Criteri di delega e diversificazione delle tutele contro i licenziamenti nulli. La Corte costituzionale “congeda” la distinzione tra nullità testuali e virtuali ai fini dell’applicazione della reintegrazione

1 Con sentenza n. 22 del 22 febbraio 2024 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 2, comma 1 del d.lgs. n. 23 del 2015, limitatamente alla parte in cui prevede l’applicazione della tutela della reintegrazione al licenziamento di cui è dichiarata la nullità solo laddove tale nullità sia «espressamente» prevista dalla legge.
La pronuncia segue le diverse sentenze che, nei mesi e negli anni passati, sono intervenute sulla legittimità costituzionale di norme che regolano le conseguenze sanzionatorie del licenziamento illegittimo. Si possono ricordare, tra queste, la sentenza n. 59 del 2021 e la sentenza n. 125 del 2022, sulla disciplina dettata dall’art. 18 St. lav. applicabile ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015; nonché la sentenza n. 194 del 2018, la sentenza n. 150 del 2020 e la sentenza n. 183 del 2022 sulle norme contenute nel d.lgs. n. 23 del 2015, applicabili agli assunti dopo il 7 marzo del 2015.
La sentenza in commento incide sul campo di applicazione della tutela della reintegrazione sul posto di lavoro quale conseguenza di un licenziamento nullo. L’art. 2, comma 1 citato aveva infatti limitato l’applicazione della reintegrazione per i licenziamenti nulli a quelli tali perché discriminatori o perché la nullità era espressamente prevista dalla legge (c.d. nullità testuali). Al contrario, qualora la nullità dell’atto non fosse stata prevista in modo esplicito dalla legge, ma fosse derivata, ex art. 1418, comma 1, dalla contrarietà dell’atto a norme imperative (c.d. nullità virtuali), non avrebbe trovato applicazione la tutela reintegratoria.
La scelta fu oggetto di discussione in dottrina. Fu infatti rilevato come l’intento del legislatore potrebbe essere stato quello di limitare la discrezionalità giudiziaria, in conformità con il disegno complessivo delle norme del c.d. Jobs Act in materia di sanzioni contro i licenziamenti illegittimi. Difatti, avendo ravvisato un impiego talora disinvolto della categoria della nullità virtuale con il fine di allargare l’area dell’applicazione della tutela reintegratoria, il legislatore avrebbe voluto ridurre l’incertezza sulla sanzione applicabile, limitando l’applicazione della reintegrazione alle sole nullità testuali.
Invero, in senso contrario, dopo l’approvazione della norma la dottrina ha proposto opzioni interpretative tese ad allargare il campo di applicazione della reintegrazione oltre le poche ipotesi di nullità testuale riferibili all’atto del licenziamento (v., per una completa ricognizione, anche nei riferimenti, del dibattito in dottrina, A. Zoppoli).

2. La questione di legittimità costituzionale della norma è stata sollevata dalla Corte di Cassazione con ordinanza del 7 aprile 2023, n. 9530.
Nel caso di specie giunto di fronte ai giudici, il licenziamento era stato dichiarato nullo per violazione di una norma speciale applicabile agli autoferrotranvieri e contenuta nell’art. 53 dell’Allegato A al r.d. n. 148 del 1931, che regola, in quello specifico settore, la procedura disciplinare da seguire per l’irrogazione di alcune sanzioni nei confronti del lavoratore, tra cui appunto il licenziamento.
La Corte, ritenendo che questa fattispecie di licenziamento illegittimo potesse rientrare tra i licenziamenti per i quali la nullità non è espressamente prevista dalla legge, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1 del d.lgs. n. 23 del 2015 in relazione all’art. 76 Cost., che regola i presupposti affinché la funzione legislativa possa essere delegata al Governo.
Il d.lgs. n. 23 del 2015 è infatti uno dei decreti attuativi della l. n. 183 del 2014, che aveva conferito deleghe al Governo anche in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro.
In particolare, l’art. 1, comma 7, lett. c delegava il Governo a adottare previsioni che limitassero «il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato».
Secondo il giudice rimettente, il legislatore, limitando la reintegrazione ai soli licenziamenti la cui nullità fosse espressamente prevista dalla legge, avrebbe ecceduto rispetto a questi principi stabiliti in sede di delega. L’art. 2, comma 1 avrebbe infatti introdotto «una distinzione di tutela non prevista nella norma delegante e di individuazione incerta».

3. La Corte costituzionale premette alle argomentazioni di merito circa la conformità alla delega della previsione oggetto della rimessione una completa disamina diacronica delle norme che hanno regolato e regolano il licenziamento nullo e le sue conseguenze.
Inoltre, la Corte ha ritenuto necessario un chiarimento preliminare in merito alla corretta interpretazione dell’art. 2, comma 1. Si è ritenuto che tale norma debba essere interpretata nel senso per il quale la tutela reintegratoria possa essere applicata solo laddove la legge, prevedendo il divieto di licenziamento, contestualmente disponga anche la nullità dell’atto. In questo modo i giudici costituzionali hanno aderito all’interpretazione fatta propria dalla sentenza di appello che ha deciso il caso di specie nell’ambito del quale è avvenuta la rimessione.
Altre interpretazioni di carattere “espansivo” dell’art. 2, comma 1, sarebbero infatti contrarie alla littera legis. Ciò anche in ragione del fatto che, come opportunamente rileva la Corte, l’avverbio “espressamente”, alla luce di un’interpretazione troppo distante dal dato testuale, si sarebbe altrimenti dovuto considerare inutiliter datum.

4. Sciolto il nodo preliminare di cui sopra circa la corretta interpretazione dell’avverbio “espressamente”, i giudici costituzionali hanno quindi potuto decidere sulla conformità ai criteri di delega del testo dell’art. 2, comma 1.
Come si è detto, il criterio di delega prevedeva infatti la limitazione della tutela reintegratoria, in genere, ai «licenziamenti nulli e discriminatori».
La disamina della questione in specie presuppone necessariamente un chiarimento riguardo gli orientamenti della giurisprudenza costituzionale in merito alla dichiarazione di incostituzionalità per “eccesso di delega”.
L’art. 76 Cost. prevede che l’esercizio della legislazione delegata da parte del Governo possa avvenire solo ove siano definiti i «principi e i criteri direttivi» nonché gli oggetti della delega. Sicché le norme attuative della delega che si pongano al di fuori dell’ambito di azione tracciato dal delegante potranno essere dichiarate costituzionalmente illegittime.
Nel corso del tempo, la giurisprudenza costituzionale ha dato spesso un’«interpretazione flessibile» dell’art. 76, tesa a valorizzare una lettura espansiva dei criteri elaborati dal delegante. In questo senso, è stato affermato che «l’art. 76 Cost. non impedisce l’emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo e, se del caso, anche un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante» (v. Corte cost., 8 luglio 2020, n. 192; e Corte cost., 6 aprile 1993, n. 141, nonché le altre pronunce citate nella motivazione della sentenza in commento). Secondo giurisprudenza altrettanto consolidata della Corte, inoltre, il legislatore delegato dovrebbe compiere un’attività di “riempimento” normativo, in ottica di uno sviluppo originale della delega, seppur necessariamente coerente con i principi e i criteri direttivi (v. Corte cost., 27 luglio 2023, n. 166).
Tracciato il quadro dei precedenti orientamenti in materia di eccesso di delega, la Corte ha individuato, dal punto di vista metodologico, gli strumenti interpretativi da utilizzare per la decisione della questione. Dapprima si renderebbe necessaria l’interpretazione letterale del testo della delega, quindi dovrebbe essere riservato spazio ad una indagine «sistematica e teleologica», in relazione alla ratio della delega. Secondo la Corte, quest’ultimo tipo di indagine, pur se presentato come residuale, assume tanto più importanza quanto meno «preciso e univoco» è il dato letterale della disposizione delegante.

5. Dopo ampie premesse, la Corte giunge quindi alla valutazione di merito nei punti 9 e 10, rispettivamente dedicati all’analisi della conformità della norma alla delega sotto il profilo letterale e sotto quello sistematico.
Sotto il primo profilo, secondo i giudici, non c’è modo di ritenere che la lettera della delega, nella parte in cui si riferisce alla disciplina sanzionatoria dei licenziamenti, sia interpretabile nel senso per il quale il legislatore delegante abbia voluto porre una distinzione tra licenziamenti espressamente e virtualmente nulli. Del resto, si dice, il legislatore, laddove ha voluto, ha attribuito discrezionalità al Governo, prevedendo ad esempio che la reintegrazione fosse limitata anche a «specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato». Questi argomenti paiono lineari e condivisibili.
Dal punto di vista sistematico, la Corte sostiene che l’esclusione della reintegrazione per i licenziamenti colpiti da nullità virtuale sarebbe contraddittoria in quanto non accompagnata dalla previsione di una diversa sanzione.
Se è vero che anche la dottrina giuslavoristica si è interrogata circa il tipo di tutela da riconoscere ai lavoratori il cui licenziamento sia dichiarato nullo ex art. 1418, comma 1 (v. sul punto M. Marazza; C. Pisani), bisogna però rilevare come la mancata completezza del sistema sanzionatorio sia un difetto del tutto interno alle norme di attuazione della delega. Sicché non pare corretto riflettere tale vizio sul giudizio circa la rispondenza di tali norme ai criteri di delega.
Peraltro, se proprio si volesse considerare il dato sistematico, bisognerebbe rilevare come la restrizione della tutela reintegratoria si ponga invero in continuità con gli obiettivi del complessivo disegno riformatore del legislatore dell’epoca.
In ogni caso, a parere di chi scrive, basterebbe la considerazione del solo dato letterale al fine di fondare su basi sufficientemente solide la dichiarazione di incostituzionalità della norma sub iudice per eccesso di delega.
Si deve segnalare inoltre come la Corte incidentalmente indugi, al punto 10.2, sulla rilevanza dell’«inedito ribaltamento della regola civilistica dell’art. 1418, primo comma, cod. civ.», che stabilisce la nullità del contratto contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente. Ebbene, nel caso di specie, secondo i giudici, «la previsione “diversa” serve, all’opposto, a derogare alla nullità che consegue alla violazione di norme imperative». Invero, bisogna rilevare che l’art. 2, comma 1 del d.lgs. n. 23 del 2015 non esclude la nullità dell’atto di licenziamento in violazione di norme imperative (ma cfr. T. Treu) ma esclude invece la conseguenza sanzionatoria della reintegrazione. Non vi sarebbe quindi alcun ribaltamento della regola che dispone circa la nullità, che infatti resterebbe tale pur in assenza dell’applicazione della sanzione della reintegrazione. Peraltro, la considerazione, nel suo complesso, non appare ben coordinata con gli altri argomenti circa la compatibilità, dal punto di vista sistematico, della norma oggetto di scrutinio con i criteri e i principi dettati dalla legge delega.
La Corte, alla luce delle argomentazioni appena ripercorse, ha quindi dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma limitatamente alla parola “espressamente”, precisando che «per effetto di tale pronuncia il regime del licenziamento nullo è lo stesso, sia che nella disposizione imperativa violata ricorra anche l’espressa (e testuale) sanzione della nullità, sia che ciò non sia espressamente previsto». La Corte non menziona il regime sanzionatorio comune, ma si può ovviamente dedurre che debba essere quello della reintegrazione ai sensi dello stesso art. 2, comma 1.
Infine, con un riferimento alla precedente sentenza n. 150 del 2020, i giudici hanno richiamato l’attenzione sulla necessità di «ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale» quale quella che regola il regime sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi. Il monito, pur se generalmente condivisibile, si concilia poco con la decisione in oggetto, dalla quale non deriva la necessità di alcun intervento adeguatore del legislatore. Il richiamo sembra piuttosto essere stato inserito quale elemento “di contesto”, in ragione del fatto che la pronuncia è solo l’ultima della tante che, negli ultimi anni, si sono dovute occupare, con una dichiarazione di illegittimità costituzionale, delle norme che regolano il licenziamento del lavoratore.


Un vulnus (apparentemente) senza rimedi. La Corte costituzionale sollecita l’intervento del legislatore sulla disciplina delle tutele contro i licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese.

1. La Corte costituzionale, con sent. n. 183 del 2022, si è pronunciata sulla disciplina delle tutele contro i licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese. La questione di legittimità costituzionale è stata dichiara inammissibile, ma i giudici hanno rivolto al legislatore un chiaro invito a intervenire sull’assetto della disciplina.
La questione, rimessa dal Tribunale di Roma in funzione di giudice del lavoro, riguarda l’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015. La norma, nell’ambito della riforma del sistema di tutele disposta dal decreto, parte a sua volta del c.d. Jobs Act, disciplina le tutele contro il licenziamento illegittimo per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 nelle piccole imprese, identificate secondo i requisiti dimensionali previsti dall’art. 18, commi 8 e 9, dello Statuto dei Lavoratori. A questi lavoratori, qualora il licenziamento illegittimo non sia nullo, discriminatorio o intimato in forma orale ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 23/2015, si applica la sola tutela indennitaria, in misura dimezzata rispetto a quanto previsto per le imprese non piccole e comunque non superiore alle sei mensilità di retribuzione.
Nel caso trattato dal giudice rimettente, al licenziamento illegittimo del lavoratore per via dell’insussistenza del giustificato motivo oggettivo sarebbe potuta conseguire quindi una tutela indennitaria ricompresa tra le tre e le sei mensilità. Ciò in quanto, da un lato, si deve tener conto del dimezzamento della tutela minima di sei mensilità prevista dall’art. 3, comma 1 del d.lgs. 23 del 2015 (a cui l’art. 9, comma 1 fa riferimento) e, dall’altro, si deve considerare il limite massimo previsto dallo stesso art. 9.
Per il giudice a quo questo “stretto varco” entro cui poter quantificare la tutela indennitaria sarebbe inidoneo “a soddisfare il test di adeguatezza” (§1.2 del Ritenuto in fatto) secondo quanto previsto dei principi costituzionali di cui agli artt. 3, comma 1, 4, 35 comma 1 e 117, comma 1, in relazione - per quanto riguarda l’ultima norma richiamata - all’art. 24 della Carta sociale europea.
Con particolare riferimento a quest’ultima norma, che prevede che tutti i lavoratori illegittimamente licenziati abbiano diritto ad “un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”, il giudice a quo si è spinto ad affermare che la previsione di un tetto massimo per la tutela indennitaria renderebbe la stessa inadeguata, poiché svincolerebbe la quantificazione dell’indennità dall’entità del danno subito e non sarebbe dissuasiva (si veda anche il Rapporto del Comitato Europeo dei Diritti Sociali sulla compatibilità della disciplina italiana con la Carta Sociale Europea, qui con breve commento di D’Ascola). In ogni caso, un indennizzo tanto esiguo quale è quello previsto dall’art. 9 (“senza neppure l’alternativa della riassunzione”) non garantirebbe, secondo il giudice rimettente, un adeguato ristoro del pregiudizio subito dal lavoratore. Infine, il divario così ristretto tra la tutela massima e quella minima porterebbe, nei fatti, ad una tutela uniforme per tutti i lavoratori licenziati illegittimamente nelle piccole imprese, aumentando di conseguenza la rilevanza del criterio occupazionale, che però appare sempre meno indicativo delle effettive capacità economiche dell’impresa (si legga, sui contenuti dell’ordinanza di rimessione e per più ampi riferimenti, Poso).

2. La questione oggetto della pronuncia deve essere inquadrata, ai fini di un’analisi più consapevole, nell’ambito della disciplina vigente in materia di sanzioni contro il licenziamento illegittimo e dei recenti giudizi di legittimità costituzionale che l’hanno investita.
Con la sentenza n. 194 del 2018 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 3, comma 1 del d.lgs. n. 23/2015. Questa norma, come detto, è richiamata dall’art. 9 oggetto della sentenza che si commenta. Di conseguenza, la pronuncia del 2018 ha effetti anche con riferimento al criterio di quantificazione dell’indennità quale sanzione contro il licenziamento illegittimo nelle piccole imprese.
La norma è stata dichiarata illegittima limitatamente alla parte in cui parametrava il quantum della tutela indennitaria all’anzianità di servizio, secondo un criterio predeterminato (due mensilità per ogni anno di anzianità di servizio). Analoga pronuncia (sent. n. 150 del 2020) ha riguardato la disciplina della tutela indennitaria a seguito di licenziamento illegittimo per vizi formali o procedurali, contenuta nell’art. 4 dello stesso decreto e recante lo stesso criterio di quantificazione.
Le norme parametro sulla base delle quali la Corte ha deciso la questione del 2018 sono le stesse che il giudice a quo ha richiamato nella rimessione della questione relativa ai licenziamenti nelle piccole imprese. I giudici costituzionali hanno rilevato il contrasto dell’art. 3, comma 1 del d.lgs. n. 23/2015 con l’art. 3 Cost. - e, di conseguenza, con gli artt. 4 e 35 Cost. - in quanto l’applicazione di un unico criterio omologava ingiustificatamente situazioni diverse e rischiava di rendere l’indennità inadeguata e non dissuasiva. La norma contrastava, inoltre e sempre con riferimento all’adeguatezza e congruità delle tutele, con l’art. 117 Cost., in relazione al già citato art. 24 della Carta sociale europea.
La breve disamina del contenuto della sentenza n. 194 del 2018 permette, da un lato, di comprendere meglio il meccanismo applicativo dell’indennità risarcitoria prevista dall’art. 9 del d.lgs. 23/2015 e, dall’altro, di avere più chiari i principi che, da ultimo, la Corte ha ritenuto applicabili per la valutazione della legittimità costituzionale delle tutele contro il licenziamento illegittimo.

3. La Corte, pronunciandosi sulla legittimità costituzionale dell’art. 9, richiama dapprima la precedente giurisprudenza costituzionale in materia di tutele contro i licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese. Con riferimento alla disciplina allora applicabile (art. 8, l. n. 604/1966), la Corte ha ritenuto (sentt. n. 2 del 1986, n. 189 del 1975 e n. 152 del 1975) che l’esclusione della tutela reale fosse legittima in virtù della natura fiduciaria del rapporto e dell’esigenza di non gravare le piccole imprese di oneri eccessivi (§4.3). Eppure, come è opportunamente segnalato, il quadro normativo è radicalmente cambiato. Nel caso di specie, infatti, la Corte è chiamata a giudicare non sull’adeguatezza della tutela indennitaria in sé, quanto sulla congruità delle limitazioni quantitative che sono poste dall’art. 9.
I giudici costituzionali rilevano che il ristretto spazio di discrezionalità del giudice nella determinazione dell’indennità ex art. 9 limiti l’adattabilità della tutela alla specificità del caso, ledendone la congruità e la deterrenza. Inoltre, uno scarto così ridotto tra la soglia minima e quella massima avrebbe l’effetto di conferire un rilievo preponderante al criterio del numero degli occupati. Tale criterio starebbe peraltro diventando progressivamente inidoneo ad un adeguato contemperamento degli interessi, dacché è sempre meno attendibile ai fini della valutazione della capacità economica dell’impresa. Ciò renderebbe peraltro “sprovvisto […] di una significativa valenza” il limite massimo di sei mensilità previsto dalla norma (§5.2).
La Corte, pur ravvisando il vulnus identificato dal rimettente, ritiene di non poter rimediarvi attraverso una sentenza di illegittimità costituzionale. La scelta della soluzione più adeguata tra le diverse possibili dovrebbe essere infatti rimessa alla discrezionalità del legislatore che, ad opinione della Corte, dovrebbe rivedere la materia “in termini complessivi”.
Di qui la scelta di dichiarare inammissibili le questioni di legittimità costituzionale, accogliendo così l’eccezione formulata da parte pubblica. I giudici costituzionali hanno però ritenuto di porre all’attenzione del legislatore un ulteriore monito, collocato subito prima del dispositivo della sentenza. Per i giudici non sarebbe tollerabile “il protrarsi dell’inerzia legislativa”. Di conseguenza, la Corte, se nuovamente investita della questione, sarebbe indotta “a provvedere direttamente” (§7).

4. La formula che chiude la motivazione è oramai di stile per la Corte, che difatti richiama in relazione ad essa una sentenza di poco precedente (la n. 180 del 2022 su una norma del c.d. codice antimafia, ma si vedano anche la n. 22 del 2022 in materia di misure di sicurezza detentive e la n. 32 del 2021 in materia di procreazione medicalmente assistita).
Eppure, nel caso di specie, la scelta di non dichiarare l’illegittimità costituzionale della norma oggetto del giudizio appare poco condivisibile.
Prima di svolgere alcune considerazioni rispetto a tale scelta, è opportuno approfondire i motivi che hanno portato la Corte a rilevare un vulnus nella disciplina in vigore.
La Corte ha ritenuto, sotto un primo profilo di analisi, che il ristretto margine di discrezionalità giudiziale nella determinazione dell’indennità risarcitoria non permettesse una parametrazione del quantum del risarcimento con la lesione effettivamente subita dal lavoratore. Ad essere leso - ma ciò non viene espressamente affermato - sarebbe il principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost., dacché vi sarebbe, a voler utilizzare le stesse parole usate dalla Corte nella sentenza n. 194 del 2018, una “ingiustificata omologazione di situazioni diverse”. In altre parole, la previsione di uno spazio di discrezionalità troppo ristretto è equiparata all’assenza di discrezionalità che consegue all’applicazione di un criterio che commisura l’indennità all’anzianità di servizio, come era quello già dichiarato costituzionalmente illegittimo.
A ben vedere, questo profilo di supposta incostituzionalità non sembra essere decisivo. Difatti, il vulnus dell’irragionevolezza si può senz’altro rilevare con riferimento ad un criterio di determinazione che sia applicato nell’ambito di una fattispecie uniformemente identificata dal legislatore. Nel caso di specie, invece, l’irragionevolezza riguarderebbe la misura della tutela e non il criterio di determinazione della stessa. Di conseguenza, il vulnus legato all’irragionevolezza e quello legato alla congruità andrebbero a sovrapporsi. Rectius, il secondo assorbirebbe il primo, dacché la sola eliminazione del massimale di mensilità previsto dalla norma eliminerebbe del tutto il vizio rilevato dalla Corte.
Più coerente appare invece il ragionamento dei giudici costituzionali rispetto al secondo profilo di analisi. La Corte ha posto in discussione l’adeguatezza del criterio dimensionale quale fattore discretivo nella determinazione dell’indennità, poiché questo non rispecchierebbe (più) “l’effettiva forza economica del datore di lavoro”. Il vulnus in questo caso non emerge internamente alla disciplina dell’art. 9 (e cioè con riferimento al ristretto spazio riservato alla discrezionalità del giudice) ma, invece, da una considerazione relativa al sistema delle tutele nel suo complesso, e cioè quella riguardante la rilevanza del criterio dimensionale.
Resta del tutto in ombra nelle motivazioni della pronuncia, invece, la soluzione che appare più semplice. La Corte ben avrebbe potuto infatti valutare le tutele disposte dalla norma attraverso il criterio della congruità, facendo riferimento al solo dato normativo che le quantifica. L’esiguità della tutela indennitaria massima avrebbe quindi potuto portare ad un giudizio di inadeguatezza da parte della Corte, secondo i parametri già richiamati. Eppure, i giudici costituzionali sembrano non voler entrare nel merito della valutazione di adeguatezza delle tutele disposte dal legislatore, limitandosi a valutarle solo con riferimento al principio di ragionevolezza.
In ogni caso, e in conclusione, sembra non condivisibile anche la scelta di non dichiarare immediatamente l’illegittimità costituzionale della norma. La Corte, ravvisati i profili di illegittimità, avrebbe potuto - in modo coerente con l’iter argomentativo proposto - dichiarare la norma incostituzionale nella parte in cui prevede un limite massimo di sei mensilità di indennità. All’esito di questa operazione, il giudice avrebbe potuto disporre la tutela indennitaria nel più ampio intervallo tra le tre e le diciotto mensilità (la metà del massimale previsto per le imprese non piccole).
E peraltro, a voler seguire il ragionamento della Corte che considera un vulnus la differenziazione delle tutele per le piccole imprese, sarebbe stata coerente anche la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui dispone il dimezzamento della tutela indennitaria rispetto a quella prevista per le imprese non piccole. Tale intervento non sarebbe invece necessario qualora si ritenga che - almeno nel caso di specie - il vulnus non si ravvisi tanto nell’irragionevolezza del sistema di tutele quanto nell'inadeguatezza del limite massimo che la norma prevede per la tutela indennitaria.