Bruce Ackerman e la Civil Rights Revolution
Era atteso da tempo e le aspettative non sono state deluse: l’ultimo libro di Bruce Ackerman, The Civil Rights Revolution, presenta un articolato affresco del movimento per i diritti civili in America e delle dinamiche costituzionali che esso ha innsecato. Il volume costituisce la terza parte della serie We The People. Dopo Foundations (vol. 1, pubblicato nel 1991), e Transformations (vol. 2, pubblicato nel 1998), che hanno messo ha fuoco rispettivamente la creazione della costituzione federale, i Reconstruction Amendments e il New Deal, Ackerman affronta un altro periodo chiave del costituzionalismo americano: la Second Reconstruction. L’arco di tempo considerato va dal 1954 al 1974: le date sono state scelte in corrispondenza di due significative pronunce giudiziarie: nel 1954, la Corte Warren ha deciso Brown vs. Board of Education, aprendo la strada alla de-segregazione razziale nel sud degli Stati Uniti, nel 1974 la Corte Burger ha deciso Milliken vs. Bradley, ostacolando le iniziative volte al superamento della segregazione de facto nel nord.
Il contenuto del terzo volume di We the People era stato in parte anticipato dall’autore nei saggi The Living Constitution (in Harv L. Rev. 2007, 1737ss.) e Canonizing the Civil Rights Revolution: The People and the Poll Tax, quest’ultimo scritto con Jennifer Nou (in Nw. U. L. Rev. 2009, 63ss.). Dalla fine degli anni Novanta, la riflessione di Ackerman ha potuto giovarsi della pubblicazione di importanti opere di ricostruzione storica aventi ad oggetto proprio la Second Reconstruction (basti pensare a quelle di Mark Graber e di Taylor Branch), di lavori che hanno tematizzato il primato del popular o democratic constitutionalism rispetto ad un diritto costituzionale incentrato sulla sola giurisprudenza della Corte Suprema (si vedano, ad esempio, Larry Kramer, Mark Tushnet, Robert Post e Reva Siegel) e di studi che hanno riletto e ridimensionato la contrapposizione tra originalismo e living constitutionalism (ricordo, per tutti, Jack Balkin).
In The Civil Rights Revolution ritroviamo l’approccio tipico della teoria costituzionale di Ackerman: una concezione pluralistica e non formalistica della costituzione, che si concentra in particolare sui passaggi che hanno determinato una trasformazione costituzionale indipendentemente dall’utilizzo (o dall’integrale rispetto) della procedura di revisione di cui al V emendamento. Quest’ultima, infatti, riflette una concezione della costituzione in cui il perno è costituito dagli stati membri. Essa è stata superata, a cavallo della guerra civile e poi soprattutto nel XX secolo, da una concezione della costituzione che si fonda su un’identità nazionale definita a livello federale.
Anche per gli anni della Civil Rights Revolution, Ackerman impiega lo schema a cinque fasi (signal, proposal, triggering, ratification e consolidation), che racchiude un periodo esteso di deliberazione pubblica e autocosciente del popolo americano. La deliberazione popolare ha il suo punto di emersione in una serie di elezioni successive, le quali fanno sì che il mutamento costituzionale risulti dal frutto di un’azione cooperativa di Congresso, Presidente e Corte Suprema, azione che converge nell’adozione di una serie di landmark statutes e di precedenti e che costituisce l’equivalente di una formale revisione costituzionale. Le “riforme dal carattere rivoluzionario”, adottate dai political branches grazie a un consenso popolare sostenuto nel tempo e confermate dalla Corte Suprema, vengono quindi considerate espressione di higher lawmaking e contrapposte alla normal politics.
In The Civil Rights Revolution, il signal è rappresentato da Brown vs. Board of Education; ad esso segue, nel 1964 e dopo l’assassinio di John F. Kennedy, la proposal del Civil Rights Act. Nello stesso anno si collocano sia la triggering election del democratico Lindon Johnson alla presidenza, sia la ratification da parte della Corte Suprema, con le due decisioni che supportano la costituzionalità il Civil Rights Act (Heart of Atlanta Motel and Katzenbach vs. McClung). Come momento di consolidation dei nuovi principi viene individuata l’elezione alla presidenza, nel 1968, del repubblicano Nixon, che non rinnega i diritti civili conquistati in precedenza ed anzi è visto come un fautore del rinnovo del Voting Rights Act e dell’approvazione del Fair Housing Act. Alla base dell’azione degli organi costituzionali si pone il movimento per l’eguaglianza razziale e i diritti civili guidato da Martin Luther King, capace di mantenere viva un’elevata mobilitazione popolare (non disdegnando di catturare l’attenzione dell’opinione pubblica nazionale attraverso un sapiente uso dei mass media), e di tessere una proficua alleanza con Lindon Johnson. Accanto a King, Johnson e Nixon, Ackerman sottolinea il ruolo decisivo di Everett Dirksen, il leader del partito repubblicano al Senato, senza il quale non sarebbe stato possibile spezzare l’ostruzionismo trasversale dei racial conservatives al Congresso. In questo contesto – e in sintonia con la precedente concezione della dualist democracy – viene ricalibrato il ruolo della Corte Suprema e dei singoli Justices, di cui vengono valorizzate nel corso del libro non solo le opinioni dissenzienti e concorrenti, ma anche progetti di opinioni e bozze inedite. La Corte non decide infatti in totale isolamento, ma in un contesto nel quale si muovono attori politici e organi costituzionali, rispetto ai quali non può non relazionarsi. L’esame di singole pronunce nei vari settori della civil rights revolution evidenzia un coordinamento della Corte (più o meno riuscito a seconda dei casi) con il Presidente ed il Congresso, coordinamento caratterizzato da un alto tasso di fluidità e che si pone di là della contrapposizione un po’ stantia tra judicial activism e judicial restraint.
Ackerman poggia la sua ricostruzione della Second Reconstruction su tre puntelli: la molteplicità delle sfere sociali investite dall’higher lawmaking, l’utilizzo del government by numbers e il principio di anti-humiliation. Il riconoscimento della operatività della Civil Rights Revolution in ambiti sociali diversi (un frutto della sociological jurisprudence), gli consente di individuare le dinamiche specifiche svoltesi tra i vari attori in ciascuno degli ambiti esaminati: scuola pubblica, public accommodations, elezioni, lavoro, accesso all’abitazione ed edilizia popolare. La nozione di government by numbers si riferisce all’impiego di dati statistici per stabilire la soglia di azione dei poteri pubblici, secondo un approccio tecnico ereditato dal New Deal. Tali strumenti sono stati usati, talora congiuntamente all’istituzione di apposite agenzie, soprattutto nei settori (come quello elettorale e quello lavorativo) dove maggiori erano l’opacità e le resistenze istituzionali. In ciascuna delle sfere considerate, l’interazione tra political branches, giudici e agenzie pubbliche si è caratterizzata per una specifica “creatività istituzionale”. Quanto al principio di anti-humiliation, Ackerman lo deduce da passaggi di sentenze (a partire da Brown) e di discorsi pronunciati da diversi uomini politici e protagonisti del movimento, che variamente hanno posto attenzione sull’umiliazione, sulla degradazione e quindi sulla perdità di dignità sofferta dai cittadini neri nelle loro molteplici esperienze di segregazione. Il significato profondo di quei testi risuona alla luce di un situation sense condiviso, radicato nella tradizione di common law, volto ad attribuire alla percezione sociale di certe prassi un significato rilevante ai fini della relativa interpretazione giuridica. Nell’anti-humiliation principle, suscettibile di opporsi a qualsiasi coartazione della dignità umana, è insita una portata espansiva; una sua recente manifestazione è rinvenuta da Ackerman nella sentenza Windsor vs. United States sul riconoscimento a livello federale del matrimonio tra omosessuali.
Se molti sono gli aspetti di continuità rispetto ai precedenti volumi di We the Pepole, non mancano alcune variazioni (v. anche Jack Balkin, Bruce 3.0, in Balkinization Symposium on We The People, vol. 3). Anzitutto, il soggetto che innesca il mutamento è qui la Corte Warren, con la sentenza Brown, anziché il Presidente o il Congresso. In secondo luogo, Brown viene considerata in maniera diversa rispetto a quanto era avvenuto in Foundations: nel primo volume, questa decisione non era stata ritenuta un atto di constitutional politics ma una standard judicial opinion, da apprezzarsi in quanto espressione di una sintesi intergenerazionale tra principi della Reconstruction e quelli del New Deal. Adesso, invece, Brown è considerata, di per sé, come una forza capace di ingenerare un processo di higher lawmaking. In terzo luogo, il movimento sociale che sostiene la trasfornazione costituzionale, diversamente dal passato, non trova il canale di accesso alle istituzioni in un solo partito (movement-party), ma si inserisce come un cuneo all’interno di entrambi i partiti principali, riuscendo a imporre una coalizione tra racial liberals democratici e repubblicani. In quarto luogo, il periodo del mutamento copre un arco più esteso di tempo: non più un decennio, come le trasformazioni precedenti, ma un ventennio, essendo l’impatto della trasformazione meno immediato e bisognoso di una più lenta accettazione. Infine – e forse si tratta dell’elemento più significativo – il volume pone al centro delle dinamiche costituzionali alcuni landmark statutes (il Civil Rights Act del 1964, il Voting Rights Act del 1965 e il Fair Housing Act del 1968), facendoli rientrare a pieno titolo nel “canone costituzionale”.
Poco dopo l’uscita americana di The Civil Rights Revolution, ad esso è stato dedicato un symposium, con interventi da parte di alcuni tra i più autorevoli costituzionalisti americani. Più che riportare i singoli interventi, anche critici, volti ad esaminare profili specifici del volume (chi sia interessato li può reperire, insieme alla replica dell’autore, su Balkinization), tenderei a rimarcare l’importanza di un’opera che va letta nella sua interezza, che è stata capace di offrire, nel corso di un quarto di secolo, una prospettiva unitaria dell’esperienza costituzionale americana incentrata sulle dinamiche pluralistiche che sono in grado di riaffermare e al contempo rinnovare l’originario progetto costituzionale. Resta ancora da approfondire il modo in cui, dai landmark statutes, possano distillarsi quei principi di higher lawmaking che restano embricati (entrenched) nella costituzione, aspetto che può contribuire a definire meglio il rapporto tra gli stessi landmark statutes e gli atti (leggi o sentenze) intervenuti successivamente. Secondo Ackerman, né una legge del Congresso né una sentenza della Corte Suprema possono contraddire un landmark statute (o meglio, un principio fondamentale racchiuso in esso). La consapevolezza della natura di higher lawmaking della Second Reconstruction è volta ad evitare rimozioni o cancellazioni (erasure) della sua eredità, come quella verificatasi nella sentenza Shelby County, che lo scorso term (appena un giorno prima di Windsor vs. United States) ha invalidato una sezione chiave del Voting Rights Act. Molto probabilmente Ackerman ritornerà su questi aspetti nella parte IV di We the People, dedicata all’Interpretation, per la quale vale la pena attendere ancora qualche tempo.