Chi governa in Turchia? Brevi considerazioni sullo scontro interno all’Islam politico turco e con l’opposizione laica a seguito della decisione della Corte costituzionale sul judicial review dei decreti
Con la decisione E2018/117 K2023/212 del 7 dicembre 2023 (pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 4 giugno 2024), la Corte costituzionale turca (Anayasa Mahkemesi – AYM) ha annullato alcune disposizioni del decreto (Kanun hükmünde kararname – KHK) n. 703 recante ‘Emendamenti ad alcune leggi e decreti legge per l’adeguamento alla riforma costituzionale’ emanato il 2 luglio 2018 ai sensi della legge di autorizzazione n. 7142 del 10 maggio 2018. In altre parole, la AYM ha annullato alcune delle micro-disposizioni contenute nel KHK n. 703/2018 aventi lo scopo di dare attuazione alla riforma costituzionale che nel 2017 aveva introdotto il cosiddetto “governo del Presidente” in sostituzione della forma di governo parlamentare (legge n. 6771, 21 gennaio 2017).
Contro questo decreto, il principale partito di opposizione (il Partito popolare repubblicano, Cumhuriyet Halk Partisi – CHP) aveva fatto ricorso alla Corte costituzionale, implicitamente richiedendole di prendere una posizione contro la costruzione dell’autoritarismo (quantomeno) competitivo che il Partito della giustizia e dello sviluppo (Adalet ve Kalkınma Partisi – AKP) sta realizzando nel paese sin dalla sua prima elezione nel 2002. Il ricorso si inserisce altresì nell’annosa questione relativa alla competenza della AYM al judicial review dapprima dei decreti legge e, a seguito dell’introduzione del presidenzialismo, dei decreti presidenziali.
Sul punto, in effetti, i giudici costituzionali hanno seguito una giurisprudenza ondivaga. Nella vigenza del sistema parlamentare, ma prima che l’AKP divenisse forza di governo, la Corte aveva stabilito che i decreti dell’Esecutivo potessero essere considerati legittimi solo se emanati in casi di necessità, urgenza e importanza (AYM E1989/4, K1989/23, 16 maggio 1989); la AYM aveva altresì disposto che tali decreti non potessero mai riguardare materie relative ai diritti e alle libertà fondamentali e potessero disciplinare ma giammai limitare i diritti sociali ed economici (AYM E1990/12, K1991/7, 4 aprile 1991). La Corte si era anche soffermata sui decreti che l’Esecutivo era competente ad adottare durante la vigenza dello stato di emergenza, secondo la disciplina prevista dall’art. 121 della Costituzione del 1982 per le circostanze straordinarie dovute a disastri naturali, crisi economiche, diffusi atti di violenza o severi rischi per l’ordine pubblico. Nello specifico, la AYM aveva stabilito che tali decreti dovessero rispettare la natura transitoria degli eventi di cui erano conseguenza e non potessero pertanto introdurre o modificare norme dal carattere permanente; in ogni altro aspetto, inoltre, essi avrebbero dovuto essere considerati alla stregua dei decreti ordinari dell’Esecutivo e dunque rispettare le stesse condizioni di questi ultimi con riferimento al controllo di costituzionalità (AYM E1990/25, K1991/1, 10 gennaio 1991; AYM E1991/6, K1991/20, 3 luglio 1991). Tuttavia, a seguito della riforma costituzionale del 2010 (legge n. 5982, 7 maggio 2010) che aveva consentito ‘l’impacchettamento’ della AYM con giudici filo-governativi, la giurisprudenza costituzionale aveva subito un totale overruling, avendo la Corte dichiarato l’assenza in Costituzione di parametri per imporre alcun limite all’approvazione di decreti ordinari (AYM E2011/60, K2011/147, 27 ottobre 2011). All’indomani del fallito golpe del 2016 – cui ha fatto seguito l’approvazione di numerosi decreti emergenziali ‘epurativi’ – la Corte aveva infine dichiarato la propria incompetenza al controllo di costituzionalità degli stessi (AYM E 2016/166 K 2016/159 ed E 2016/167 K2016/160, 12 ottobre 2016, nonché E 2016/171 K 2016/164 ed E 2016/172 K2016/165, 2 novembre 2016).
La decisione che qui si discute rappresenterebbe, dunque, una nuova inversione giurisprudenziale, pur dovendosi tenere conto della particolare circostanza per cui la Corte ha dovuto valutare la conformità alla Costituzione di un decreto presidenziale emesso a partire da una legge di autorizzazione approvata prima che la riforma costituzionale del 2017 sostituisse i KHK con i decreti presidenziali e pertanto ricollegabile alla disciplina ex art. 82 della versione originaria della Costituzione del 1982 relativa alla delega del potere legislativo al Consiglio dei Ministri, nei limiti stabiliti dall’art. 91. Pur con questo caveat, è interessante notare come la AYM non abbia esitato a dichiarate la propria competenza a verificare la compatibilità dei decreti sia con la Costituzione che con la legge di autorizzazione, elaborando un test in tre parti: i) conformità del decreto con gli articoli 91 e 163 della versione originale della Costituzione del 1982 (poi abrogati con la riforma costituzionale del 2017), che sottraggono alcune materie alla disciplina per decreto; ii) conformità con l’oggetto, l’obiettivo, le finalità e i principi che la Grande Assemblea ha definito nella legge di autorizzazione; iii) conformità con la Costituzione in termini generali. Nell’opinione della Corte, alcune disposizioni del KHK n. 703/2018 non avrebbero rispettato le finalità e gli obiettivi della legge di autorizzazione, peraltro violando il limite previsto dall’art. 91 Cost. circa l’impossibilità di intervenire con decreto su questioni riguardanti i diritti e le libertà fondamentali. In breve, il decreto, il cui scopo doveva essere di disciplinare il trasferimento delle competenze dell’Esecutivo dal Consiglio dei Ministri al Presidente a seguito della modifica della forma di governo, avrebbe invece ecceduto il proprio scopo finendo per attribuire eccessive competenze al Presidente. La AYM, tuttavia, non ha dichiarato incostituzionale l’intero decreto, ma ne ha censurato selezionate disposizioni in una sentenza con effetti differiti (art. 115.3 Cost.) che garantisce alla Grande Assemblea un anno per intervenire con una nuova disciplina.
Accantonando i tecnicismi della decisione, occorre precisare che essa interviene su questioni che hanno profondamente diviso la società turca in tempi recenti. Tra le disposizioni censurate, infatti, vi sono quelle relative alla nomina dei rettori universitari e del governatore della Banca centrale.
Quanto al primo punto, il KHK n. 703/2018 aveva – attraverso la modifica di pochissime parole – sottratto al Consiglio dell’Istruzione superiore (Yükseköğretim Kurulu – YÖK) la competenza ad indicare i candidati per la nomina presidenziale dei rettori delle università pubbliche e ad emettere un parere vincolante per la nomina dei rettori delle università private, collocandola nella discrezione del Presidente e abrogando anche la condizione che imponeva una seniority di almeno tre anni nel ruolo di professore ordinario. Immediata conseguenza di questa modifica era stata la nomina, nel gennaio 2021, di Mehmet Bulu, noto per le simpatie verso l’AKP e accusato di aver plagiato alcune parti della propria tesi di dottorato, alla carica di rettore della prestigiosa università Boğaziçi di Istanbul. L’evento aveva attirato anche l’attenzione internazionale in ragione delle proteste che gli studenti e i docenti di questa università avevano organizzato e che si erano ben presto trasformate, come già nel caso di Gezi Parkı nel 2013, in occasioni per l’espressione di un più vasto dissenso verso le politiche governative a seguito della violenza con cui le forze di polizia avevano tentato di reprimere le prime manifestazioni e della campagna di arresti ed espulsioni dall’università che era seguita.
Quanto alla seconda disposizione censurata, il KHK n. 703/2018 aveva introdotto la possibilità, in spregio all’indipendenza della Banca, che il Presidente – già competente alla nomina del governatore della Banca centrale – ponesse anticipatamente fine al suo mandato, come in effetti accaduto il 6 luglio 2019, quando Murat Çetinkaya era stato sostituito da Murat Uysal. La decisione presidenziale si collocava nel solco del dibattito circa le più opportune politiche economiche da adottare in risposta alla crescente crisi economica e finanziaria che si abbatte dal 2018 sul paese, soprattutto relativamente alla possibilità di tagliare o meno i tassi di interesse.
Applicando il test per il controllo di costituzionalità dei decreti, la AYM ha stabilito che entrambe le disposizioni eccedessero lo scopo della legge di autorizzazione e, disciplinando aspetti relativi all’assunzione di pubblici uffici sottratti alla decretazione dalla versione della Costituzione del 1982 in vigore al momento dell’approvazione della legge di autorizzazione, dovessero quindi essere dichiarate incostituzionali.
L’immediata reazione del Ministro della giustizia Yılmaz Bakan Tunç, avvenuta attraverso i suoi account social, è stata di evidenziare il parziale accoglimento da parte della Corte, peraltro ricordando che il parametro da essa utilizzato sia stato superato dall’art. 104 Cost. come novellato che attribuisce al Presidente il potere di nominare i vertici della pubblica amministrazione attraverso decreti presidenziali. Pertanto, secondo il Ministro Tunç, la reazione entusiasta di coloro che hanno sostenuto, a partire da questa sentenza, che i poteri di nomina del Presidente e le altre competenze attribuitegli dalla Costituzione, dalle leggi o dai decreti presidenziali secondo la nuova forma di governo siano da ritenersi illegittimi, è infondata.
Questa chiara presa di posizione non rappresenta una novità ma si pone in linea di continuità con le recenti dinamiche che hanno contrassegnato le relazioni tra l’Esecutivo e la AYM. Già in passato le Corti ordinarie erano state incoraggiate a non procedere al rilascio dei giornalisti Can Dundar e Erdem Gul a seguito delle pronunce con cui la Corte costituzionale aveva evidenziato la violazione dei loro diritti durante il processo al quotidiano Cumhuriyet, così come a disattendere la decisione della Corte nel caso Can Atalay, che peraltro chiamava in causa la rimozione dell’immunità parlamentare. Allo stesso modo, un tentativo di delegittimazione della AYM era stato osservato allorché l’Esecutivo aveva proposto una interpretazione ‘elastica’ delle norme relative alla nomina e rimozione di pubblici ufficiali, nello specifico di membri del potere giudiziario, nel caso che aveva coinvolto il giudice Adem Kartal, su cui si è recentemente pronunciata la Corte europea dei diritti umani.
Sebbene, come anticipato, molti abbiano ritenuto la decisione in parola una chiara espressione della volontà della Corte costituzionale di porsi come garante dei diritti fondamentali e di schierarsi nuovamente al fianco delle forze laiche che provano a contrastare la regressione democratica che l’AKP sta consolidando, è opinione di chi scrive che una differente lettura del caso possa essere proposta. Sin dall’elezione del 2002, infatti, l’AKP ha tentato – riuscendoci – di contrastare la presenza nelle istituzioni delle forze espressione del laicismo di eredità kemalista favorendo le condizioni (e spesso creandole, come nel caso della riforma costituzionale del 2010) per la penetrazione di elementi affiliati alla galassia dell’Islam politico turco. Una volta consolidato il potere e marginalizzata l’influenza delle forze laiche, tuttavia, le mille sfumature che caratterizzano i gruppi islamici sono emerse. Lo si è notato con chiarezza in occasione del fallito golpe del 2016, il cui orchestratore è ufficialmente il movimento Hizmet dell’imam Fethullah Gülen. È forse meno noto che anche la maggioranza dei giudici della AYM è a vario titolo avvicinabile alla corrente islamica guidata dalla fondazione Hak-Yol, un tempo alleata dell’AKP e poi entrata in contrasto con esso, come lascerebbe supporre la scelta dei giudici costituzionali di confermare la presidenza della Corte nelle mani di Zühtü Arslan nel 2023, invece di sostenere il candidato di Erdoğan.
Partendo da queste note di contesto si potrebbe così ipotizzare che la Corte costituzionale abbia voluto ricordare all’Esecutivo la propria presenza e il proprio ruolo nell’architettura istituzionale, emettendo una sentenza che solo accidentalmente supporta le posizioni del CHP e dei secolaristi.