Carter v. Canada. La Corte suprema canadese ritorna sulla questione del suicidio assistito e dichiara l’incostituzionalità del divieto generalizzato
Il 6 febbraio del 2015, pronunciandosi all’unanimità, la Corte suprema del Canada, con la sentenza Carter v. Canada ha dichiarato l’incostituzionalità del divieto generalizzato di suicidio assistito, previsto dagli articoli 14 e 241, lett. b del codice penale. Si tratta di una sentenza dalla portata storica: essa dispone l’overruling di una precedente decisione del 1993, nella quale analoga questione era stata rigettata, e si inserisce all’interno di un acceso dibattito pubblico, sia a livello canadese, come testimoniano le numerose proposte di legge e la nascita di diverse associazioni impegnate nella sensibilizzazione sul tema, che a livello comparato. Dibattito quest’ultimo sul quale, come cercherò di dire in conclusione, anche la sentenza Carter potrà incidere.
Ma andiamo con ordine. All’origine della decisione ci sono diversi ricorsi presentati alla Corte suprema della Provincia della British Columbia rispettivamente da: due coniugi che avevano aiutato un membro della loro famiglia a recarsi in Svizzera per sottoporsi al suicidio assistito; da un medico favorevole a tale pratica; da una malata terminale che avrebbe voluto avere la possibilità di ricorrere al suicidio assistito: da un’organizzazione non governativa impegnata nella lotta per la tutela diritti civili. Elemento comune di tali ricorsi era la presunta incostituzionalità delle disposizioni del codice penale che punivano il suicidio assistito rispetto all’art. 7 della Carta dei diritti e delle libertà, che riconosce il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza personale, e all’art. 15, che tutela l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. I ricorrenti sostenevano che tali violazioni non possono essere giustificate dalla clausola limitatrice contenuta nell’art. 1 della Carta dei diritti e delle libertà.
Tali pretese sono state dapprima accolte dalla Corte suprema della British Columbia per poi essere rigettate dalla Corte di appello della Provincia stessa e infine accolte nuovamente nella sentenza della Corte suprema del Canada.
Va rilevato che nel 1993 la Corte suprema con la sentenza Rodriguez v. British Columbia aveva affermato, in relazione alle medesime norme penali, che un’eventuale violazione dell’art. 15 era da ritenere giustificata sulla base dell’art. 1, poiché rispetto ai diritti dei singoli ricorrenti doveva prevalere l’interesse dello Stato alla protezione del “principio della sacralità della vita”.
In Canada il suicidio assistito ha rappresentato un tema ricorrente nei dibattiti parlamentari, soprattutto dai primi anni ’90 in poi, come testimoniano le sei proposte di legge volte a depenalizzarlo che sono state presentate dal 1991 al 2010. Nel 1994 era stata anche istituita all’interno del Senato una commissione speciale volta a esaminare gli aspetti legali, sociali ed etici dell’eutanasia e del suicidio assistito, il cui rapporto, adottato nel 1995, pur non suggerendo una depenalizzazione, consigliava l’adozione di misure meno severe contro chi aiuta una persona a suicidarsi. Il dibattito in seno al Parlamento non ha tuttavia portato a modificare la normativa vigente; le proposte di legge sono sempre state rigettate da una larga parte della maggioranza parlamentare. Ciononostante, nel 2014, il Parlamento del Québec, ritenendo di competenza delle Province la materia del suicidio assistito, ha adottato la Loi concernant les soins de fin de vie (la cui entrata in vigore è prevista per il 10 dicembre 2015), che autorizza i medici a praticare tale forma di assistenza.
La decisione della Corte, come richiede la Carta canadese dei diritti e delle libertà, si articola in due tappe. Innanzitutto, la Corte verifica se i parametri invocati sono stati violati. Nel caso di specie, essa ritiene violato l’art. 7, in particolare il diritto alla vita: la Corte evidenzia che un individuo, affetto da una malattia degenerativa, sapendo che non potrà chiedere a un medico di porre fine alle sue sofferenze quando, inevitabilmente, la sua malattia lo condurrà alla paralisi, potrebbe essere costretto a suicidarsi in anticipo, fintantoché ha le capacità fisiche per farlo.
Altri profili di violazione dell’art. 7 riguardano il diritto alla libertà e quello alla sicurezza personale, in quanto il divieto di ricorrere al suicidio assistito da un lato impedisce alle persone di agire sulla base delle proprie convinzioni e, dall’altro lato, le costringe a patire intollerabili sofferenze fisiche e psicologiche.
Nella seconda tappa, la Corte verifica se la violazione dell’art. 7 può ritenersi giustificata sulla base della clausola limitatrice ex art. 1, secondo il quale i diritti riconosciuti dalla Carta canadese dei diritti e delle libertà possono essere soggetti solo a limitazioni generali previste dalla legge e giustificate in maniera chiara in una società libera e democratica.
Al fine di determinare quali limitazioni dei diritti sono accettabili in una “società libera e democratica”, la Corte suprema è spesso portata a svolgere un’analisi di tipo comparato, evidenziando, di volta in volta, le caratteristiche che accomunano il Canada alle altre democrazie occidentali e lo distinguono dagli ordinamenti non democratici. In tal senso la sentenza Carter v. Canada non fa eccezione poiché la Corte suprema tanto della British Columbia quanto del Canada traggono dagli esempi stranieri importanti conclusioni riguardo alla possibilità di istituire un sistema più permissivo relativamente alla pratica del suicidio assistito.
La Corte esamina con particolare cura la legislazione e le prassi applicative degli Stati che hanno già legalizzato il suicidio assistito, in particolare dei Paesi Bassi, del Belgio e, negli Stati Uniti, dell’Oregon, per mostrare che esistono misure alternative in grado di proteggere i soggetti vulnerabili incidendo in maniera meno severa sui diritti riconosciuti dall’art. 7 di quanto non faccia il divieto generalizzato di suicidio assistito.
Al contrario, l’uso che il giudice supremo fa delle sentenze straniere in materia di morte medicalmente assistita pare essere del tutto marginale: si incontra soltanto una breve rassegna delle principali recenti decisioni sul tema nella parte introduttiva della sentenza. La Corte suprema sembra quindi, in questo preciso caso, affrancarsi dalla giurisprudenza straniera, dato che le sentenze che menziona seguono tutte un orientamento contrario alla pratica del suicidio assistito.
La Corte suprema rigetta infine l’argomentazione della c.d. slippery slope, avanzata dal governo federale, che esprime la preoccupazione di quanti temono che il venir meno del divieto generalizzato di suicidio assistito possa portare al diffondersi della pratica dell’eutanasia attiva negli ospedali e possa comportare un rischio per i soggetti vulnerabili. I giudici affermano, infatti, che il rischio che una persona sia aiutata a morire sulla base di una decisione affrettata, influenzata da condizionamenti esterni o dettata dalla sofferenza psichica, è già stato affrontato nel sistema medico canadese, in quanto si può scegliere di interrompere i trattamenti di sostegno vitale o di farsi somministrare dei sedativi nella fase terminale della propria malattia, i quali possono avere come effetto quello di anticipare il decesso. Ragionando per analogia, se è ormai pacificamente riconosciuto il diritto di rifiutare le terapie salvavita, non c’è motivo di sottoporre il suicidio assistito a un divieto generalizzato, poiché è già stato intrapreso il cammino lungo il terreno scivoloso delle decisioni sul fine-vita.
Avendo verificato che la violazione dell’art. 7 non può essere giustificata ex art. 1, la Corte suprema dichiara l’invalidità degli artt. 14 e 241, lett. b del codice penale. Tale dichiarazione è però sospesa per un periodo di dodici mesi, una scelta, questa, che la Corte suprema non motiva, ma che è ormai diventata una prassi nell’ordinamento canadese, sin dalla sua prima introduzione del 1985 con la sentenza Reference re Manitoba Language Rights. Come più volte ribadito dalla Corte suprema, la sospensione della dichiarazione ha come principale scopo quello di evitare che si verifichi un legal vacuum e di lasciare al Parlamento il tempo di adottare di una nuova soluzione normativa. Una preoccupazione, questa, che emerge chiaramente anche in Carter, ove la Corte ribadisce di non voler “usurpare il ruolo del Parlamento” ed auspica a più riprese un intervento del legislatore per disciplinare la materia del suicidio assistito.
La portata della decisione sembra andare ben oltre l’ordinamento canadese. Infatti, come è noto, la giurisprudenza della Corte suprema del Canada svolge un ruolo di primo piano nella formazione, attraverso la circolazione dei precedenti giudiziari, di un “diritto mondiale”. Essa è spesso utilizzata come punto di riferimento non solo da Corti nazionali, ma anche sovranazionali, come la Corte europea dei diritti dell’uomo o la Corte interamericana dei diritti umani. Peraltro, l’influenza esercitata dalla giurisprudenza canadese a livello internazionale emerge soprattutto con riguardo all’ambito della tutela dei diritti umani, questo per via del ricorso sempre più frequente ai precedenti stranieri in materia di diritti civili che la stessa Corte suprema ha fatto sin dal momento dell’entrata in vigore della Carta dei diritti e delle libertà. Tramite il costante riferimento alle decisioni straniere essa è infatti divenuta parte integrante di un più ampio dibattito a livello globale in materia di tutela dei diritti umani, un dibattito che ha finito per dare risalto alla stessa Carta dei diritti e delle libertà, la quale può oggi essere considerata come un’autorevole alternativa rispetto al Bill of Rights statunitense.
Poiché la giurisprudenza straniera ha fatto della decisione Rodriguez v. British Columbia, adottata a stretta maggioranza, un uso strumentale, volto a dimostrare l’esistenza di un “sentire comune” tra le democrazie occidentali circa la necessità di “non attraversare il Rubicone”, ossia di non legittimare la pratica del suicidio assistito, non possiamo evitare di chiederci se la sentenza Carter, sostenuta dal consenso unanime dei giudici della Corte suprema, avrà un’influenza altrettanto importante (e contraria) sulla giurisprudenza straniera in materia di suicidio assistito.
Carter v. Canada è la prima sentenza a porsi in netta discontinuità rispetto ad una serie di recenti pronunce a livello europeo e statunitense che si sono confrontate con il divieto generalizzato di suicidio assistito previsto dagli ordinamenti nazionali. Nello specifico la pronuncia canadese ribalta due argomenti alla luce dei quali sono state solitamente esaminate le questioni relative al fine-vita: l’incapacità del diritto di regolare una situazione in cui manchi un ampio divieto penale (il presupposto alla base della slippery slope) e la netta distinzione tra interruzione dei trattamenti di sostegno vitale e suicidio assistito.
In un contesto di “dialogo transnazionale” tra Corti costituzionali, nel quale la Corte suprema del Canada è percepita come un attore di primo piano, la sentenza Carter v. Canada rappresenterà senz’altro un precedente “ingombrante” al momento in cui altre Corti saranno nuovamente chiamate ad esaminare la questione particolarmente sensibile della legalizzazione della pratica del suicidio assistito.