Cercasi primus inter pares disperatamente
Può esser parso un caveat del tutto ridondante, fin troppo didascalico e ultroneo. Eppure, la precisazione caduta nel bel mezzo del discorso di fine anno del Capo dello Stato circa la non eleggibilità diretta del Presidente del Consiglio non era così scontata. Sarà sembrato un ribadire l’ovvio, che poi tanto ovvio non è, a guardare alcuni degli eventi politici di quest’ultimo scorcio di legislatura verso una delle più drammatiche contese elettorali della storia repubblicana.
L’art. 92 della Costituzione dispone con chiarissima laconicità che è il Presidente della Repubblica a nominare il Presidente del Consiglio (e, su proposta di questi, i ministri), come – almeno formalmente – avviene in tutte le forme di governo parlamentari. In una forma di governo debolmente razionalizzata come la nostra, poi, con una Costituzione che, per vocazione d’origine, guarderebbe ad un sistema elettorale proporzionale, tale prerogativa presidenziale si spiega ancor di più per il valore di interpretazione della scena politica affidato alla saggezza istituzionale ed equidistante del Capo dello Stato. Mentre, cioè, il monarca inglese apprende l’identità del Primo Ministro da nominare dalle prime pagine dei giornali il giorno dopo le elezioni generali, avendo il sistema elettorale britannico la specificità di indicare tempestivamente – salvo vistose e rarissime eccezioni – il partito di governo ed il suo leader come Premier; mentre il presidente tedesco suggerisce al Bundestag il nome di un cancelliere perché sia votato senza discussione, affidandosi anche in questo caso ad un responso di voto pressoché automatico e limitandosi a tener d’occhio il calendario per regolare i tempi della formazione del governo disciplinati tassativamente dalla Legge Fondamentale, il Presidente della Repubblica nostrano è più esposto ad una qualche discrezionalità necessaria alla lettura degli eventi e alla ricerca di equilibri ed intese. In qualche fase della vita repubblicana quella discrezionalità si è fatta inesistente, vittima dell’arroganza delle segreterie dei partiti, ma anche della ultradecennale continuità al governo della DC, o a causa del bipolarismo tutto all’italiana; in qualche altra fase è stata ben più visibile ed attiva, anche qui a causa del bipolarismo tutto all’italiana. Sta di fatto che, data la nostra esperienza politica ed istituzionale, siamo molto meno impressionabili degli inglesi che, all’indomani delle elezioni politiche del maggio 2010, tradivano la preoccupazione di veder la Regina scomodata dall’empireo rarefatto di Buckingham Palace per dirimere l’incandescente materia politica alla ricerca di una possibile coalizione di governo e di un Primo Ministro a guidarla.
Tutto questo si spiega a maggior ragione perché l’art. 94, altrettanto stringatamente, prevede che «Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere». In questo caso, si parla di Governo inteso nella sua collegialità e non certo e solo del suo Presidente, le cui funzioni sono esplicitate all’articolo seguente nei termini di direzione della politica generale del Governo e di mantenimento dell’unità di indirizzo politico. Il Presidente del Consiglio è, dunque, un primus inter pares, ossia una figura gerarchicamente omogenea rispetto alla compagine dei suoi ministri, rispetto ai quali non può praticare alcuna disciplina e tantomeno rimozione.
Non tutte le forme di governo parlamentari adottano il modello di un primus inter pares: al contrario, tanto più razionalizzata è la forma di governo, quanto più il ruolo del premier si distingue all’interno del potere esecutivo. Esempio più drastico in questo senso è senza dubbio quello britannico, un primo sopra ineguali, che raccoglie su di sé la carica di leader del partito di maggioranza e di capo del governo, disponendo con pienezza di poteri della sorte dei ministri del suo gabinetto. Primo tra ineguali è, invece, il cancelliere tedesco, figura a capo di un governo di coalizione, non necessariamente coincidente con la leadership di partito, ma che dispone discrezionalmente dei suoi ministri, ad esso gerarchicamente subordinati.
Quello che si evince dall’architettura costituzionale italiana è, dunque, che la fiducia è votata al Governo collegialmente perché essa non serve a designare un capo del governo, quanto a sostenere un programma, di fronte al quale la maggioranza parlamentare promette l’impegno di contribuire al suo svolgimento, oltre alle tipiche responsabilità di indirizzo e controllo nei confronti dell’Esecutivo. La figura del Presidente del Consiglio è, in questo senso, funzionale a servire meglio l’esecuzione del programma: si veda, non a caso, la descrizione delle sue mansioni, tutte rivolte a coordinare le azioni necessarie al suo adempimento e non certo alla manutenzione dei rapporti di potere tra ministri e tra le componenti partitiche che formano i governi di coalizione. Questa è la specificità del nostro parlamentarismo: che il perno del potere esecutivo sta nel programma che esso intende svolgere, non nel capo del governo, reso, piuttosto, strumento attraverso cui si coordinano meglio le politiche del governo sottintese dal programma stesso. Non la persona, ma le idee, quindi, che, in virtù della sua collocazione politica, del suo orientamento e del suo spessore, quel Presidente del Consiglio potrebbe aiutare più e meglio di altri a concretizzare. Nel nostro caso, allora, la tipica condivisione del potere delle forme di governo parlamentari non è tanto emblematizzata dalla coincidenza in capo al Primo Ministro della leadership del partito di maggioranza e del ruolo di governo, ma dalla collaborazione tra Parlamento (maggioranza) e governo verso lo svolgimento di un programma che ognuno fa proprio secondo le responsabilità che gli sono costituzionalmente attribuite.
La realtà istituzionale e politica italiana pare radicalmente dimentica di tutto questo, e non certamente da oggi, verso un’opposta visione ultrapersonalistica della politica e delle istituzioni. Per rimanere alla stretta attualità, dei 215 simboli elettorali depositati nei giorni scorsi al Viminale, quelli che davvero parteciperanno alla contesa elettorale hanno un chiaro tratto comune: tutti hanno inserito nel logo il nome del loro candidato alla Presidenza del Consiglio – che è, in più di un caso, la ragione della loro più immediata riconoscibilità ed identità. L’hanno fatto tutti tranne il PD che, invece, forse sembrava quello ad essersi effettivamente precostituito i termini per una simile indicazione simbolica, quando ha indetto le primarie per la designazione diretta del candidato a Palazzo Chigi.
Ora, e detto incidentalmente, ci sarebbe più di una ragione per credere che quelle primarie abbiano servito più un’eterogenesi dei fini (rianimare un elettorato sfinito e disamorato, e non solamente tra coloro che votano PD o Sel) che l’obiettivo proprio di indicazione dal basso del candidato alla guida del governo, dal momento che tanto l’esito elettorale ancora incerto, soprattutto al Senato, quanto l’andamento della stessa legislatura una volta avviata potrebbero marginalizzare del tutto quel responso di voto – come ha scritto Riccardo Barenghi alias Jena su La Stampa: «Domani il centrosinistra sceglie il premier – che magari non sarà mai premier».
Ma la vera questione è un’altra: in questa ormai ventennale, tumultuosa stagione di riforme mancate, di vicoli ciechi, di avventure senza futuro, il dettato costituzionale è stato svuotato o, in alternativa, stravolto da molte trasformazioni di significato, creando l’illusione di una quasi realtà parallela. Perché praticare l’insano strabismo che tiene insieme l’impianto costituzionale sopra descritto e la convergenza politica verso un modello di premiership «europea», all’inglese o alla tedesca, per intenderci, nelle cui forme di governo, tuttavia, il ruolo del capo del governo è descritto ed inteso diversamente che da noi? A quale scopo introdurre un sistema come quello delle primarie o, comunque, l’indicazione generica sui simboli del capo del governo (detto al netto dell’attuale legge elettorale), se il Presidente del Consiglio non è gerarchicamente superiore al resto dell’Esecutivo, quale elemento di coesione e di tenuta della stessa coalizione di governo? Perché introdurre rimedi e variabili almeno parzialmente spurii dall’essenza della nostra forma di governo senza una riflessione organica e coerente circa le sue debolezze e le possibili, auspicabili ipotesi di manutenzione? Perché ostinarsi a guardare il dito e mai seriamente, con senso di realtà e sapienza, la luna?
Per quel che può servire, in qualità di semplice cittadino (disoccupato!) e appassionato di politica e diritto costituzionale, sono assolutamente d’accordo!
Tuttavia, anche nel pieno accoglimento del sua idea, inutile nasconderci dietro un dito: anche volendo evitare di “ostinarsi a guardare il dito” e volendo quindi guardare “con senso di realtà e sapienza, la luna”, le idee riguardo le “auspicabili ipotesi di manutenzione” sono tutt’altro che chiare!
Il problema è che se a formulare le “auspicabili ipotesi di manutenzione” sono professoroni di diritto costituzionale il risultato è una bella riforma che, però, alla prova dei fatti, nella migliore delle ipotesi rimane lettera morta, mentre nella peggiore genera effetti collaterali non previsti che risultano essere la classica “cura peggiore del male” (come l’idea che l’introduzione del sistema elettorale maggioritario del 1993 avrebbe diminuito fortemente il numero dei partiti, quando invece il risultato è stato l’esatto opposto!)
Se invece a formulare le “auspicabili ipotesi di manutenzione” sono politici di grande esperienza e con buona preparazione giuridica allora il risultato sarà una riforma inevitabilmente condizionata dagli interessi di parte (coalizione e/o singolo partito) e ben difficilmente sarebbe una buona riforma…
Insomma, sembra che siamo di fronte al classico problema della quadratura del cerchio!