Consorzio Italiano Management: (solo) una “precisazione” della dottrina CILFIT
Il 6 ottobre scorso la Corte di Giustizia (Grande Sezione) ha reso la sua sentenza in Consorzio Italian Management (C-561/19). La Corte, nella sua sentenza, torna sulla giurisprudenza CILFIT in tema di obbligo di rinvio (e relative eccezioni) da parte delle Corti nazionali di ultima istanza ex art. 267 TFUE, fondamentalmente ribadendola e apportandovi due correttivi. La rilevanza della sentenza non si coglie, però, se non la si legge congiuntamente alle conclusioni dell’Avvocato generale Bobek, il quale aveva avanzato una proposta di revisione complessiva della dottrina CILFIT.
La sentenza trae origine da un rinvio effettuato dal Consiglio di Stato italiano: nel corso del procedimento principale, questo aveva già effettuato un rinvio pregiudiziale alla Corte; a valle della sentenza resa da questa, le parti avevano sollevato ulteriori questioni afferenti all’interpretazione di norme di diritto europeo, chiedendo che il Consiglio di Stato procedesse ad un nuovo rinvio pregiudiziale. Questo, ritenendo che a talune questioni la Corte avesse già dato risposta, mentre ad altre no, sottoponeva queste ultime alla Corte, premettendo però una prima questione, con la quale chiedeva se un giudice di ultima istanza fosse tenuto ad effettuare un rinvio pregiudiziale anche nei casi in cui la questione da riferirsi fosse stata sollevata dalle parti in fasi avanzate del procedimento.
La risposta a tale questione era, per vero, scontata, stante la giurisprudenza della Corte per la quale limitazioni di carattere processuale alla potestà (e quindi all’obbligo) di effettuare il rinvio da parte dei giudici nazionali sono legittime, alla luce del principio di autonomia processuale, purché rispettino il principio di equivalenza e di effettività (v., da ultimo, CGUE, Sentenza della Corte del 15 maro 2017, C-3/16, Aquino): vale a dire purché non siano previste esclusivamente con riferimento al rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE ma si applichino anche a simili ricorsi fondati su violazioni del diritto interno (ad esempio, in Italia, in tema di questione incidentale di costituzionalità) e purché non siano tali da rendere in pratica eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento europeo (v. i parr. 60-64 della sentenza). D’altro canto, come osservato dall’AG nelle sue conclusioni (par. 28), l’ammissibilità di siffatte limitazioni, ove previste, non comporta certo la loro necessità, rimanendo, invece, i giudici nazionali pienamente liberi di rimettere alla Corte qualunque questione, in qualsiasi fase del processo (purché prima della sua definizione), che gli stessi ritengano rilevante ai fini della risoluzione del caso.
La sottoposizione alla Corte di tale questione permette, tuttavia, all’Avvocato Generale Bobek (per un’analisi delle sue conclusioni, v. questo saggio di G. Martinico e L. Pierdominici) prima e, successivamente, alla Corte stessa di tornare sulla dottrina CILFIT.
La Corte, salve alcune “precisazioni” (riprendendo l’espressione usata dal comunicato stampa) di cui si viene subito a dire, fondamentalmente ribadisce la propria precedente giurisprudenza: un giudice nazionale di ultima istanza “può essere esonerato da tale obbligo [quello ex art. 267, co. 3] solo quando abbia constatato che la questione sollevata non è rilevante, o che la disposizione del diritto dell’Unione di cui trattasi è già stata oggetto d’interpretazione da parte della Corte, oppure che la corretta interpretazione del diritto dell’Unione si impone con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi” (par. 33).
Delle tre eccezioni menzionate (irrilevanza della questione, c.d. acte éclairé e c.d. acte clair), quella su cui la Corte si sofferma maggiormente (al pari dell’Avvocato Generale) è la terza, che, d’altro canto, è quella – delle tre – su cui maggiormente si è concentrato, negli anni, il dibattito.
A tal riguardo, la Corte ribadisce anzitutto l’impostazione fondamentalmente soggettiva di tale eccezione, incentrata sul convincimento (appunto, soggettivo e personale) del giudice nazionale in merito all’evidenza oltre ogni ragionevole dubbio dell’interpretazione del diritto europeo che si appresta ad adottare e anche alla circostanza che tale evidenza si imporrebbe a ogni altro giudice di ultima istanza degli altri Stati membri e alla Corte di Giustizia stessa.
La Corte viene quindi ad occuparsi di alcuni dei criteri (segnatamente quello attinente alle versioni linguistiche), posti dalla giurisprudenza CILFIT, che il giudice interno deve tenere in considerazione laddove intenda escludere la necessità del rinvio alla Corte sul presupposto della chiarezza della norma (in generale riaffermati ai parr. da 39 a 47). Come è noto, se questi siano da considerarsi elementi necessari, ciascuno dei quali deve sussistere affinché il giudice sia sollevato dall’obbligo di rinvio, ovvero se questi costituiscano, nel loro complesso, una guida per lo stesso è questione dibattuta, che non viene risolta dalla sentenza in commento.
Come si diceva, una delle precisazioni operate dalla sentenza attiene proprio alla necessità (secondo la sentenza CILFIT, v. par. 18) di raffrontare tutte le versioni linguistiche. Se chiedere tanto al giudice nazionale del 1982 era forse plausibile, sicuramente non lo è più nel 2021: basterà considerare che il numero di Stati membri è “esploso” dai 10 del 1982 ai 26 del 2021. A tal riguardo, l’impossibilità di fare applicazione di tale criterio, ribadita dall’AG Bobek nelle sue conclusioni, era già stata posta in luce (tra gli altri, dall’Avvocato Generale Stix-Hackl nelle sue conclusioni in Intermodal Transports – C-495/03, par. 99). A tal riguardo, la Corte (par. 44), del tutto ragionevolmente, rielabora tale criterio, escludendo la necessità, per il giudice nazionale di procedere a un raffronto tra tutte le versioni linguistiche, richiedendogli, però, l’esame, oltre delle differenze linguistiche di cui è a conoscenza, (soprattutto) di quelle che le parti abbiano portato alla sua attenzione.
Un’altra precisazione effettuata dalla Corte, questa di maggiore rilievo, attiene alla necessità, per il giudice nazionale che non operi il rinvio pregiudiziale, di motivare adeguatamente sul punto. Ciò deriva dalla lettura, operata dalla Corte e suggeritale dall’AG, dell’art. 267 TFUE alla luce dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Tale onere, la Corte puntualizza, si deve ritenere soddisfatto solo ove il giudice nazionale indichi specificatamente la ragione per la quale ha ritenuto sussistente una delle eccezioni all’obbligo di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE. Ciò, si deve ritenere, al fine di porre un argine alla prassi delle Corti nazionali, di recente evidenziata dalla direzione per le ricerche bibliografiche della Corte (e nota anche in dottrina), di escludere l’obbligo di procedere al rinvio, adducendo a supporto affermazioni alquanto apodittiche, ad esempio limitandosi a ravvisare l’assenza di ogni ragionevole dubbio in ordine all’interpretazione da darsi. Sotto tale profilo la Corte sembra fare – ancorché implicitamente – riferimento alla giurisprudenza della Corte EDU (v. Dhaby c. Italia, sentenza dell’ 8 aprile 2014, ricorso n. 17120/09, parr. 33 e 34), che rinviene nell’omessa motivazione una violazione dell’art. 6, par. 1 CEDU.
Infine, la Corte sembra fondare, al par. 49, sulla circostanza della sussistenza di divergenti orientamenti giurisprudenziali in Stati membri diversi (specie se portate all’attenzione del giudice ad opera delle parti in causa), una forte presunzione in ordine all’impossibilità per il giudice nazionale di raggiungere quel convincimento oltre ogni ragionevole dubbio che la stessa gli richiede al fine di sollevarlo dall’obbligo di rinvio pregiudiziale. Ciò al netto della considerazione, svolta al par. 48, per la quale la mera esistenza di varie possibili interpretazioni di una disposizione non obblighi il giudice ad operare il rinvio: ciò nella misura in cui solo una di esse risulti, secondo il convincimento (ancora una volta, soggettivo) del giudice nazionale, sufficientemente plausibile.
Come si anticipava, tuttavia, l’interesse per la sentenza in parola non è solo legato a ciò che questa “dice”, ma, soprattutto, a ciò che la sentenza non “dice”: la Corte, in effetti, rigetta nella loro sostanza gli inviti a riconsiderare la propria giurisprudenza rivoltile dall’Avvocato Generale.
Questi, muovendo da una critica, sul piano teorico dei criteri CILFIT in tema di acte clair e dal rilievo della (nota) fondamentale impossibilità di dare loro applicazione, nonché dalla necessità di alleviare progressivamente il carico di lavoro della Corte di Giustizia, aveva mosso alcuni rilievi ai criteri CILFIT in tema di acte clair, suggerendone una rielaborazione e un rilassamento.
Tali rilievi a volere usare la massima sintesi, attenevano in primo luogo alla funzione dell’obbligo di rinvio pregiudiziale: assicurare la corretta applicazione del diritto europeo da parte dei giudici nazionali nel caso concreto, oppure l’uniforme interpretazione dello stesso all’interno dell’Unione, mirando ad evitare che si consolidino giurisprudenze nazionali divergenti tra loro e (soprattutto) all’interpretazione fattane dalla Corte di Giustizia?
Quanto alla distinzione tra interpretazione e applicazione, è probabilmente utile richiamare alcuni esempi (ripresi dalle conclusioni dell’AG Bobek – v. par. 141) al fine di chiarirne la dimensione concreta. Si consideri, ad esempio, la nozione di circolazione dei veicoli rilevante all’obbligo di assicurazione di cui all’art. 3 della direttiva 2009/103/CE: la Corte, inizialmente chiamata a interpretare tale nozione, la definiva quale “qualunque uso di un veicolo che sia conforme alla funzione abituale dello stesso” (CGUE, Sentenza del 4 settembre 2014, C-162/13, Vnuk, punto 59).
In seguito, la Corte veniva chiamata a statuire se a tale nozione potessero essere ricondotte le seguenti (e altre simili) circostanze: “la manovra di un trattore nel cortile di una casa colonica per immettere in un fienile il rimorchio di cui è munito“ (in Vnuk C‑162/13, punto 59); “una situazione in cui il passeggero di un veicolo fermo in un parcheggio, nell’aprire la portiera del suddetto veicolo, ha urtato e danneggiato il veicolo parcheggiato accanto ad esso” (in Rodrigues de Andrade, C‑514/16, punto 42); o ancora, una “situazione (…) nella quale un veicolo parcheggiato in un garage privato di un immobile, utilizzato in conformità della sua funzione di mezzo di trasporto, abbia preso fuoco (…), malgrado il fatto che detto veicolo non fosse stato spostato da più di 24 ore prima del verificarsi dell’incendio” (in BTA Baltic Insurance Company, C‑648/17, punto 48).
La prima operazione concettuale – che prevede di elaborare una norma a partire da un testo, la disposizione – è quella dell’interpretazione, le seconde – di verifica della riconducibilità di un fatto a uno schema normativo – sono quelle proprie dell’applicazione. L’AG Bobek nelle sue conclusioni suggeriva (si direbbe non in maniera irragionevole) di delegare, di regola, tale seconda operazione alle Corti nazionali.
Ancora, l’AG suggeriva di aderire alla seconda impostazione (rivalorizzando la giurisprudenza Hoffmann-Laroche) e, coerentemente, di limitare l’obbligo di rinvio alle sole questioni interpretative – e, peraltro, solo a quelle generali o generalizzabili – e non anche applicative (i.e. di sussunzione del fatto entro la norma). Di qui la proposta di abbandonare il requisito (soggettivo) del convincimento oltre ogni ragionevole dubbio dell’evidenza dell’interpretazione da darsi in favore di quello (oggettivo) dell’inesistenza di più interpretazioni ragionevolmente possibili: riportando “l’attenzione da un semplice «non so» a «queste sono le alternative tra le quali devo scegliere»” (par. 150).
A tal riguardo, la Corte mantiene l’ambivalenza della giurisprudenza CILFIT, confermando la duplice funzione dell’(obbligo di) rinvio pregiudiziale di assicurare “al diritto dell’Unione la stessa efficacia in tutti gli Stati membri e prevenire così divergenze interpretative” e di fornire “ai giudici nazionali, in quanto incaricati dell’applicazione del diritto dell’Unione, gli elementi d’interpretazione di tale diritto loro necessari per risolvere la controversia che essi sono chiamati a dirimere” (parr. 28 e 30).
Riferire tale duplice funzione allo strumento del rinvio pregiudiziale comporta però, con ogni evidenza, l’aumento delle questioni riferite alla Corte e, con esse il carico di lavoro della stessa, finora affrontato mediante innovazioni organizzative e non già attinenti alle modalità di accesso alla giurisdizione della Corte, tendenza che sembrerebbe confermata dalla Corte nella sentenza in commento. D’altro canto, la scelta di non prendere nemmeno in considerazione la proposta di limitare l’obbligo di rinvio alle sole questioni interpretative (e non anche applicative) del diritto europeo e, tra queste, a solo quelle di natura generale o generalizzabile appare coerente con la volontà di mantenere l’accesso alla giurisdizione delle Corte il più ampio possibile.
In definitiva, dunque, la sentenza in commento costituisce (solo) una precisazione della giurisprudenza CILFIT, nel suo complesso sostanzialmente confermata. A tal riguardo, se la scelta di non ridiscuterne gli aspetti teorici sopra evidenziati, specie a fronte dell’approfondita disamina (e critica) di questi svolta dall’Avvocato Generale, rende la sensazione di un’occasione persa, il rifiuto di introdurre un suo rilassamento risulta, invece, più convincente, anche alla luce dei crescenti condizionamenti che i giudici comuni soffrono nel decidere di rinviare questioni pregiudiziali alla Corte di Giustizia nell’ambito della crisi del Rule of Law in Polonia e Ungheria (v., da ultimo, CGUE, Sentenza del 23 novembre 2021, C-564/19, IS). In una chiave prospettica, infine, di rilievo centrale appare l’introduzione dell’obbligo di motivazione in caso di omesso rinvio, anche al fine della valutazione di ipotesi di violazione dell’obbligo in parola.