadito, dopo le celebri caducazioni degli anni scorsi, due linee di fondo della legge n. 40, precisando contestualmente alcune questioni lasciate aperte dalla sent. n. 164: da un lato, che la procreazione assistita è un percorso terapeutico attivabile per rimediare alla patologia di una “infertilità o sterilità assoluta” ma non per superare la “infertilità sociale o relazionale”, fisiologica per una coppia omosessuale (così come per una coppia eterosessuale in età avanzata e per una donna single). Dall’altro lato, ha sostenuto la non irragionevolezza dell’assunto secondo cui il contesto astrattamente preferibile per mettere al mondo e far crescere un bambino è quello di un nucleo familiare formato a partire da una coppia eterosessuale. In maniera non dissimile da quanto avvenuto per la sperimentazione degli embrioni soprannumerari (sent. n. 84/2016, dove però la questione avrebbe potuto essere risolta diversamente), i giudici hanno fatto ricorso all’argomento della discrezionalità del legislatore, sottolineando come il tema della delimitazione dei soggetti aventi accesso alle tecniche procreative appartenga a quelli eticamente controversi, rispetto ai quali è anzitutto la cultura sociale a dover trovare un equilibrio, una cultura della quale il legislatore – collocato all’interno di uno spazio pubblico allargato – è il primo interprete. Ciò non esclude, per i giudici, che tale equilibrio possa mutare nel tempo e che, in futuro, le soluzioni raggiunte da una democrazia rappresentativa che dialoga con la società civile possano essere diverse.
Qualche dubbio sulla sent. n. 221 è stato giustamente sollevato nella misura in cui la Consulta, pur evidenziando la diversità dei percorsi seguiti dalla coppia omosessuale femminile (p.m.a. eterologa) e da quella maschile (surrogazione di maternità), non ha toccato la questione dell’accesso alle tecniche procreative per la donna single. Rispetto a tale questione, che tuttavia non era inclusa nel petitum, qualche margine per un intervento additivo del giudice costituzionale vi sarebbe forse stato, proprio alla luce della speciale relazione che si crea tra la madre e il bambino durante e dopo la gravidanza. Al contempo, però, occorre considerare che la relazione materna si instaura solo dopo l’avvenuta fecondazione con l’apporto di un gamete maschile, e ciò richiede che ci si interroghi su un’altra relazione – quella tra la donna e l’uomo –, la quale non credo vada completamente rimossa dalla scena. Non posso qui dilungarmi sul punto, ma riterrei che la situazione della donna single che chiede di usufruire della p.m.a. non sia del tutto assimilabile a quella della donna che partorisce e cresce un figlio da sola, come tante volte è avvenuto e avviene in seguito alle innumerevoli vicende della vita, né a quella dell’aborto, dove la donna rifiuta una gravidanza non desiderata ma non chiede di mettere al mondo un figlio che ancora non c’è avvalendosi di intermediazioni tecniche, mediche e di altra natura. Alla luce di ciò, ritengo che l’accesso delle donne single alla p.m.a sia un’opzione ragionevole, ma credo che si giustifichi meglio come il risultato di un dibattito aperto e verace nello spazio pubblico, dove i temi della maternità e del posizionamento femminile possano essere inquadrati a tutto tondo, nelle loro implicazioni culturali, familiari, sociali e politiche, più che nell’ambito di un procedimento giudiziale volto a sancire un diritto nuovo, nonostante tale procedimento si carichi, proprio nel giudizio di costituzionalità, di una valenza oggettiva. Non credo sia un caso, a tale proposito, che le associazioni del femminismo italiano nate nelle ultime decadi del Novecento non si siano fatte finora promotrici di una simile domanda dinanzi alla Corte costituzionale.
Abbiamo ora tutti i principali elementi per leggere la pronuncia n. 230/2020. Essa appare coerente con la giurisprudenza degli ultimi mesi e anni nell’affermare che, in Italia, l’atto di nascita di un bambino nato nell’ambito di una coppia lesbica può contenere solo il nome della madre che lo ha partorito, mentre la compagna di quest’ultima potrà avviare un procedimento di adozione in casi particolari. Opportunamente, tornando su un tema aperto nella sent. n. 162 e correggendo quegli orientamenti che troppo frettolosamente parlano di un «diritto umano inviolabile ed universale a diventare genitore» (così si legge nell’ordinanza di rinvio), la Corte afferma che «l’aspirazione della madre intenzionale ad essere genitore non assurge a livello di diritto fondamentale della persona» ai sensi dell’art. 2 Cost. In molti passaggi, la Corte riprende testualmente la sent. n. 221: là dove aveva negato che l’esclusione della coppia lesbica dalla p.m.a costituisse una discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale (con un puntuale richiamo della pronuncia della Corte di Strasburgo Gas e Dubois c. Francia); là dove non aveva escluso la ragionevolezza delle scelte legislative e la pensabilità di limiti al diritto a procreare, con riguardo agli interrogativi di ordine etico sollevati dall’impiego della tecnica ai processi di generazione; là dove, ricordando il problema del cd. turismo procreativo e la giurisprudenza di legittimità sul riconoscimento di atti di nascita formati all’estero, aveva sottolineato come la diversità di discipline tra i paesi non può, da sola, giustificare un trattamento omogeneo, perché altrimenti la legislazione italiana dovrebbe allinearsi a quella straniera più permissiva; là dove aveva colto la diversa situazione della coppia lesbica rispetto alla coppia gay; là dove, infine, aveva contemplato soluzioni potenzialmente diverse del legislatore, qualora la collettività avesse maturato un equilibrio differente tra i valori in gioco (qui torna un riferimento alla sent. n. 84). I giudici riprendono poi la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo a proposito della dottrina del margine di apprezzamento sulle questioni eticamente sensibili, nella misura in cui non vi sia un consenso tra gli stati, e il parere del 2020 sulla legittimità dell’adozione da parte del genitore intenzionale.
La Consulta, dunque, ritiene di non potere da sola alterare un equilibrio tra principi e valori costituzionali, intorno ad alcune scelte di fondo concretizzatesi nella legge n. 40 e nella legge n. 76/2016, senza una più robusta e trasversale condivisione da parte della cittadinanza. La legge sulle unioni civili è peraltro ancora piuttosto recente per un intervento di peso del giudice costituzionale. Alcuni costituzionalisti americani direbbero, a tale proposito, che la Corte non ha trovato, in una constitutional culture divisa, sponde sufficienti per innescare modifiche tanto significative. Ma anche i confronti con l’esperienza americana vanno fatti con cautela, nonostante i (o forse a causa dei) suoi tratti più spettacolari: si tratta di un contesto molto diverso dal nostro, dove a causa della tradizione di common law, di una cultura giuridica più portata a seguire il mutamento sociale, e di un ricorso più spregiudicato alle liti strategiche molte innovazioni costituzionali sono avvenute tramite sentenze della Corte Suprema adottate a stretta maggioranza.
Credo, pertanto, che quello della Corte costituzionale sia un approdo prudente e comprensibile, che potrebbe a sua volta essere agevolato da un riesame periodico della legge n. 40 alla luce di un’ampia discussione nello spazio pubblico, come avviene ad esempio in Francia. Ma in tal caso occorrerebbe prestare molta attenzione affinché venga assicurato un pluralismo effettivo dei partecipanti (cittadini, cittadine e gruppi), per evitare che il dibattito sia orientato dai soggetti economicamente e socialmente più forti e per far sì che anche la parola delle donne vi trovi adeguata espressione. La conclusione della Corte mi sembra infine equilibrata perché sfugge all’idea, propria di una parte della cultura contemporanea e permeata da istanze individualistiche e volontaristiche, di una moltiplicazione dei diritti dei singoli che trovano nei giudici gli interlocutori istituzionali sempre più disponibili e ricettivi.