Consenso informato e diritto di autodeterminazione del paziente al vaglio della Corte Suprema del Regno Unito

Lo scorso 11 marzo la Corte Suprema del Regno Unito ha deciso il caso Montgomery v. Lanarkshire Health Board ([2015] UKSC 11), stabilendo un dovere del medico di informare il paziente di tutti quei rischi connessi al trattamento medico che possano, una volta svelati al paziente, incidere sulle sue scelte terapeutiche. Con questa sentenza la Corte si è discostata da un precedente seguito da più di trenta anni in materia di consenso informato, al fine di adeguare il diritto interno al rispetto del diritto fondamentale di autodeterminarsi, garantito dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e dallo Human Rights Act 1998.

La decisione riguarda un caso scozzese: la sig.ra Montgomery, malata di diabete e in attesa di un bambino, è seguita durante la gravidanza dal dott.ssa McLellan, ginecologa presso l’ospedale di Bellshill, nel Lanarkshire. A causa del diabete, la gravidanza della sig.ra è segnalata dal medico curante come una gravidanza ad alto rischio e la paziente è sottoposta a un monitoraggio più intensivo. Il diabete può, infatti, avere effetto sulla crescita del feto e determinare un elevato peso del bambino al momento della nascita, con il rischio di distocia delle spalle. La distocia delle spalle, complicanza del parto piuttosto rara, si verifica quando le spalle del feto non escono spontaneamente dall’utero materno dopo la fuoriuscita della testa, con possibile asfissia e conseguenti danni, fino alla morte. La distocia è un evento imprevedibile: benché sia frequentemente associata a un aumento di peso del feto, la stima del peso del feto effettuata tramite esami ecografici non ha una capacità predittiva. In caso di distocia, il ginecologo deve agevolare la nascita del neonato effettuando repentinamente una particolare manovra ostetrica. Il trattamento della distocia può essere dannoso sia per la mamma sia per il bambino, ma i rischi del verificarsi di un danno sono molto bassi: nel corso del processo è emerso che la distocia delle spalle in mamme diabetiche ha una probabilità di verificarsi del 9-10%, ma esiste lo 0,2% di probabilità che, in caso di distocia, si realizzi una compressione del plesso branchiale del feto e lo 0,1% di probabilità di morte del feto per una prolungata asfissia.

La dott.ssa McLellan informa la sig.ra Montgomery della possibilità che il bambino sia più grande della norma, ma senza comunicare il rischio di una distocia delle spalle.  Al momento del parto, tuttavia, l’evento si verifica e, nonostante la ginecologa esegua correttamente la manovra ostetrica, il bambino rimane in carenza di ossigeno per dodici minuti, con conseguenti danni fisici e cerebrali.

La paziente conviene in giudizio la dott.ssa McLellan e la struttura sanitaria in cui è avvenuto il parto, richiedendo il risarcimento del danno cagionato dal medico per omessa comunicazione del rischio di distocia delle spalle e il risarcimento per i danni subiti dal bambino.

Nel corso del processo il medico giustifica la sua omissione nelle informazioni fornite alla paziente sulla base della c.d. eccezione terapeutica, trattandosi di un’omissione che aveva la finalità di proteggere la salute della gestante e non indurla in scelte terapeutiche contrarie al suo stesso interesse. Inoltre, in casi simili, la migliore prassi ginecologica non consiglia di sottoporre la paziente a parto cesareo. La comunicazione del rischio, pertanto, non avrebbe comunque inciso sulla terapia proposta dal medico e avrebbe solo avuto l’esito di impressionare la paziente.

Le ragioni del medico trovano accoglimento nei precedenti gradi di giudizio, dove la domanda dell’attrice è respinta, ritenendo che la comunicazione da parte del medico curante del rischio di distocia non avrebbe inciso in alcun modo sull’evento dannoso.

La Corte Suprema riforma la sentenza e stabilisce che il medico aveva il dovere di informare la paziente del rischio di distocia delle spalle. Indipendentemente dal rischio di danni al feto, la distocia è di per sé un rischio che può influenzare le scelte terapeutiche della gestante. L’omessa informazione lede il diritto della paziente ad autodeterminarsi ed è causa anche dei conseguenti danni al feto: se infatti la sig.ra Montgomery avesse avuto consapevolezza del rischio avrebbe con ogni probabilità richiesto di sottoporsi ad un cesareo e, i danni al feto non si sarebbero verificati. La Corte Suprema accoglie pertanto entrambe le domande dell’attrice.

La motivazione della sentenza è in gran parte dedicata all’analisi del rapporto tra il dovere di informazione gravante sul medico curante ed il diritto fondamentale del paziente ad autodeterminarsi nelle scelte terapeutiche. Nel precedente Sidaway deciso nel 1985, la House of Lords aveva stabilito che il medico curante è responsabile per omessa informazione al paziente dei rischi connessi all’evento nel caso in cui il rischio, benché esiguo, sia un rischio materiale. Il rischio è materiale se un medico nelle stesse condizioni, usando la diligenza e la perizia media del professionista, lo riterrebbe significativo e quindi lo comunicherebbe al paziente.

La Corte Suprema nella sentenza Montgomery stabilisce che la regola Sidaway, che esonera da responsabilità il medico che si conforma allo standard di diligenza professionale, non garantisce una tutela effettiva del diritto fondamentale del paziente di autodeterminarsi nelle scelte terapeutiche. Il diritto di autodeterminazione, che è espressione del diritto fondamentale al rispetto della vita privata (art. 8 CEDU), è effettivo solo se la scelta del paziente è determinante in ogni processo decisionale che riguarda la cura. La Corte EDU ha affermato in più occasioni che l’effettività della tutela dell’art. 8 CEDU impone la garanzia di processi decisionali rispettosi del diritto del cittadino di autodeterminarsi: “[…] occorre stabilire se, tenendo conto delle particolari circostanze del caso e della natura della decisione che deve essere presa, il cittadino sia stato coinvolto nel processo decisionale, valutato nel suo complesso, in modo sufficiente a garantire la protezione del suo interesse” (Tysiac v. Poland (2007) 45 ECHR 947). Nello stesso senso, l’art. 5 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo e la Dignità dell’Essere Umano Riguardo alle Applicazioni della Biologia e della Medicina, che tutela il consenso libero ed informato, stabilisce che il paziente deve ricevere “ […] una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi […]”.

In questa prospettiva, il modello paternalistico che caratterizzava in passato il rapporto medico-paziente è sostituito da un diverso modello, in cui il paziente non è più una figura totalmente affidata alle decisioni del medico, ma è un adulto consapevole del fatto che la medicina non è una scienza esatta, il quale, come un consumatore, deve essere posto nelle condizioni di compiere scelte libere e di accettarne i rischi conseguenti in piena consapevolezza.  Il dovere di informazione che incombe sul medico, di conseguenza, assume un diverso contenuto: il medico non deve comunicare solo quei rischi qualificabili come significativi, secondo uno standard di diligenza professionale, ma deve dare comunicazione anche di quei rischi che, se comunicati, modificherebbero le scelte terapeutiche di un paziente ragionevole. Il medico, quindi, incorre in responsabilità ogniqualvolta omette di comunicare dei rischi, che un paziente ragionevole riterrebbe significativi. La materialità del rischio non è determinata semplicemente dalla probabilità di accadimento, da una pluralità di fattori, quali la natura del rischio, gli effetti benefici della terapia per il paziente, l’esistenza di alternative terapeutiche e i relativi rischi, gli effetti che il verificarsi del rischio avrebbero sulla vita del paziente ecc. La cd. eccezione terapeutica, inoltre, non può essere utilizzata dal medico per imporre una scelta al paziente, anche se si tratta di una scelta nel suo migliore interesse.

La Corte Suprema del Regno Unito ammette che lo standard di diligenza imposto al medico amplia la responsabilità del medico per omessa informazione e può determinare un certo “grado di imprevedibilità” in materia, ma afferma che: “ […] il rispetto per la dignità dei pazienti non richiede niente di meno”.