I casi di partisan gerrymandering non sono giustiziabili. La Corte Suprema USA invoca la political question doctrine in Rucho v. Common Cause
Lo scorso 27 giugno la massima istanza giurisdizionale americana ha reso l’attesissima decisione sulla giustiziabilità dei casi di partisan gerrymandering. La sentenza in oggetto (Rucho v. Common Cause, caso consolidato con Lamone v. Benisek) vanifica le speranze dei molti che auspicavano un intervento nel senso della fissazione di manageable standards diretti ad identificare univocamente tale pratica sì da dichiararne l’incostituzionalità. La Corte, pur molto divisa (5 -4), ha concluso per la non giustiziabilità di tali casi, in quanto intrinsecamente implicanti valutazioni politiche dalle quali le Corti federali devono astenersi. La Corte Suprema invoca definitivamente la political question, così evitando di rispondere alla «original unanswerable question (How much political motivation and effect is too much?)» rimasta in sospeso per circa quarant’anni, che si risolve nell’impossibilità per le corti di pronunciarsi sulla costituzionalità delle voting maps che discriminano gli elettori di una certa area politica, differentemente da quanto avviene, pur con una giurisprudenza non sempre lineare, per le mappe che discriminano gli elettori appartenenti ad un determinato gruppo etnico.
La political question doctrine è legata a doppio filo alla justiciability, concetto che esprime la sussistenza della giurisdizione in capo alle corti solo ai fini dell’esclusiva trattazione di questioni giuridiche. Quando si è di fronte ad una decisione di non giustiziabilità dovuta alla presenza di una political question, la materia di cui si tratta è ascritta dalla stessa Costituzione ad un altro branch, oppure è al contrario non sufficientemente definita e quindi non costituzionalmente regolata. È quindi nella Costituzione che sono stabilite le attribuzioni degli organi costituzionali, ma se viene in questione un caso nel quale non sono coinvolti specifici doveri costituzionali, la materia viene allora regolata dai meccanismi attraverso cui si svolge il processo democratico. Dacché la Corte non può esprimersi su questioni politiche, spetta alle maggioranze legittimate dal voto popolare occuparsene. Madison scriveva nel Federalist n°48 che ogni organo titolare di un potere costituzionalmente sancito non deve esercitare alcuna forma di overruling influence verso gli altri organi. Se le corti si occupassero di questioni che implicano valutazioni politiche, ci troveremmo di fronte ad una violazione dei limiti e dei doveri imposti al potere giudiziario dall’Articolo III della Costituzione. L’estensione della giustiziabilità alle questioni squisitamente politiche finirebbe per minare il sistema di checks and balances che assicura la separazione dei poteri. Sebbene le radici della teoria siano rinvenibili nello storico caso Marbury v. Madison (1803), la «modern doctrine» si fa risalire a Baker v. Carr (1962), decisione in cui vengono elencati i fattori individualmente sufficienti e collettivamente necessari che individuano la sussistenza di una political question ed il conseguente difetto di giurisdizione della Corte.
In Rucho v. Common Case i giudici di area conservative si pongono in una posizione ancor più radicale di quella espressa nella sentenza Vieth v. Jubelirer (2004), nella quale, anche se la maggioranza si dichiarava a favore della non giustiziabilità di tutte le political – gerrymandering claims, il Giudice Kennedy in una concurring opinion non escludeva che in futuro si potessero trattare ricorsi analoghi. Nella sentenza Davis v. Bandemer (1986) invece, pur non riconoscendo nel caso di specie una condotta contraria alla Equal Protection Clause, la maggioranza era concorde sulla giustiziabilità del caso (per una rassegna dei precedenti in materia si rinvia ad un precedente post).
Poco più di un anno fa, la Corte Suprema aveva invece rinviato alle corti inferiori dei casi di partisan gerrymandering per motivi procedurali (Gill v. Whitford; Benisek v. Lamone), ma lasciando comunque aperto uno spiraglio all’accoglimento di un futuro ricorso redatto secondo determinati parametri, messi nero su bianco nella concurring opinion alla sentenza Gill firmata dalla Giudice Kagan (per ulteriori dettagli si rinvia ad un precedente post).
Tuttavia, nella decisione qui in commento, il Giudice Roberts (estensore della majority opinion), scrive senza mezzi termini che quella di “ricollocare” quote di potere politico tra i due maggiori partiti è una competenza che esorbita da quelle spettanti ai giudici federali, non sussistendo in Costituzione alcun riconoscimento di tale autorità e non rintracciando nemmeno nelle fonti di rango legislativo delle disposizioni dirette a delimitare e dirigere tale attività. Non si intende con queste parole legittimare il partisan gerrymandering, si riconosce anzi che una «excessive partisanship» porta a risultati che a ragione sembrano ingiusti. La constatazione della contrarietà di tale pratica ai principi democratici non implica però che debbano essere i giudici a porre rimedio a tale situazione. Sebbene le corti non debbano essere investite di tali questioni, gli elettori non rimarrebbero però, ad avviso della maggioranza, privi di rimedi nel contrasto al partisan gerrymandering. A questo riguardo si fa l’esempio della Florida, la cui Costituzione è stata di recente emendata, nel senso della messa a punto di «fair districts». Ma la domanda di tutela del principio di uguaglianza del voto rimane sostanzialmente senza una risposta da parte dei giudici di Washington. Tale stato di cose viene criticato molto duramente nella dissenting opinion firmata dalla Giudice Kagan (cui si sono associati i Giudici Bader Ginsburg, Breyer e Sotomayor), nella quale enfaticamente si afferma che la maggioranza ha in questa sede dichiarato «for the first time in this Nation’s history» di non poter far nulla di fronte ad una violazione costituzionale acclarata, che calpesta i diritti di centinaia di migliaia di cittadini americani. Sebbene la maggioranza dei giudici si sia dichiarata mossa dall’intento di difendere i fondamenti della democrazia americana, non lo ha tuttavia fatto veramente, in quanto «none is more important than free and fair elections».
Tale decisione avrà sicuramente i suoi più immediati effetti sulle prossime pronunce riguardanti le voting maps di Michigan e Ohio (per una ricostruzione di tali vicende giudiziarie si rinvia ad un precedente post). La tornata elettorale del 2020 è vicina, e allo stato si andrà al voto con mappe elettorali messe a punto per lo più da state legislatures di orientamento repubblicano. Sembra davvero difficile che comitati o associazioni di cittadini riescano in tempo utile a far approvare emendamenti costituzionali che si prefiggono l’introduzione di «fair districts» o di commissioni indipendenti di redistricting su modello dell’Arizona. Senza contare il fatto che, dati i progressi tecnologici che hanno interessato questi ultimi anni, il procedimento di redistricting è diventato un’operazione molto sofisticata: grazie all’utilizzazione di determinati algoritmi, è possibile costituire collegi che apparentemente soddisfano criteri di «fairness», ma che in realtà rispondono a logiche di parte. A seguito di tali considerazioni, non parrebbe inopportuno affermare che, se i giudici valutassero il partisan gerrymandering, più che addentrarsi nel temuto «political thicket», ne rimarrebbero solamente sulla soglia, dovendosi concentrare il loro studio e la loro analisi su profili accentuatamente tecnici, come dimostrato dai numerosi briefs redatti da studiosi di statistica, informatica e scienza politica che sono stati posti all’attenzione della Corte Suprema nei casi di cui si è discusso.