“Ci sono giudici a Gerusalemme”. La sentenza dell’Alta Corte israeliana sul reclutamento militare per i cittadini ultraortodossi

N.B. A causa della guerra in corso nessuno dei siti istituzionali israeliani è raggiungibile al di fuori del territorio dello Stato di Israele. Nel testo che segue, dunque, alcuni testi di legge citati non sono al momento consultabili.

Il 25 giugno scorso, con una sentenza storica, l'Alta Corte di Giustizia israeliana ha stabilito all'unanimità che il Governo debba arruolare gli studenti delle yeshivot (scuole rabbiniche) ultraortodosse nell'esercito, poiché non esiste più alcuna legge che permetta di continuare la pratica decennale delle esenzioni per gli appartenenti a tali comunità.
Se in questa sede si è già avuto ampiamente modo di ripercorrere l’annosa questione del reclutamento militare per i cittadini israeliani ultraortodossi, è tuttavia necessario inquadrare la sentenza ricostruendo i fatti più recenti.
La legge che autorizzava le esenzioni per i cittadini ultraortodossi (la Defense Service Law 5746-1986) è stata infatti formalmente abrogata nel giugno 2023, mentre una ulteriore proroga prevista con la Cabinet Resolution (la cosiddetta Decision 682 del 25 giugno 2023, che all’art. 3 raccomandava alle strutture amministrative dell’IDF – Israeli Defence Forces – di ignorare le disposizioni della legge sugli studenti ultraortodossi), unilateralmente decisa dall’Esecutivo, è a sua volta scaduta il 31 marzo 2024. Precisamente entro tale data, il Governo avrebbe dovuto concordare un testo per conformarsi alla sentenza n. 1887/14 della Corte del 2017, che aveva stabilito ufficialmente che le esenzioni generalizzate dal servizio militare per gli studenti ultraortodossi fossero da ritenere discriminatorie.
Il testo messo a punto dal Governo a questo proposito presentava tuttavia diversi punti decisamente critici, tanto da essere definito da molte parti (compresi alcuni dissidenti dello stesso Likud), come una legge pensata semplicemente per favorire l’evasione dal servizio militare e una minaccia alla coesione nazionale. Il 31 marzo, nel suo parere ufficiale presentato alla Corte, la Procuratrice Generale Gali Baharav-Miara ha ribadito l’impossibilità, per il Governo, di rinviare ulteriormente l'arruolamento militare degli studenti ultraortodossi delle scuole rabbiniche a partire dal 1° aprile 2024. Con il termine per la presentazione di un nuovo piano fissato dalla Corte alla mezzanotte di domenica 31 marzo, il parere della Procuratrice rilevava come non esistesse alcuna alternativa possibile alla coscrizione militare per i cittadini ultraortodossi.
Inoltre, il 28 marzo, l'Alta Corte di Giustizia aveva emesso un'ordinanza provvisoria, volta a impedire ufficialmente al Governo di continuare – oltre il termine del 1° aprile 2024 – l’erogazione dei sussidi mensili riconosciuti alle yeshivot congiuntamente alle esenzioni.
In quello che è stato interpretato come l’ennesimo braccio di ferro politico tra Esecutivo e Corte, l’11 giugno la Knesset ha approvato in prima lettura, con 63 voti favorevoli e 57 contrari (numeri che segnalano chiaramente l’evidente spaccatura sul tema e che vedono addirittura il Ministro della Difesa Gallant opporsi in aula al testo), un disegno di legge per prorogare ulteriormente le esenzioni per le comunità haredì e abbassarne l’età per il rinvio del servizio militare da 26 anni a 21.
È tuttavia da sottolineare che la sentenza del 25 giugno, oggetto di queste pagine, non affronta il disegno di legge sull’esenzione e non entra nel merito del recente voto della Knesset di cui si è detto (approvato, tra l’altro, solo in prima lettura e conseguentemente reinviato alla Commissione Affari Esteri e Difesa che preparerà il testo in vista delle successive due letture), insistendo piuttosto sulla non-competenza del Governo a decidere su un tema di esclusiva competenza del Parlamento. La dichiarata volontà dei giudici di procedere in termini esclusivamente “formali” , è visibile anche in alcuni aspetti “immediati” della sentenza. Di “sole” 42 pagine (e di qui si può leggere un estratto qui), il testo è stato redatto esclusivamente dal Presidente ad interim della Corte Suprema, il giudice Vogelman. Inoltre, diversamente dalla prassi della Corte, stavolta non sono presenti opinioni dissenzienti, opinioni individuali o commenti da parte di altri giudici, a rimarcare la compattezza dei membri della Corte su una questione ritenuta relativa allo Stato di diritto e non alla contingenza politica.
La decisione è stata votata all’unanimità da tutti i nove giudici coinvolti nel collegio giudicante, compresi due osservanti religiosi e politicamente conservatori come Noam Sohlberg e David Mintz, e Yael Wilner, conservatrice più moderata, e anch'essa osservante. Proprio in conseguenza del fatto che è stato evitato il dibattito in merito alle esenzioni, non ci sono stati disaccordi tra i giudici, e il risultato è stato il messaggio semplice e potente che anche l’Esecutivo è soggetto, come tutti i cittadini israeliani, alla legge.
Nella sua decisione, l’Alta Corte ha affermato infatti che la risoluzione governativa del giugno 2023, che rimandava ulteriormente la leva degli studenti delle scuole rabbiniche (yeshivot), aveva ecceduto l’autorità del Governo ed è quindi da considerarsi ultra vires. La Corte ha stabilito a questo riguardo che quanto disposto dell’art. 3 – astenersi radicalmente, senza alcuna riserva o discrezione, dal reclutare tutti gli studenti delle yeshivot – costituiva un'applicazione selettiva impropria e infliggeva un grave danno allo stato di diritto e al principio secondo cui tutti gli individui sono uguali di fronte alla legge (paragrafi 44 e 53 della sentenza). Questo perché la giurisprudenza israeliana, a partire dalla sentenza HC 3267/97 del 1988 noto come Caso Rubinstein, aveva posto sul tema una riserva di legge, sostenendo che una decisione drastica come l’esenzione militare per gli Haredim, che viola il principio di uguaglianza, non possa essere presa tramite decisione governativa, ma debba essere promulgata dalla Knesset. In quella sentenza, infatti, la Corte si era espressa sostenendo che la decisione circa l’esenzione “must be adopted in the framework of a national decision made by the Knesset regarding the position of the State of Israel on a controversial national-social issue”.
In mancanza di una legge al momento in vigore che garantisca la possibilità di esenzione per i cittadini ultraortodossi, i giudici della Corte Suprema hanno stabilito che “lo Stato deve provvedere al loro reclutamento, in conformità alle disposizioni di legge” (trad. dell’Autore, par. 61 della sentenza).
Quanto ai numeri, la sentenza non specifica il numero o l'ambito di reclutamento richiesto, né i giudici esprimono un parere su come la Defense Service Law dovrebbe essere applicata. La sentenza stabilisce infatti principi generali senza fornire numeri di leva o indicare quote (come invece aveva fatto la Procuratrice Generale che aveva indicato la possibilità di reclutare alla prossima tornata già 3000 ultraortodossi), lasciando intendere che questo processo possa essere graduale, purché inizi immediatamente.
La Corte ha inoltre preso atto dell'argomentazione del Governo secondo cui imporre la coscrizione ai cittadini haredì costituirebbe una fattispecie di selective enforcement qualora non richiedesse anche la coscrizione per i cittadini arabi, ma ha affermato – con il già menzionato spirito di “formalità” – che l'attuale ricorso non avesse sollevato la questione della coscrizione araba e che tale argomento non potesse venire considerato. Al contrario, la Corte si è espressa stabilendo che non si possa fare alcuna distinzione tra uno studente di una yeshiva e altri coscritti, sancendo che la violazione del principio di uguaglianza in quel contesto sarà da considerarsi, appunto, selective enforcement. Inoltre, i giudici hanno sottolineato nella sentenza che l’amministrazione militare centrale, nel formulare le convocazioni, dovrà tenere in considerazione la situazione bellica che l'IDF deve attualmente affrontare e le specifiche esigenze di sicurezza nazionali in questo particolare momento storico.
A questo proposito, la sentenza lascia poco spazio all’interpretazione: “in questa situazione, la mancata applicazione della Defense Service Law crea una grave discriminazione tra coloro che sono tenuti a prestare servizio e coloro che non sono soggetti alle procedure reclutamento...la discriminazione riguardante la cosa più preziosa, la vita stessa, è la forma più dura di discriminazione" (trad. dell’Autore, p. 41 della sentenza)
La seconda questione affrontata nel testo riguarda invece i finanziamenti ricevuti dalle scuole rabbiniche in cui studiano gli studenti in età di leva, ora tenuti ad arruolarsi. Poiché la Corte ha stabilito che la decisione del Governo del 2023 sia da ritenersi ultra vires e vada quindi considerata nulla, teoricamente i fondi ricevuti da allora sono illegittimi. Tuttavia, i giudici della Corte Suprema hanno tenuto conto del danno che verrebbe causato alle yeshivot se fossero tenuti a restituire tali fondi e hanno stabilito che la data a partire dalla quale i fondi non possono più essere trasferiti dallo Stato alle yeshivot è il 1° aprile 2024.
Le reazioni alla sentenza, come prevedibile, sono state moltissime e molto diverse. Se tutti i partiti delle opposizioni (da destra a sinistra) e le organizzazioni della società civile hanno salutato il risultato come una grande vittoria, i partiti ultraortodossi della maggioranza, Shas e UTJ, hanno promesso che continueranno la loro battaglia per le esenzioni. Il Movement for Quality Government in Israel, il cui ricorso ha portato alla sentenza dell'Alta Corte in questione, ha esultato sui social dichiarando che si tratta di una vittoria storica per lo stato di diritto e il principio di uguaglianza nell'onere del servizio militare, chiedendo al Governo di implementare immediatamente il reclutamento dei circa 63000 giovani ultraortodossi idonei al servizio. “Ci sono giudici a Gerusalemme”, ha pubblicato su X il leader di Yisrael Beytenu Avigdor Liberman, citando un detto spesso attribuito al fondatore del Likud ed ex Primo Ministro Menachem Begin.
“Non c'è mai stata una sentenza della Corte Suprema a favore dei membri della Yeshiva e nell'interesse del pubblico ultraortodosso. Non c’è un solo giudice che comprenda il valore dell’apprendimento della Torah e il suo contributo al popolo di Israele in tutte le generazioni”, è stato invece il commento di Moshe Gafni, esponente di spicco dell’UTJ.
La procuratrice Generale ha ordinato dunque al Governo di iniziare immediatamente il processo di coscrizione per 3.000 giovani haredim, cioè la quota che l'esercito aveva dichiarato di essere in grado di elaborare in questa fase preliminare. L'esercito si trova tuttavia di fronte al problema di come scegliere coloro che dovranno essere arruolati. Per accelerare il processo, l'esercito ha richiesto informazioni al National Insurance Institute in merito alla storia lavorativa dei 63000 idonei, preferendo arruolare haredim che lavorino invece di frequentare le yeshivot.
Il 21 luglio le amministrazioni militari hanno inviato la prima serie di 1.000 ordini di leva agli uomini ultraortodossi di età compresa tra 18 e 26 anni, nella prima delle tre ondate di questo tipo programmate fino a settembre. Mentre importanti rabbini haredì hanno esortato gli studenti delle yeshivot a ignorare qualsiasi comunicazione da parte dell’ IDF, l'esercito ha affermato che gli ordini sono stati inviati a individui che effettivamente si ritiene possano non disertare l’ordine. L’ IDF ha affermato che i 3.000 includono infatti uomini che hanno un lavoro, sono iscritti a istituti di istruzione superiore e sono in possesso di patente di guida: indicatori – questi ultimi – ritenuti attendibili del fatto che non siano impegnati in studi rabbinici a tempo pieno nonostante abbiano ricevuto precedenti esenzioni per studiare.
Come già detto, la sentenza avrà certamente importanti implicazioni politiche e parlamentari: i partiti ultraortodossi hanno infatti a lungo presentato l'arruolamento forzato degli studenti delle yeshivot come una linea rossa che metterebbe a repentaglio la già precaria stabilità della loro alleanza con Netanyahu, a sua volta assolutamente dipendente dal sostegno di questi partiti per mantenere la sua risicata maggioranza nella Knesset. A questo proposito, è prevedibile che Netanyahu cercherà in tutti i modi di non perdere il sostegno dei due partiti ultrareligiosi Shas e UTJ, promettendo un nuovo disegno di legge sulle esenzioni dalla leva (da presentare probabilmente dopo le festività ebraiche di settembre) in cambio del sostegno dei due partiti alla maggioranza e all’approvazione del bilancio 2025. È bene però sottolineare, in termini di valutazione politica, che qualsiasi tentativo di legiferare nuovamente su uno schema di esenzione per gli studenti haredì incontrerebbe certamente una forte resistenza pubblica, e probabilmente non avrebbe un sostegno sufficiente all’approvazione nemmeno nella attuale coalizione di maggioranza. Inoltre, una ipotetica forzatura da parte dell’Esecutivo che violasse la riserva di legge sul tema verrebbe, in base alla recente sentenza, certamente bocciato dalla Corte.
Per oltre un decennio, i leader delle comunità ultraortodosse hanno legato il loro destino politico a Netanyahu, confidando nel suo impegno a preservare lo stato sociale della loro comunità isolato dal mainstream israeliano. La minaccia della Corte a questo status quo ha avuto come effetto la decisione de partiti haredi di schierarsi a favore della proposta di riforma giudiziaria voluta da Netanyahu, poiché ciò avrebbe tra l’altro consentito alla maggioranza della Knesset di scavalcare la Corte sulla questione della leva. Ma l’asprezza della situazione attuale ha reso evidenti le enormi sfide alla sicurezza che l'IDF deve ora affrontare, e tra queste il numero degli effettivi. Con la minaccia di un ulteriore allargamento del conflitto, molti alleati tradizionali dei partiti ultraortodossi della destra politica israeliana hanno dunque iniziato a mettere in discussione la legittimità dell’esenzione di una quota significativa di potenziali combattenti.
Va comunque detto, per definire adeguatamente la portata di una questione che travalica i meri aspetti giuridici e politici, che il principio che stabilisce alcune garanzie speciali per chi “fa della Torà il suo mestiere” (Torat umanuto), ha solidissime basi nella tradizione e nel pensiero ebraico, e che la pura e semplice cancellazione di esso costituirebbe, per quella tradizione, un vulnus profondo. Non mancano dunque i rabbini e i giuristi che ritengono che sia necessaria una mediazione trasparente piuttosto che una semplice negazione di tale principio. Si tratterebbe, in questa visione, di disciplinare accettabilmente e democraticamente il tema delle esenzioni, provando a trovare – ancora una volta – una sintesi tra principi ebraici e democratici.
Nonostante, quindi, siano da prospettarsi ulteriori sviluppi sulla questione, la posizione unanime dell'intero collegio di giudici della Corte su entrambe le questioni ha un valore simbolico preciso. Si tratta infatti, prima ancora di una decisione sul tema specifico delle esenzioni, di una rivendicazione chiara e netta della supremazia costituzionale del Parlamento sul Governo: quando il MK Gafni sottolinea che la Corte non “comprende il valore dell’apprendimento della Torah e il suo contributo al popolo di Israele”, è perché nella sentenza i giudici non hanno minimamente inteso entrare nel merito della questione, riaffermando piuttosto un fondamentale principio dello Stato di diritto.
Con il paese potenzialmente sull'orlo di un importante riallineamento politico, la fine (o – come sembra ad alcuni preferibile – una sostanziale rimodulazione) dell'esenzione haredi potrebbe lentamente – e non senza potenziali traumi – rimodellare la cultura e la politica ultraortodossa e forse la stessa società israeliana.


Democrazia costituzionale e democrazia elettorale in Israele: lo scontro sulla Haredì Exemption Law

N.B. A causa della guerra in corso nessuno dei siti istituzionali israeliani è raggiungibile al di fuori del territorio dello Stato di Israele. Nel testo che segue, dunque, alcuni testi di legge citati non sono al momento consultabili.

Che l’ordinamento israeliano stia, ormai da tempo, affrontando (o – piuttosto – subendo) una fase di profondo arretramento democratico è un dato largamente condiviso. A riprova della difficoltà del momento, per la prima volta il Global democracy index report del V-Dem Institute ha declassato nel 2024 lo Stato di Israele da “democrazia liberale” a “democrazia elettorale”. L’indice attribuisce esplicitamente il calo del “punteggio democratico” israeliano ai tentativi dell’Esecutivo di approvare la controversa riforma giudiziaria lo scorso anno e all’avallo del cosiddetto Reasonableness Bill. Sebbene la Corte sia successivamente intervenuta sull’emendamento, l’indice riconosce proprio nella sua iniziale approvazione un preoccupante indicatore di erosione della democrazia israeliana.
Nonostante il tema dello scontro tra Poteri sia stato largamente superato dalla tragicità dei fatti del 7 ottobre e della successiva operazione a Gaza, e sebbene l’ordinamento si caratterizzi per una buona dose di flessibilità ed eccezionalità in chiave comparata, non mancano in questo momento ulteriori difficoltà ordinamentali, più propriamente istituzionali ed “endogene”. Il 28 marzo, infatti, la Corte Suprema ha ordinato la fine dei sussidi per gli uomini ultraortodossi (haredim) che non prestano servizio nell'esercito nazionale (IDF). Si tratta di un evento tutt’altro che marginale: una sentenza al contrario dirompente, che – senza entrare nel merito degli aspetti specificamente religiosi del problema, anch’essi assai rilevanti e dibattuti – potrebbe avere conseguenze di ampia portata per la stabilità della coalizione di maggioranza e per le decine di migliaia di religiosi che si rifiutano di prendere parte al servizio militare obbligatorio.
L’antico dibattito sulla coscrizione militare per i cittadini israeliani ultraortodossi è al momento, in effetti, la più grave e urgente minaccia alla stabilità del Governo di destra radicale del Primo Ministro Netanyahu. All'interno della sua coalizione, il potente blocco dei partiti haredim – da tempo alleati strategici del Premier – è assolutamente determinato nel richiedere che le esenzioni dal servizio militare continuino, al punto che alcuni deputati del raggruppamento hanno addirittura prospettato la formalizzazione di questo principio nella Legge Fondamentale sull’Esercito. I membri centristi del Gabinetto di guerra, che significativamente sono entrambi ex generali, insistono invece affinché tutti i settori della società israeliana contribuiscano in egual misura alla guerra in corso. Netanyahu e il Likud (che i sondaggi danno in fortissimo calo di consensi e al cui interno, così come tra i partiti della destra radicale, non mancano voci che chiedono la fine delle esenzioni), cerca al momento di prendere tempo e “disinnescare” una questione potenzialmente esplosiva per la maggioranza. Il tema dell’esenzione dal servizio – insieme a quello dei sussidi che gli studenti delle scuole rabbiniche ricevono – rappresenta in effetti una delle controversie più profonde e radicate dell’ordinamento giuridico israeliano, che ha visto negli anni, oltre a numerosissime udienze ministeriali ed interrogazioni parlamentari, diversi Esecutivi “cadere” proprio perché travolti dagli accesi conflitti trascinati dalla questione.
La legge che autorizza le esenzioni per i cittadini ultraortodossi è formalmente scaduta nel giugno 2023 e una ulteriore proroga temporanea si è conclusa il 31 marzo 2024. Precisamente entro tale data, il Governo avrebbe dovuto concordare un testo per conformarsi alla sentenza n.1887 della Corte del 2017, che aveva stabilito ufficialmente che le esenzioni generalizzate dal servizio militare per gli studenti ultraortodossi fossero da ritenere discriminatorie. Secondo la Direzione del Personale dell'IDF, circa 66.000 giovani della comunità haredì hanno ricevuto l'esenzione dal servizio militare nel 2023: un numero tanto elevato costituisce un record assoluto nella storia del paese e un elemento determinante che alla luce della drammatica situazione di guerra ha contribuito a proiettare il tema nuovamente in cima alle priorità nazionali. Ricostruire in questa sede tutta l’intricata vicenda giuridica dell’esenzione militare per gli ultraortodossi con i suoi complessi dettagli non è ovviamente possibile, ma è certo che la battaglia sulla Defence Service Law del 1949 (successivamente emendata nel 1956 e nel 1986) rappresenti uno dei terreni di scontro più aspro tra gli Esecutivi israeliani e la Corte Suprema. Il dibattito, come si è detto, ha visto l’avvicendarsi di un numero imprecisato di ricorsi, proroghe, scontri politici e ammonimenti da parte della Corte ai diversi Esecutivi, che tuttavia sono sempre riusciti a mantenere il sistema delle esenzioni nonostante l’incostituzionalità rilevata a più riprese dalla Corte.
Già nel 1998, nel Rubinstein vs Minister of Defense Case (HCJ 3267/97), la Corte aveva stabilito che la decisione circa l’esenzione “must be adopted in the framework of a national decision made by the Knesset regarding the position of the State of Israel on a controversial national-social issue”. È proprio per rispondere all’invito della Corte e per risolvere la sfida della coesione sociale posta da un tema tanto caratterizzante dal punto di vista religioso, che il Primo Ministro Netanyahu, insieme all’allora Ministro della Difesa Barak, aveva nominato nel 1999 una Commissione ad hoc sulla questione: la Commissione Tal. Presieduta da Tzvi Tal (ex giudice della Corte Suprema), la Commissione fu incaricata di fornire dei suggerimenti all’Esecutivo sulla formulazione della legislazione in materia di arruolamento.
Le principali conclusioni della Commissione portarono la Knesset a trasformare l'accordo di differimento (il cosiddetto Torato umanuto” trad. it. “lo studio della Torah è il suo lavoro,” già previsto nella legge del 1949 e praticato informalmente già prima della fondazione dello Stato) in una legge, approvando (con 51 voti a favore e 41 contrari) la “Deferral of Military Service for Yeshiva Students Law” nel 2002. Anche nota come Tal Law, la legge stabiliva il rinvio per gli studenti delle yeshivot (le scuole rabbiniche) fino all'età di 22 anni, momento in cui avrebbero avuto la possibilità di accedere ad un servizio militare minimo o ad un servizio nazionale sostitutivo, della durata di almeno un anno. Rinnovata per altri cinque anni nel 2007, la Tal Law venne giudicata incostituzionale – il 21 febbraio 2012 – dalla Corte Suprema israeliana, che con la sentenza Ressler vs Knesset (HCJ 6298/07, HCJ 6318/07, HCJ 6319/07, HCJ 6320/07, HCJ 6866/07) ed un voto di 6-3 dei suoi membri, vide nella legge una violazione del principio di uguaglianza dei cittadini, stabilendo l’impossibilità da parte del Parlamento di prolungarla oltre la sua scadenza, fissata al 1° agosto 2012.
Con l’allargarsi del dibattito nazionale e con la catastrofica esperienza della Plesner Commission (anche nota come Commission for Equality in the Burden), boicottata dai suoi stessi partecipanti e durata poco più di un mese), una rinnovata Knesset approvava il 12 marzo 2014, l’emendamento n.19 alla Defense Service Law, introducendo per la prima volta l’obbligo di prestare servizio anche per i giovani ultraortodossi. Fortemente voluto dal partito centrista Yesh Atid, nuovo astro della Knesset alle elezioni politiche del 2013, che sulla “condivisione del peso militare” aveva impostato tutta la sua campagna elettorale, il testo viene riformato l’anno successivo (con l’aggiunta dell’emendamento n. 21 alla Defense Service Law) su richiesta dei partiti ultraortodossi, il cui peso può mettere a rischio la tenuta del Governo Netanyahu. Si arriva così al 12 settembre 2017, data in cui l’Alta Corte di Giustizia, con la sentenza 1877/14, decide di annullare entrambi gli emendamenti n.19 e n.21, poiché ritenuti in violazione del principio di uguaglianza. È questo, quindi, il terzo caso in cui la Corte interviene in materia di esenzione dei cittadini haredim, oltre al 1998, quando aveva ritenuto che il Ministero della Difesa non avesse l’autorità per garantire esenzioni senza una esplicita autorizzazione normativa, ed al 2012, quando aveva riconosciuto l’inadeguatezza della Tal Law a risolvere il problema.
Nei termini più sintetici è quindi questo il necessario contesto storico-giuridico in cui va letta la questione del Haredì Exemption Law più recente. Con l’avvicinarsi della scadenza, il Governo si era affrettato nelle ultime settimane a presentare una proposta di legge in merito. Il testo infine messo a punto presentava tuttavia diversi punti decisamente critici, in particolare non esplicitando la quota minima di ultraortodossi da arruolare ogni anno, portando l'età ultima di esenzione dal servizio a 35 anni e garantendo che gli uomini haredì non arruolati non incorrerebbero in sanzioni penali. La proposta è stata duramente criticata dalle minoranze parlamentari e da alcuni componenti della stessa maggioranza, soprattutto dalle forze centriste entrate nel War Cabinet allo scoppio della guerra. Il Ministro della Difesa Gallant ha così dichiarato di non poter sostenere alcuna legge approvata senza un ampio accordo da parte di tutti i partiti della coalizione – in particolare dai membri del partito centrista guidato da Gantz – accusando i partiti ultraortodossi (Shas e UTJ) di poca collaborazione in un momento particolarmente difficile. Da parte sua Benny Gantz, leader di National Unity, ha definito la bozza di legge presentata una «linea rossa» e una minaccia alla coesione nazionale, minacciando di uscire dalla coalizione se la controversa legislazione dovesse essere portata in aula.
Prevedibilmente, la bozza è stata fortemente criticata anche dall'opposizione, il cui leader Yair Lapid l'ha descritta come una «legge di evasione», che consente «l'esenzione dal servizio militare per decine di migliaia di giovani» nel bel mezzo di una guerra. Non sorprende certamente inoltre, che proprio perché in guerra, anche altre voci e forze del paese siano intervenute con toni molto accesi. Così, ad esempio, il Movement for Quality of Government si è espresso a riguardo sui social, dichiarando che il disegno di legge proposto è «un altro trasparente e vergognoso tentativo di evitare la semplice verità – che non esista alcuna alternativa ad una piena e reale uguaglianza». «L'equa ripartizione degli oneri è una necessità esistenziale per lo Stato di Israele e per la sua società, e non può essere raggiunta senza mettere a punto un progetto di legge sull'uguaglianza che si applichi a tutti» (trad. dell’autore).
Il 28 marzo il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha chiesto alla Corte (senza peraltro ottenerla) una proroga di 30 giorni per raggiungere un accordo all’interno della maggioranza. Nello stesso giorno, nel suo parere ufficiale presentato alla Corte, la Procuratrice Generale Gali Baharav-Miara ha rilevato l’impossibilità per il Governo di rinviare ulteriormente l'arruolamento militare degli studenti ultraortodossi delle scuole rabbiniche a partire dal 1° aprile. Nel parere della Procuratrice si legge che il Governo non è riuscito a proporre un piano realistico per regolamentare l’attuale sistema ritenuto discriminatorio dalla Corte, e, con la scadenza fissata a mezzanotte di domenica 31 (la Corte Suprema aveva dato al Governo tempo fino al 1° aprile per presentare un nuovo piano e fino al 30 giugno per approvarlo), la Procuratrice afferma che non esiste alcuna alternativa possibile alla coscrizione militare per i cittadini ultraortodossi.
Baharav-Miara ha anche dichiarato all'Alta Corte che, di conseguenza, è venuta a mancare qualsiasi base giuridica per mantenere i sussidi statali agli studenti delle scuole rabbiniche, poiché tali fondi sono basati sul quadro delle esenzioni dal servizio militare degli studenti stessi. Conseguentemente, con un intervento molto contestato, e alla luce della mancanza formale di un quadro giuridico relativo all’esenzione militare dei cittadini ultraortodossi, l'Alta Corte di Giustizia ha emesso il 28 marzo un'ordinanza provvisoria, impedendo ufficialmente al Governo di continuare l’erogazione dei sussidi mensili degli studenti ultraortodossi delle yeshivot dopo il 1° aprile (qualora non abbiano ottenuto formalmente una esenzione dal servizio al 1° luglio 2023).
Secondo le prime stime del Ministero della Difesa, la sentenza riguarderà circa un terzo dei 180.000 studenti rabbinici che ricevono sussidi dal Governo per lo studio a tempo pieno, e non è da escludere che, vista l’importanza di tali sussidi per i partiti ultraortodossi, i pagamenti vengano temporaneamente “coperti” dai fondi discrezionali della coalizione di maggioranza. Aryeh Deri, discusso leader del partito ultraortodosso Shas e figura centrale nel dibattito costituzionale sulla ragionevolezza, ha definito la decisione del Corte «una prepotenza senza precedenti nei confronti degli studenti di Torah nello Stato ebraico». L’ Alta Corte e la Procuratrice Generale hanno dato un mese di tempo ai Ministri della Difesa e dell’Educazione per comunicare ufficialmente le misure da adottare per arruolare la comunità haredì.
Dal 1° aprile 2024 dunque, dopo 75 anni dalla sua formalizzazione, il principio del Torato Umanuto, non ha più una base normativa all’interno dell’ordinamento israeliano. Se da un lato è realistico pensare che il meccanismo correttivo richiederà molto tempo prima di una funzionale messa a punto – alcuni costituzionalisti parlano addirittura di una decina di anni per sviluppare un sistema organico di coscrizione per le suddette comunità mentre altri ipotizzano un sistema che si ispiri al Selective Service System statunitense – il dibattito relativo alla Haredì Exemption Law è piuttosto da intendersi, come un nuovo capitolo, meno conosciuto ma non meno significativo, all’interno dello scontro interno all’ordinamento tra democrazia costituzionale e democrazia elettorale. Si tratta, invero, di due diverse concezioni differenti della democrazia, l’una riconducibile ad un quadro di limiti giuridici costituzionali retti dal principio di rule of law garantito dalla giurisdizione, l’altra fondata sull’idea che la legittimazione elettorale garantisca piena discrezionalità politica nell’esercizio della funzione di governo. Immediatamente dopo le vicende del Reasonableness Bill, in cui la deriva “elettorale” dell’ordinamento israeliano è apparsa oramai evidente, e in cui, il noto (e fondamentale) intervento della Corte Suprema non è stato sicuramente esente da traumi, il caso in analisi mostra in modo chiaro le crepe ormai preoccupanti per le fondamenta dell’ordinamento. La vocazione “elettorale” dell’attuale maggioranza, che si è tradotta nei mesi passati nella pericolosa proposta di riforma del ramo giudiziario, e che ora cerca di venire meno ai numerosi pronunciamenti contro le esenzioni militari (rifiutando – più o meno apertamente – il principio del controllo giurisdizionale di legittimità costituzionale), è ormai in aperto contrasto con la vocazione “costituzionale” rappresentata dalla Corte e dal suo fondamentale lavoro non-maggioritario. Resta tuttavia da chiedersi, in un quadro generale di progressivo deterioramento delle istituzioni democratiche, quanto ancora a lungo la Corte potrà esercitare organicamente la sua funzione di argine e garanzia senza un complessivo ribilanciamento dei poteri e la messa a punto di correttivi generali (a partire dal sistema elettorale) che rendano l’ordinamento meno permeabile a pericolose derive populistiche e illiberali.
Va chiaramente detto, peraltro, che se la sentenza della Corte relativamente al servizio militare degli haredim e ai relativi sussidi, si inscrive nel lacerante dibattito costituzionale in corso, non è tuttavia riducibile interamente a questo perimetro e non si esaurisce completamente in esso. Il tema ha infatti una particolare valenza religiosa che non appartiene alla questione pur fondamentale del Reasonableness Bill, e che può comportare implicazioni di profonda e per ora non prevedibile portata culturale e politica.


Una Basic Structure Doctrine anche in Israele?

Con un verdetto monumentale (oltre 740 pagine) e molto controverso, l'Alta Corte di Giustizia israeliana ha bocciato, il 1° gennaio 2024, l’emendamento alla Basic Law sul Giudiziario approvato dalla Knesset a luglio dell’anno precedente. Il testo, noto come Reasonableness Bill, limitava il controllo giudiziario sul Governo, ed era uno dei punti chiave del judicial overhaul portato avanti dall’Esecutivo Netanyahu. Si configura così, nella storia giuridica dello Stato di Israele, il primo caso di un emendamento ad una Legge Fondamentale israeliana annullato dalla Corte. Proprio per la sua unicità, la sentenza – una delle più importanti della storia costituzionale del paese e paragonabile, per rilevanza, alla United Mizrahi Bank v. Migdal Cooperative Village (1995) – è destinata a far lungamente discutere e a cambiare, nuovamente, i rapporti tra i supremi organi costituzionali del paese.
Con un voto che sarà certamente ricordato a lungo, e a cui per la prima volta tutti i 15 giudici hanno partecipato (la Corte è solita invece lavorare in composizione ridotta), la Corte si è spaccata quasi a metà, con otto giudici che hanno votato a favore dell'annullamento della legge, e sette per il suo mantenimento. I giudici che si sono espressi favorevolmente all’annullamento dell'emendamento sono: l'ex Presidente Esther Hayut (che ha terminato il proprio mandato il 16 ottobre 2023), l'attuale Presidente ad interim Uzi Vogelman (che eserciterà le funzioni di Presidente fino alla convocazione del Judicial Selection Committee da parte del Ministro della Giustizia Levin e all’elezione di un nuovo Presidente), Isaac Amit, Anat Baron, Daphne Barak-Erez, Chaled Kabub, Ofer Grosskopf e Ruth Ronnen. Viceversa, i giudici che si sono espressi a favore del testo sono Noam Sohlberg, Yosef Elron, Yechiel Meir Kasher, Yael Willner, Alex Stein, David Mintz e Gila Canfy Steinitz. L'ex Presidente della Corte Suprema Esther Hayut, insieme alla giudice Anat Baron, ha recentemente raggiunto il limite del pensionamento obbligatorio fissato al compimento dei 70 anni ma, come previsto dalla legge, ha avuto tre mesi di tempo per presentare la propria opinion sui casi affrontati durante il suo mandato.
La sentenza, vero e proprio terremoto costituzionale, ha un valore che trascende sicuramente quello del “solo” emendamento annullato e stabilisce il precedente di enorme portata per la giurisprudenza israeliana secondo il quale l’Alta Corte di Giustizia ha il diritto, in circostanze limitate, di intervenire ed annullare non solo la legislazione primaria ma anche le Leggi Fondamentali, dal valore costituzionale.
Oltre alla decisione circa l’incostituzionalità del Reasonableness Bill, un'ampia maggioranza di giudici – 12 su 15 – ha infatti stabilito che la Corte possiede l'autorità di esercitare un controllo giurisdizionale sulle leggi Fondamentali di Israele e che queste ultime possano essere sottoposte a sindacato di costituzionalità quando si pongono in contrasto con i principi supremi ricavabili dalla formula di Israele come “Stato ebraico e democratico” (definizione, quest’ultima, che risale, in termini sostanziali, alla Dichiarazione di Indipendenza israeliana del 1948 e successivamente formalizzata negli anni ’80). Anche se non esistono differenze procedurali nelle modalità di approvazione di una Legge Fondamentale rispetto ad una legge ordinaria, quando la Knesset approva una Legge Fondamentale si ritiene che lo faccia in ragione della sua autorità di Assemblea Costituente e il testo assume dunque un peso “quasi-costituzionale”. Di conseguenza, l'Alta Corte è stata finora estremamente riluttante nel dichiarare incostituzionali le Leggi Fondamentali, (nemmeno, significativamente, nel 2021, in relazione alla dibattuta Basic Law: Israel as the Nation State for the Jewish People).
Tuttavia, la Corte ha sviluppato negli anni due dottrine relative alla possibilità di intervenire sulle Leggi Fondamentali. La prima attiene al cosiddetto abuso dell'autorità costituente, da invocare nei casi in cui la Corte ritenga che una nuova Legge Fondamentale, o un emendamento ad una già esistente, sia stata approvata dal Parlamento per obiettivi politici e a breve termine (è questo il caso del 2021, quando un emendamento alla Basic Law: The Knesset – approvato l'anno precedente al fine di concedere alla turbolenta coalizione Likud-Kahol Lavan più tempo per risolvere le sue divergenze politiche prima che la Knesset venisse automaticamente sciolta – fu ritenuto dalla Corte come un abuso di autorità costituente, decidendo comunque di non dichiarare la legge incostituzionale).
La seconda dottrina è quella relativa agli unconstitutional constitutional amendments, che violano altre Leggi Fondamentali o vengono considerati in contrasto con l'essenza stessa di Israele come Stato “ebraico e democratico”, come delineato nella Dichiarazione di Indipendenza. A questo proposito (in quella che viene ormai conosciuta come “Dottrina Hayut”), l’ormai ex Presidente della Corte Suprema ha scritto nel 2021, nel suo parere sui ricorsi contro la Basic Law: Israel as the Nation State for the Jewish People, che l’unica fattispecie in cui la Corte potrebbe dichiarare incostituzionale una Legge Fondamentale “in questa fase del percorso costituzionale israeliano, è una legge della Knesset che modifichi il principio costituzionale che definisce Israele come Stato “ebraico e democratico”.
Precisamente questa dottrina, invero non nuova al dibattito costituzionale israeliano (e già sostenuta dall’ex Presidente della Corte Barak), richiama (seppur nelle ovvie distinzioni) altre esperienze ordinamentali in materia di limiti all’emendabilità costituzionale. In alcuni paesi, come l'India, la Corte ha infatti sviluppato l'idea di una “inemendabilità implicita”, ovvero limitazioni implicite al potere di emendamento costituzionale - anche in assenza di limitazioni esplicite - che derivano dalla struttura fondamentale della costituzione e dalla sua identità (la cosiddetta Basic Structure Doctrine). Un modello simile è inoltre la “Doctrina de la sustitución de la Constitución” colombiana che distingue tra emendamento costituzionale e sostituzione costituzionale al fine di proteggere gli elementi considerati essenziali della costituzione.
Se un simile dibattito è stato fin ad oggi ritenuto inapplicabile al contesto israeliano - che, va ricordato, è ancora “in the making” e caratterizzato da un costituzionalismo progressivo e “a tappe” - e che dunque non possa darsi una “basic structure without a full structure”, l’inedito intervento della Corte sulla Reasonableness Law apre alla suggestione che l’esperienza indiana possa rappresentare un modello e che dunque possa esistere una Basic Structure Doctrine anche nel contesto israeliano.
È proprio l'ex Presidente della Corte Suprema Esther Hayut a suggerire questa interpretazione, quando sottolinea nella sua opinion che «oggi dobbiamo compiere un ulteriore passo e stabilire che in casi rari in cui viene danneggiato il ‘cuore pulsante della 'Costituzione Israeliana’ - questa Corte è autorizzata a dichiarare la nullità di una Legge Fondamentale che in qualche modo ha superato l'autorità della Knesset. Questo, alla luce delle caratteristiche strutturali uniche del sistema giuridico israeliano, e considerata la prassi giuridica degli ultimi anni che evidenzia la facilità con cui è possibile modificare radicalmente il nostro sistema di base» (trad. dell’autore, pag. 53 della sentenza).
Da segnalare nella sentenza anche l’opinion del Giudice Amit, che non può in questa sede essere riportata per questioni di spazio e che sottolinea il deficit democratico israeliano (parlando, a pag. 221, di una «democrazia non sofisticata»), chiarendo però come il testo annullato dalla Corte muovesse nella direzione opposta a quella del rafforzamento democratico e aumentasse il rischio di un deterioramento della separazione dei poteri, di aumento della corruzione nel servizio pubblico e di un generale sbilanciamento del sistema a favore dell’Esecutivo.
Tre dei giudici più conservatori dell'Alta Corte – Noam Sohlberg, David Mintz e Yosef Elron – si sono invece opposti al principio secondo cui la Corte può esercitare un controllo giurisdizionale sulle Leggi Fondamentali. Tuttavia, Elron, che si propone come candidato alla presidenza della Corte Suprema, non ha escluso «l'esistenza di un'eccezione ristretta che si riferisce solo a casi eccezionali ed estremi di violazione dei diritti fondamentali dell'individuo e in ogni caso solo come ultima risorsa» (trad. dell’autore, pag. 160 della sentenza).
Tra le immediate reazioni alla sentenza, è opportuno menzionare quella del Ministro della Giustizia Yariv Levin, artefice della riforma giudiziaria, che ha (nuovamente) accusato i giudici di «assumere, con questo atto, tutte le autorità che in una democrazia sono divise tra i tre poteri dello Stato» e di creare una situazione «in cui è impossibile legiferare o prendere qualsiasi decisione nella Knesset o nel governo senza l'accordo della Corte Suprema, conseguentemente privando milioni di cittadini della loro voce». In un altro post, Levin sottolinea che «la decisione dei giudici della Corte Suprema di pubblicare il verdetto di una legge così controversa anche tra i membri della Corte stessa, mentre i nostri combattenti rischiano la loro vita al fronte, è un atto che ferisce l'unità del nostro popolo ora più che mai necessaria. L'improvvisa cancellazione della legislazione della Knesset è un'ulteriore prova dell'urgente necessità di un reale equilibrio tra le autorità. In una democrazia piena è impossibile impedire al popolo di realizzare la propria volontà e cancellare di volta in volta le decisioni dei suoi eletti». Lo Speaker della Knesset Amir Ohana ha invece scritto sui suoi profili social che «la decisione della Corte contraddice il desiderio di unità del popolo, specialmente in tempo di guerra», e che «è ovvio che la Corte Suprema non abbia alcuna autorità per annullare Leggi Fondamentali, ma è ancora più evidente che non possiamo affrontare questo mentre siamo nel bel mezzo di una guerra».
Da sottolineare anche la riflessione di Gilad Kariv, deputato di Avodà (partito laburista di centrosinistra), che sul suo profilo X ha dichiarato: «la pubblicazione dell'importante e coraggiosa sentenza dell'Alta Corte di Giustizia non è un momento di celebrazione, ma una testimonianza della profondità della crisi costituzionale, politica e sociale creata dal Governo e dalla coalizione, del dilaniamento della società israeliana e dell’attacco senza precedenti all’indipendenza e allo status del sistema giudiziario».
Specifica attenzione deve essere prestata ai numeri della sentenza, che non devono trarre in inganno: se, come già indicato sono 8 su 15 i giudici che hanno ritenuto incostituzionale il Reasonableness Bill, sono almeno 3 i giudici che nelle loro opinions ricorrono ad una sentenza interpretativa di rigetto. I numeri dei giudici contrari all’emendamento (pur nelle differenze) sono dunque in realtà 11 su 15, con tre di questi che tuttavia preferiscono una sentenza interpretativa piuttosto che di incostituzionalità. Allo stesso modo, sono ben 12 su 15 i giudici favorevoli all’ipotesi di sindacato costituzionale per le Basic Laws (addirittura 13 se si considera Elron che si è detto favorevole solo in casi eccezionali). Anche senza contare le voci dei giudici Hayut e Baron (che come indicato, hanno raggiunto il limite del pensionamento e in base alla legge avevano tre mesi per formulare la loro opinion sui casi di cui avevano fatto parte) risulta che l'attuale Corte possa contare su una maggioranza di 11 a 2 a favore di un controllo giurisdizionale della Corte sulle Leggi Fondamentali che si basi sulla già richiamata “dottrina Hayut”.
Come già chiarito, la sentenza del 1° gennaio ha, e avrà, un valore dirompente per l’ordinamento israeliano. Come effetto più immediato, la decisione della Corte sferra un colpo decisivo al Governo Netanyahu e alla sua coalizione di destra radicale, già provata da un drastico calo di consensi dopo gli eventi del 7 ottobre 2023. Il Premier, forse più interessato alla prossima sentenza della Corte sulla Recusal Law, ha al momento accantonato le tematiche della riforma giudiziaria e sembra piuttosto intenzionato a riconquistare il consenso perso sul terreno di guerra.
Sullo sfondo della durissima lotta tra il Governo e la Corte sul tema della separazione dei poteri nell’ordinamento, a cui si è assistito per tutto il 2023, la sentenza rappresenta infatti un'enorme vittoria per le numerosissime voci che sostenevano che il programma di riforma giudiziaria radicale del Governo fosse un'iniziativa regressiva per l’ordinamento israeliano e pericolosa per la democraticità delle istituzioni (già provate dalla nuova fase di guerra). In secondo luogo, la sentenza avvicina l’ordinamento israeliano a quelli che hanno già sviluppato una teoria di non emendabilità dei principi fondamentali delle loro Costituzioni, sottraendo quindi al potere politico alcuni “territori” costituzionali ritenuti inviolabili e ribadendo pertanto che non esistano reali alternative ai modelli di democrazia costituzionale. La decisione in analisi, quindi, passerà alla storia non tanto per l'annullamento dell’emendamento sulla Ragionevolezza, per quanto drammatica, ma per aver sostenuto a grande maggioranza il principio dell'inviolabilità della democrazia costituzionale israeliana e dei necessari limiti che un ordinamento democratico deve porre in essere anche verso le proprie maggioranze politiche elette. Dopo un braccio di ferro tra l’Esecutivo e la Corte durato oltre un anno, i giudici hanno dichiarato con forza (pur provenendo da background culturali e ideologici molto diversi) che la Knesset non è onnipotente, che il legislatore ed il Governo debbano essere soggetti ai vincoli supremi dell’ordinamento e che le maggioranze politiche contingenti non possano minacciare i diritti dell'individuo e delle minoranze.
Infine, non può non essere sottolineato come un simile risultato di salvaguardia delle istituzioni trovi radici anche nella massiccia mobilitazione nazionale a sostegno del ramo giudiziario. Nonostante la Corte israeliana non sia avvezza ad una comunicazione social e informale ma abbia sempre optato per comunicazioni ufficiali e istituzionali, è riuscita nei mesi trascorsi in una complessa opera di pedagogia costituzionale, ottenendo un ampio sostegno da parte della popolazione che non deve essere trascurato nell’economia di questa analisi. È proprio questo rapporto stretto e forte che rappresenta forse la lezione più significativa della recente sentenza, diventando ideale modello anche per i moltissimi altri ordinamenti contemporanei che con preoccupante frequenza affrontano fenomeni di regressione costituzionale.


Una pace armata: la sospensione delle ipotesi di riforma giudiziaria e le nuove richieste della maggioranza

Il 27 marzo scorso, dopo un braccio di ferro durato oltre dodici settimane consecutive tra il nuovo Governo israeliano e il variegato fronte dei manifestanti, il Primo ministro Netanyahu ha annunciato in diretta tv il rinvio della riforma giudiziaria, nell’intenzione - almeno formale - di trovare una convergenza con i partiti dell’opposizione e un maggiore consenso nel Paese prima della sua adozione.  La sera del 26 marzo, infatti, una serie di partecipatissime manifestazioni tenutesi in tutto il paese hanno portato in piazza circa 250 mila persone in tutte le principali città del Paese, anticipando il più grande sciopero generale che la storia israeliana ricordi negli ultimi quarant’anni, e bloccando completamente i trasporti, i servizi sanitari e scolastici pubblici e moltissimi esercizi commerciali. La crescente tensione, in uno scenario senza precedenti nella società israeliana, ha spinto il Primo Ministro Netanyahu, consultatosi con l’alleato di Governo Itamar Ben Gvir, a sospendere, rimandandola ai prossimi mesi, l’approvazione del controverso pacchetto di riforme giudiziarie, denunciato dagli oppositori come un “colpo di Stato”, e che darebbe alla Knesset israeliana (e quindi ai principali partiti della nuova coalizione di destra radicale) ampio margine di controllo sul potere giudiziario nazionale. Dopo il discorso di Netanyahu, che non ha comunque mancato di accusare i manifestanti delle forti tensioni, il 28 marzo il Presidente israeliano Isaac Herzog ha invitato a colloquio i rappresentanti della coalizione di governo e dei due principali partiti di opposizione per esplorare possibili soluzioni di compromesso.
Le proteste delle ultime settimane vanno inquadrate nell’ambito di una società civile generalmente caratterizzata da un potenziale di protesta molto basso, e considerata solitamente apatica e ampiamente restia alla politica di piazza. La tensione è esponenzialmente cresciuta negli ultimi giorni all’avvicinarsi del voto finale della Knesset su alcuni elementi chiave della legislazione. Il picco si è raggiunto la sera del 26 marzo quando Netanyahu ha licenziato il Ministro della Difesa Yoav Gallant per le sue dichiarazioni pubbliche sulle disastrose conseguenze che la riforma potrebbe avere sulla sicurezza di Israele - considerato che molti riservisti hanno già iniziato a disertare e a non presentarsi alle scadenze previste - e per aver esortato Netanyahu a fermarne l’approvazione. A testimonianza della generale fase di incertezza delle istituzioni in analisi, mentre si scrivono queste pagine, il licenziamento di Gallant non è stato ancora formalizzato dall’Esecutivo, e lo stesso Netanyahu ha deciso il 10 aprile di reintegrare il Ministro.
Le proteste spontanee che hanno travolto il Paese dopo il licenziamento del Ministro della Difesa, figura particolarmente importante negli Esecutivi israeliani, sembrano aver convinto Netanyahu della gravità della crisi innescata dalla riforma molto più di quanto non abbiano fatto le preoccupazioni sugli effetti di erosione delle istituzioni democratiche israeliane, che esperti, osservatori, e persino gli storici alleati statunitensi ed internazionali hanno ripetutamente avanzato.
Altro elemento rilevante nel recente cedimento del governo è stata la mobilitazione e l’adesione allo sciopero generale del 27 marzo dei grandi colossi commerciali del paese, dal potente settore high-tech, che comprende tante start-up di successo e importanti società finanziarie. L’intero settore si è infatti compattamente schierato contro la riforma dopo che il Ministero del Tesoro aveva pubblicato delle previsioni di contrazione dell’economia del 30%, lo scambio tra shekel e dollaro si era attestato ai suoi livelli minimi, e le maggiori agenzie di rating avevano ridimensionato le stime di crescita del Paese.
In rapida successione, molti membri di spicco della maggioranza israeliana e ministri del Likud si sono espressi per una sospensione dell’iter parlamentare di approvazione sottolineando il carattere fortemente divisivo della riforma e la necessità di ricalibrare un sistema di reali check and balances costituzionali, sottintendendo implicitamente il potenziale degenerativo delle modifiche presentate che, in alcuni casi, hanno già visto il voto positivo dell’aula nella prima lettura. Lo stesso Ministro della Giustizia Yariv Levin ha dichiarato che le ipotesi di riforma del Judicial Selection Committee, che garantirebbero alla maggioranza politica in Parlamento una automatica maggioranza nel Comitato per la selezione dei Giudici della Corte Suprema (testo su cui la Knesset ha già votato in prima lettura e che il 27 marzo è stato approvato per la seconda e terza lettura dalla Commissione per la Costituzione della Knesset), “would lead to a situation in which all three branches of government become one branch. This claim that [the blurring of branches] could ultimately lead to a constitutional crisis, is a claim that can’t be ignored — this cannot happen in a democratic country” (trad. del Times of Israel).
Come si è già avuto modo di approfondire, le ipotesi di riforma presentate dalla nuova maggioranza sono tuttavia ben più ampie e profonde delle sole modifiche al Judicial Selection Committee. L’intenzione apertamente dichiarata, infatti, è quella di opporre una vera “controrivoluzione” a quella “rivoluzione costituzionale”, operata negli anni ’90 soprattutto ad opera del Presidente della Corte Aharon Barak, che aveva portato ad un ampliamento del ruolo della Corte Suprema nell’ordinamento e al simultaneo affermarsi di una visione dell’organo come espressione progressista dalla forte vocazione antimaggioritaria. Le proteste nella Knesset così come nelle strade, peraltro, non hanno risparmiato nemmeno le altre modifiche - niente affatto “minori” - previste nel pacchetto in discussione. Il composito fronte delle opposizioni ha così espresso un netto rifiuto  rispetto a una riforma  che si porrebbe “at the epicenter of the rise of constitutional populism in Israel” e, più in generale, alle ipotesi di introduzione di una override clause, che permetterebbe ad una maggioranza parlamentare semplice di superare una sentenza di incostituzionalità della Corte Suprema.  Altrettanto pericoloso appare poi il progetto di limitare le prerogative di judicial review della Corte alla sola legislazione ordinaria - operazione che eliminerebbe de facto qualsiasi forma di controllo sulle Leggi Fondamentali – come pure l’eliminazione del criterio di ragionevolezza come ragione per il controllo giurisdizionale delle decisioni del ramo esecutivo e alla sostanziale limitazione dell’indipendenza dei government legal advisers.
L’assoluta rilevanza della fase costituzionale attuale emerge con chiarezza da una analisi attenta delle opposizioni politiche alla riforma giudiziaria: non si tratta infatti “solamente” del risentimento o della delusione dei partiti di centro-sinistra come Avodà o Meretz usciti gravemente sconfitti dalle elezioni di novembre, di quelli centristi come Yesh Atid o National Unity scavalcati dalla radicalizzazione del sistema partitico, o di quelli arabi come Joint List e soprattutto Ra’am, che per la prima volta nella storia del paese era entrato nell’eterogenea coalizione di maggioranza guidata da Bennet e Lapid del 2021. Le partecipatissime manifestazioni che hanno bloccato il paese nelle ultime settimane vedono anche una quota significativa di elettori di centro destra, fra i quali - è importante sottolineare - anche elettori dello stesso Likud. Una simile imprevista eterogeneità tra le file delle opposizioni va dunque attentamente considerata, negli elementi che la costituiscono e nei progetti politici più o meno espliciti che la ispirano. Al livello più semplice essa testimonia ulteriormente delle multiple linee di frattura presenti nella società israeliana, assai spesso indebitamente semplificata in opposizioni binarie, ma l’espressione di una considerevole area di dissenso all’interno della stessa maggioranza che per anni ha sostenuto Netanyahu è forse indice di un disagio nuovo e non ancora organicamente espresso in formule politiche definite. Per altro verso la proposta di riforma è legata a doppio filo con l’agenda personale del Primo Ministro e dei suoi alleati più nazionalisti e radicali. Proprio questi ultimi vedono nella limitazione delle prerogative della Corte una occasione per portare avanti disegni di legge per modificare lo status quo nell’ambito dei rapporti Stato-Religione, in quello dei diritti delle minoranze nonché in quello – caldissimo – relativo alla sovranità israeliana in West Bank. Una simile frammentazione politica ed istituzionale sembra condannare l’ordinamento israeliano ad una fase di instabilità prolungata e non immediatamente risolvibile.
La decisione di Netanyahu di sospendere l’approvazione è arrivata congiuntamente ad un accordo con il suo Ministro per la Sicurezza Nazionale di estrema destra Itamar Ben Gvir. Il Primo Ministro ha garantito al suo alleato che la coalizione cercherà di approvare la riforma giudiziaria all'interno di un ampio accordo nazionale e dopo aver discusso con l'opposizione nei prossimi tre mesi. Qualora non venisse trovato alcun compromesso, Netanyahu ha promesso a Ben Gvir che la Knesset voterà la riforma durante la sessione parlamentare estiva. Come parte dell'accordo con il suo alleato, e per impedire che Otzmà Yehudit, il partito di destra nazionalista radicale da lui guidato, lasciasse la maggioranza in protesta per la sospensione, il Primo Ministro israeliano ha accettato la richiesta di Ben Gvir di istituire una “guardia nazionale”, con il Cabinet che ha votato in questo senso il 2 aprile. L'autorità concessa alla Guardia Nazionale, e chi ne saranno i vertici, saranno questioni discusse dall’apposito Committee appena istituito, composto da professionisti di diversi organismi di sicurezza e agenzie governative, e che dovrà consegnare al Governo delle chiare linee guida in materia entro 90 giorni dalla sua istituzione. Nonostante si tratti ancora di una proposta, la controversa forza armata dovrebbe comprendere circa 2.000 militari che avranno il compito, secondo quanto dichiarato dallo stesso Ministero della Sicurezza Nazionale, di affrontare “crimini antinazionali, disordini interetnici e atti di terrorismo”, “ripristinando l’autorità governativa dove necessario”. È inoltre da segnalare che il piano di Ben Gvir richiederebbe un taglio dell'1,5% nei bilanci di tutti i Ministeri, mossa che fornirebbe circa 1 miliardo di NIS (278 milioni di dollari) per la creazione della Guardia Nazionale. Nessuna indicazione è stata fornita dal Cabinet relativamente alle tempistiche necessarie per la creazione del corpo armato. Il Committee dovrà anche decidere se, come richiesto da Ben Gvir, il nuovo corpo dovrà rispondere direttamente al Ministro o se dovrà essere posto sotto l'autorità della polizia israeliana, con lo stesso Netanyahu che il 10 aprile si è espresso informalmente in questo senso.
Oltre alle prevedibili opposizioni politiche, un coro di ex alti comandanti di polizia si è espresso negativamente sul tema, inclusi l’ex capo della polizia Moshe Karadi e quello attuale, Kobi Shabtai, che hanno affermato che Ben Gvir potrebbe usare la forza per lanciare un “colpo di stato”. Allo stesso modo, i gruppi per i diritti civili e i politici dell'opposizione hanno espresso estrema preoccupazione per la proposta che un simile corpo armato risponda direttamente al Ministro, sostenendo che l’ipotesi che diventi una “milizia privata” per la repressione del dissenso sia reale, e che potrebbe politicizzare la polizia minando il principio di uguaglianza nelle forze dell'ordine. I vertici della polizia si sono espressi sulla proposta bollandola come uno “smantellamento della democrazia” e hanno definito l’ipotesi “pericolosa al punto da trasformare Israele in una dittatura”.
Nonostante, quindi, l’approvazione della riforma giudiziaria sia stata al momento sospesa, le recenti proposte del Cabinet certificano, nel combinato disposto con le proposte di riforma e alcuni disegni di legge recentemente approvati (come l’emendamento n.12 alla Basic Law: The Government del 23 marzo), una profonda fase di regressione costituzionale e politica che coinvolge l’ordinamento del suo complesso. Se la natura volatile dell’ordinamento e della politica israeliana rende le previsioni difficili e azzardate, l’attuale stato di salute delle istituzioni risulta ad oggi essere profondamente in bilico, stretto tra le vicende personali di Netanyahu – giunto forse ad un punto senza ritorno del suo percorso politico - la determinazione intransigente della destra radicale, il disagio di gran parte della popolazione anche moderata,  memore forse dell’impegno a un paese ebraico e democratico,  e, last but non least, l’attesa  preoccupata del mondo ebraico internazionale.


Il nuovo Governo israeliano: l’inizio della controrivoluzione costituzionale?

Ponendo fine ad una prolungata crisi politica, lo scorso 29 dicembre il primo ministro Benjamin Netanyahu ha presentato il suo nuovo Governo alla Knesset e la cerimonia di giuramento si è svolta nel pomeriggio dello stesso giorno. L'ultimo Esecutivo israeliano, guidato da Naftali Bennett e successivamente da Yair Lapid (in base alle nuove norme sui Governi di rotazione inserite nelle Basic Laws israeliane), è durato infatti solo 18 mesi. Durante questo periodo, nonostante i processi pendenti per corruzione e frode, Netanyahu è stato capo dell'opposizione, ponendosi, ancora una volta, come il vero centro della politica israeliana. Eletto per la prima volta Primo Ministro nel 1996, dopo 15 anni non consecutivi di Governo, è alla guida del suo sesto Gabinetto ed è il Premier più longevo della storia dello Stato ebraico.
Con ben 30 membri (di cui solo 5 donne), il nuovo Governo israeliano sarà il più numeroso di sempre e godrà di una solida maggioranza di 64 parlamentari (su 120). Seguendo la traiettoria politica degli ultimi decenni, il nuovo Governo sarà il più a destra della storia del Paese, dando a Netanyahu un Gabinetto relativamente omogeneo dal punto di vista ideologico e un potere senza precedenti a figure estremiste che, fino a poco tempo fa, erano percepite come destinate a rimanere ai margini della politica. Oltre, infatti, al Likud di Netanyahu e ai suoi alleati ultraortodossi Shas e UTJ, la coalizione di maggioranza comprende per la prima volta le formazioni di destra radicale Otzmà Yehudit, Hatzionut Hadatit e Noam. Per la prima volta, dunque – ed è questo un dato tanto paradossale quanto significativo – sarà Netanyahu l’elemento più moderato della propria coalizione, segnando, nella polarizzata e volatile politica israeliana, una grossa cesura con l’Esecutivo precedente di unità nazionale (la coalizione “rak lo Bibi”, “tutti fuorché Bibi”), che vedeva al suo interno anche un partito arabo (Ra’am).
La nuova omogeneità della coalizione, tuttavia, non garantisce necessariamente la stabilità. Nel corso delle negoziazioni, durate molto più del previsto, Netanyahu – che ha provato con insistenza a dipingersi all’opinione pubblica come un cuscinetto contro leader e formazioni ancora più a destra – ha spesso ceduto alle richieste dei suoi nuovi partner. Dai diritti delle donne al conflitto con i palestinesi, gli alleati di Netanyahu hanno una visione chiara del Paese e lo hanno costretto ad adottarne gran parte, almeno secondo gli accordi di coalizione che il nuovo Premier ha stipulato con i singoli partiti alleati. Il Primo Ministro ha infatti pubblicato i principi guida e l'agenda generale della sua nuova coalizione, promettendo costruzioni in tutto il Paese, compresa la Cisgiordania, e misure per "ripristinare l'equilibrio" tra il Parlamento, il Governo e la Corte Suprema, tema scottante dell’attualità istituzionale israeliana.
Nonostante le critiche del Procuratore Generale e della coalizione uscente, secondo cui le politiche previste dal nuovo Governo potrebbero “erodere la democrazia israeliana”, tra le linee guida pubblicate non è esplicitata alcuna volontà di preservare i valori e le istituzioni democratiche. Se da un lato Netanyahu ha dichiarato che “difenderà i valori democratici”, il suo partito Likud persegue apertamente una riforma giudiziaria che intende stravolgere gli esistenti checks and balances tra il Parlamento e la Corte Suprema e ha raggiunto un accordo con Otzmà Yehudit per emendare il comma 2 dell’art.7A della Basic Law sulla Knesset, che impedisce la candidatura al Parlamento israeliano per chi inciti al razzismo. Una analisi approfondita delle possibilità e delle prospettive future supera ampiamente i limiti di queste note, ma alcuni nodi strategici sono sufficienti a mostrare direzioni e implicazioni delle riforme proposte.
Così, se Netanyahu è riuscito a convincere il leader del sionismo religioso di estrema destra Bezalel Smotrich a rinunciare al portafoglio della difesa, il leader di Hatzionut Hadatit, tra i più accesi sostenitori dell’annessione della West Bank, diventerà comunque Ministro delle Finanze e avrà competenza esclusiva sull’Amministrazione Civile (entità che sovrintende alla costruzione, alle infrastrutture e al coordinamento della sicurezza in Cisgiordania) all'interno del Ministero della Difesa. Nonostante le pressioni internazionali, Netanyahu ha offerto al leader nazionalista di Otzmà Yehudit Itamar Ben-Gvir, la carica di Ministro della Pubblica Sicurezza, che assume la denominazione di Ministero della sicurezza Nazionale. Ha anche concesso a Aryeh Deri, leader del partito ultraortodosso Shas, la carica di Ministro della Salute e degli Interni, con l’accordo che dopo due anni di legislatura Deri assuma anche la carica di Ministro delle Finanze e Smotrich quella di Ministro degli Interni.
Proprio attorno a queste tre nomine ruotano due blitz legislativi da parte della maggioranza, avvenuti prima del giuramento e che hanno avuto lo scopo di modificare la Basic Law sul Governo. Il primo emendamento approvato (Basic Law: The Government (Amendment No. 11, P/81/25, K/942) concede a Smotrich di esercitare un ruolo indipendente all’interno del Ministero della Difesa, assegnandogli vaste competenze nell’area C della West Bank senza alcun controllo da parte del Governo. Contestualmente, lo “strappo” legislativo consentirà a Deri, - che è stato condannato a gennaio per evasione fiscale e ha patteggiato la pena per evitare l’interdizione dai pubblici uffici - di esercitare nuovamente il suo ruolo ministeriale. Il secondo blitz della maggioranza (Law to Amend the Police Ordinance (No. 37),P/80/25,K/943) permetterà invece a Itamar Ben-Gvir (condannato in passato per atti di violenza ed istigazione all’odio razziale) di assumere il nuovo ruolo di Ministro della Sicurezza Nazionale, ampliando le competenze del Ministero, che ora controllerà anche la polizia di frontiera in Cisgiordania. Si tratta di tre modifiche politico-istituzionali di grande rilievo, che stanno suscitando pesanti critiche da parte dell'opinione pubblica internazionale. Cresce infatti la preoccupazione per la tenuta democratica dell’ordinamento israeliano, che mostra chiaramente un arretramento della rule of law e rischia di configurarsi come perfetto caso da laboratorio per gli studiosi di constitutional degeneration.
Peraltro, Netanyahu è attualmente sotto processo per tre diversi capi di imputazione. Non è dunque un caso che uno degli obiettivi principali della nuova coalizione sia quello di modificare le prerogative della Corte Suprema, in particolare attraverso l'approvazione della cosiddetta override clause. Si tratta di una riconfigurazione costituzionale che cambierebbe radicalmente l'equilibrio di potere tra il potere giudiziario e quello legislativo. La nuova norma, infatti, consentirebbe ad una maggioranza di 61 membri della Knesset di scavalcare il potere giudiziario e approvare leggi in contrasto con le Leggi Fondamentali del paese, limitando in modo critico le prerogative di controllo e garanzia della Corte Suprema.
Un'altra priorità per gli alleati di estrema destra di Netanyahu è rendere più difficile, per i gruppi a difesa dei diritti umani, presentare ricorsi alla Corte – che funge da Alta Corte di giustizia – contro le azioni del Governo. Della Corte, inoltre, il Likud vuole cambiare la composizione, attualmente quasi equamente divisa tra liberali e conservatori. La coalizione potrebbe raggiungere l’obiettivo abbassando l'età di pensionamento obbligatoria dei giudici e dando al Governo un maggiore controllo sulla nomina dei Giudici. A questo proposito, il Primo Ministro uscente Yair Lapid ha accusato il Governo entrante di “trascinare il Paese in una pericolosa spirale antidemocratica” e di minare lo stato di diritto “per motivi personali”. Le proposte di riforma del sistema giudiziario, tra cui l'imposizione di limiti al locus standi - e l'emanazione di una override clause, avrebbero realisticamente un grave impatto sulla società civile e soprattutto sui delicati e vitali rapporti tra gli enti e le istituzioni governative. Il colpo sarebbe più duro per le organizzazioni a tutela dei gruppi vulnerabili - chi vive al di sotto della soglia di povertà, gli anziani, le donne e le persone con disabilità – i cui diritti sono assai spesso stati riconosciuti o tutelati nelle sentenze della Corte Suprema, in risposta ai ricorsi presentati dalle organizzazioni della società civile.
Sul tema dei rapporti tra Stato e religione, va poi segnalata la controversa nomina del politico anti-LGBT Avi Maoz (leader di Noam), posto ora a capo del dipartimento – all’interno della Presidenza del Consiglio – che sovrintende all’”identità ebraica”, con riconosciuti settori di competenza – come la responsabilità della programmazione scolastica – e pericolose possibilità di oltrepassarli. Infine, sono da menzionare le forti spinte dei partiti ultraortodossi (Shas e UTJ) per modificare gli attuali equilibri in relazione ai fondi per le scuole rabbiniche (yeshivot), le disposizioni relative alle preghiere al Muro del Pianto, e sullo scottante tema della coscrizione militare per i giovani ultraortodossi. Sebbene si tratti ancora di una proposta, il fronte ultraortodosso ha addirittura ipotizzato di modificare la “Law prohibiting discrimination in products, services and entry to places of entertainment and public places” (anche nota come Anti-discrimination law), con conseguenze potenzialmente gravissime circa i diritti civili delle minoranze. Su ulteriori e preoccupanti proposte – come quelle di Simchà Rothman e Orit Strock – non è possibile, per ragioni di spazio, soffermarsi analiticamente: tutte, peraltro, segnalano un chiaro peggioramento delle garanzie costituzionali in termini di principio di uguaglianza. Da sottolineare, infine, le possibili modifiche restrittive alla Legge del Ritorno, dalla portata fortemente simbolica, e quelle sulle conversioni, chieste a gran voce da Smotrich. Processi di grande chiusura che segnerebbero non solo una frattura identitaria profonda nei rapporti tra Israele e le correnti ebraiche non ortodosse, soprattutto statunitensi, ma che – ancora più significativamente – manifestano una drammatica inversione  rispetto alle aspirazioni costituzionali dello Stato di Israele, “democratico ed ebraico”, e che potrebbero condurre – complice un simile processo di arretramento costituzionale – a una riconfigurazione del rapporto ideale e culturale fra lo Stato di Israele e segmenti importanti della diaspora ebraica.
Con le (deboli) opposizioni che alzano le barricate, e le numerose manifestazioni di piazza, c'è tuttavia ancora molta incertezza su quel potrà essere la reale traiettoria di riforme della nuova maggioranza, che, almeno in parte, si troverà imbottigliata tra real politik e necessità costituzionali. Tuttavia, alcune delle riforme fin qui evidenziate, a partire da quella – centrale – circa il potere giudiziario, su cui sembrano convergere tutte le anime della maggioranza, sono preoccupanti e hanno il potenziale per portare ad una revisione completa del sistema costituzionale israeliano di checks and balances.
Qualora la riforma dovesse essere effettivamente portata avanti nei termini annunciati, ciò porterà a una concentrazione di potere nelle mani dell'Esecutivo mai vista prima, senza il necessario ruolo di controllo e garanzia che la Corte ha finora esercitato, e senza alcuna tutela dei diritti delle minoranze. Le ipotesi di riforma costituzionale del complesso e delicato status quo tra Stato e Religione, nel combinato disposto con le norme relative alla cittadinanza e alla giurisdizione in West Bank, non sembrano essere meno allarmanti, ma anzi capaci di modificare profondamente la teoria dello Stato israeliano e di logorare le sue istituzioni democratiche, segnalando un progressivo deterioramento costituzionale dell’ordinamento e uno scivolamento di Israele verso un paventato modello di democrazia etnica se non addirittura di etnocrazia.