Ines Bruno
L’equity climatica come dovere costituzionale di solidarietà
Scarsa attenzione è prestata dalla dottrina giuridica italiana al tema dell’equity climatica. La formula è declinata congiuntamente con il «principio delle responsabilità comuni ma differenziate e delle rispettive capacità, alla luce delle diverse circostanze nazionali», come si legge nell’Accordo di Parigi del 2015.
Si tratta di una clausola generale che definisce gli elementi di proporzionalità della responsabilità dei singoli Stati nella produzione e persistenza dell’emergenza climatica (emergenza dichiarata da diverse istituzioni, inclusa la UE, e denunciata, in tutte le sue implicazioni sistemiche, dalla comunità scientifica internazionale, attraverso i c.d. “Scientists’ Warning”) ai fini della sua eliminazione.
Essa è calcolata sulla base di tre variabili, indicate dall’UNFCCC del 1992:
- il diverso concorso causale al cambiamento climatico antropogenico, così come definito dal Preambolo e dall’art. 1 (ovvero l’insieme delle attività umane che, dentro i territori delle giurisdizioni statali, hanno alterato e alterano direttamente o indirettamente sia l’atmosfera che l’intero sistema climatico);
- l’obiettivo finale che gli Stati si sono impegnati a conseguire, dettato dall’art. 2 (stabilizzare le concentrazioni di gas a effetto serra nell’atmosfera a un livello tale da escludere qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane sul sistema climatico nonché nella considerazione dei tempi di adattamento naturale degli ecosistemi ai sopravvenuti cambiamenti, in modo da non minacciare la produzione alimentare e consentire uno sviluppo economico sostenibile);
- il metodo da utilizzare, indicato dall’art. 3 e consistente in una logica di costi-benefici proiettata sui “global benefit” delle singole azioni statali (per una sintesi della prospettiva di “global benefits analysis”, si v. L.A. Robinson et al., Assessing the Distribution of Impacts in Global Benefit‐Cost Analysis).
In forza di queste tre caratteristiche, l’equity climatica non ha nulla a che vedere con la tradizionale equity di diritto internazionale (su cui cfr. C. Titi, The Function of Equity in International Law). Quella climatica opera non solo in termini di Responsibility, ossia di condotta materiale nei riguardi degli altri Stati, ma anche di Liability, ovvero di condotta materiale volta a scongiurare qualsiasi ulteriore danne (materiale – damage – e di vita – harm) conseguente all’emergenza climatica, attraverso appunto il metodo costi-benefici→“global benefits”.
A livello internazionale, la letteratura se ne è occupata in varie prospettive (economica, morale, sociale ecc.). In ogni caso, il filo conduttore è rimasto sempre lo stesso: l’equity equivale a un dovere di solidarietà a valenza distributiva esterna (di reciprocità interstatale) e preventiva interna (di riflessività nell’eliminare o ridurre il pericolo dentro ciascuno Stato). La circostanza stessa che il termine ufficiale inglese, che l’accompagna con riguardo all’imputazione della responsabilità, sia “common” invece di “joint” o “solidary” (sulle cui differenze, cfr. le voci di F. de Franchis, Dizionario giuridico inglese-italiano, Milano, 1984) corrobora la conclusione. Conclusione, invero, impressa nei Principi 1, 3, 7, 8, 9, 11, 14, 16 e 27 della Dichiarazione di Rio de Janeiro del 1992, oltre che nelle ulteriori previsioni dell’UNFCCC e dell’Accordo di Parigi (con il Preambolo e gli artt. 2, n. 3, e 4, nn. 3 e 19). Del resto, il lemma “common” include sempre, come esplicitato dal Goal 13 dei 17 SDGs dell’Agenda ONU per il 2030, il dovere “comunitario” richiesto a ciascun essere umano dall’art. 29 n. 1 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
Questa vocazione solidaristica è stata scandita anche dal diritto europeo, con la c.d. “legge europea sul clima”, il Regolamento n. 2021/1119, i cui Considerando richiamano esplicitamente i principi di “equità e solidarietà tra gli Stati membri e al loro interno”. E non mancano iniziative per promuoverne ulteriori discipline di dettaglio (a partire dalla proposta della Bolivia di redigere un’organica e unitaria Convenzione dell’Equity).
La sua funzione, quindi, non risiede nel compensare o riparare danni già prodotti: serve a prevenire l’ulteriore degenerazione di un pericolo (le emissioni climalteranti e destabilizzanti) già presente e persistente. Ancora una volta, lo si coglie dagli enunciati dell’Accordo di Parigi, all’art. 8 dove è dato riscontrare che le «Parti riconoscono l’importanza di prevenire, ridurre al minimo e affrontare (averting, minimizing and addressing) le perdite e i danni associati agli effetti negativi dei cambiamenti climatici, compresi gli eventi metereologici estremi e gli eventi lenti a manifestarsi, e il ruolo dello sviluppo sostenibile nel ridurre (reducing) perdite e danni». “Averting, minimizing and addressing” e “reducing” tracciano due azioni parallele ma distinte. L’equity si riferisce a quest’ultima.
La fonte di cognizione che anticipa l’assunto di Parigi, con l’avallo, tra l’altro, degli Stati, risale al V Rapporto di valutazione (AR5) dell’IPCC (il Panel Intergovernativo sul Cambiamento Climatico), datato 2013-2014, e precisamente al capitolo del Working Group III intitolato Sustainable Development and Equity: senza equity climatica non c’è sviluppo sostenibile che implementi la capacità individuale – di ciascuno Stato – di ridurre il rischio climatico, scongiurando l’ingiustizia dei danni passati, presenti e futuri ovunque, quindi su di sé e sugli altri (i “global benefit” dell’art. 3 UNFCCC).
Perché gli Stati hanno accolto questa prospettiva? La risposta è molto semplice e non è primariamente morale, bensì scientifica: l’equity risponde alla presa d’atto della c.d. “freccia del tempo”, ossia quella proprietà emergente che condiziona tutte le forme di vita, inclusa l’umana, dettata dall’aumento, appunto nel tempo, di entropia e irreversibilità nelle varie componenti del sistema climatico a base della sopravvivenza (per un recente quadro di queste implicazioni, si v. M. Paluš et al., Causality, dynamical systems and the arrow of time).
Per provare a chiarirlo in modo sintetico e semplice, si può ricorrere alla “Lettera aperta alla politica italiana”, promossa dalla SISC (Società Italiana per le Scienze del Clima) in vista delle prossime elezioni politiche italiane. In essa si puntualizza testualmente che «a causa dell’inerzia del clima, i fenomeni che vediamo oggi saranno inevitabili anche in futuro, e dunque dobbiamo gestirli con la messa in sicurezza dei territori e delle attività produttive», sicché, al fine di evitare «che la situazione non si aggravi ulteriormente e diventi di fatto ingestibile», bisogna «spingere fortemente sulla riduzione delle nostre emissioni di gas serra, decarbonizzando e rendendo circolare la nostra economia».
L’ “inerzia del clima” è la chiave giustificativa dell’equity: per non contribuire ulteriormente a peggiorare la situazione ovunque, già irreversibilmente danneggiata – appunto per “inerzia del clima” – dalle responsabilità storiche delle emissioni statali, ciascuno Stato deve abbattere urgentemente la propria quota di emissioni “facendosi carico” del proprio contributo storico ai danni già provocati sul territorio (proprio e altrui) ed evitare ulteriori danni per sé e per gli altri. In assenza di questo approccio, lo sviluppo sostenibile è impossibile ovunque, anche presso i paesi più industrializzati e tecnologicamente avanzati.
Si tratta, in fin dei conti, di un metodo di azione solidale declinato secondo la logica dell’altruismo egoista (è questo il senso dell’art 3 dell’UNFCCC su analisi costi-benefici→“global benefits”), che premia non solo sul piano socio-economico (cfr. S. De Dominicis et al., Protecting the Environment for Self-interested Reasons), ma anche e soprattutto esistenziale, riflettendo un fattore di sopravvivenza presente in tutte le forme di vita (si pensi alla “Kin Selection” e al polimorfismo “Cheater-Cooperator”). In pratica, far bene agli altri, assumendosi le responsabilità storiche verso tutti, fa bene in realtà a se stessi e al proprio futuro.
Ecco allora che, dal punto di vista esclusivamente giuridico, negare l’equity non risulta semplicemente immorale o non iure (non giustificato dall’ordinamento); è contra ius (lesivo dei diritti dei viventi coinvolti dall’emergenza climatica). Anche questa conclusione è condivisa dagli Stati (inclusa l’Italia), i quali hanno dato avvio all’approccio operativo denominato “One Health-Planetary Health” per coniugare ovunque equità e solidarietà. La salute umana è interconnessa nel tempo e nello spazio del sistema climatico, sicché la sua salvaguardia dipende dalla considerazione interspaziale e intertemporale delle condotte statali sul sistema climatico. La One-Planetary Health identifica il “global benefit” che non può non interessare tutti nell’era dell’emergenza climatica.
Ci si spiega perché si ritenga ormai che equity e approccio One-Planetary Health imprimano due facce della stessa medaglia, perimetrando, nella lotta statale all’emergenza climatica, il metodo da seguire, con la prima, e i beni della vita da salvaguardare, con la seconda, (cfr. M. Carducci et al., Le basi epistemologiche dell’emergenza climatica e dell’Health Equity).
Un recente studio (L. Rajamani et al., National 'fair shares' in reducing greenhouse gas emissions within the principled framework of international environmental law) ha verificato la conformità di questo ordito con i principi del diritto ambientale internazionale. Come accennato, anche il diritto climatico europeo del Green Deal fa da sponda ad esso.
Resta allora da appurare se l’intreccio equity↔solidarietà↔One Health-Planetary Health come “global benefit” trovi corrispondenza anche nella Costituzione italiana.
In merito, giova accennare al trattamento riservato all’art. 2 Cost., da parte dei formanti legali italiani. Il principio costituzionale è stato interpretato e applicano come fonte tanto di diritti “nuovi”, quanto di doveri solidaristici “innominati” (cfr. F. Polacchini, Doveri costituzionali e principio di solidarietà), aperti alle questioni ambientali (si v. T. Martines, Diritti e doveri ambientali, in Panorami, n. 6, 1994) come pure a quelle intertemporali, in ragione, tra l’altro, del dovere di fedeltà alla Repubblica da mantenere costante nel tempo (cfr. la ricostruzione di A. Morelli, I paradossi della fedeltà alla Repubblica). Altrettanto noto è il combinato disposto tra artt. 2, 9 e 32 Cost. in funzione della salvaguardia del bene-valore salute come unitario diritto-dovere (si ricordino le storiche decisioni di Cass. civ. SS.UU. n. 5172/ 1979 e di Corte cost., nn. 210/1987 e 641/1987, e si cfr. C. Panzera, Un diritto fra i doveri? Lo “strano caso” del diritto alla salute).
In una parola, la solidarietà costituzionale attraversa il tempo a garanzia della salute come diritto-dovere (cfr. G. Majorana, Il patto fra generazioni negli ordinamenti giuridici contemporanei).
Con la riforma dell’art. 9 Cost., la prospettiva è completata proprio nella direzione One Health-Planetary Health. Il nuovo articolo costituzionale, infatti, promuove una protezione integrata della realtà (paesaggio, patrimonio storico e artistico della Nazione, ambiente, biodiversità, ecosistemi), cristallizzata come facere irrinunciabile e irreversibile (trattandosi di un principio inemendabile nei termini dettati dalla sent. della Corte cost. n. 1146/1988) e aperta alla posterità, dovendo considerare anche l’interesse delle future generazioni.
Nella letteratura comparatistica, simili enunciati di dovere solidaristico intertemporale sono sintetizzati dalla formula “FRCC” (Future Regarding Constitutional Clause) (cfr. I. González Ricoy, Intergenerational Justice and Institutions for the Long Term, in K. Goetz, ed., The Oxford Handbook of Time and Politics), in quanto essi servono a:
- isolare le decisioni intertemporali dalle pressioni elettorali di breve termine, trasferendone la valutazione di efficacia dei contenuti ai poteri di controllo (a partire dai giudici),
- vincolarle nel metodo (appunto intertemporale)
- ridurre i rischi sulla qualità della vita (come già a suo tempo affermato proprio dalla cit. sent. Corte cost. n. 641/1987 – dove, attraverso l’intreccio degli artt. 9 e 32 Cost., l’ambiente è già emblematicamente definito «elemento determinativo della qualità della vita», dentro un quadro di solidarietà intertemporale da garantire anche attraverso interventi giudiziali preventivi – e ripreso dalla sent. n. 58/2018, secondo cui «rimuovere prontamente i fattori di pericolo … costituisce condizione minima e indispensabile [di] armonia con i principi costituzionali, sempre attenti anzitutto alle esigenze basilari della persona») (si v. pure, per il panorama comparato, i monografici della Intergenerational Justice Review, dedicati a Constitutions as intergenerational contracts).
Com’è facile riscontrare, il metodo dell’equity è una sorta di “FRCC”: sottrae le decisioni climatiche all’arbitrio egoistico non altruista schiacciato sul presente, attraverso un metodo vincolante intertemporale finalizzato a ridurre rischi per “global benefits”. Tra l’altro, il metodo non è neppure difficile da mettere in pratica, godendo di una cornice certa di riferimento temporale: il 1990 come data di riconoscimento comune del problema climatico che si è concorso a produrre – presupposto fattuale dell’UNFCCC del 1992 – e il 2030 come scadenza entro la quale abbattere la più alta quota di emissioni necessaria a ridimensionare al minimo il rischio – in ossequio al risultato del mandato speciale conferito dagli Stati all’IPCC nel 2015 e accolto dal Glasgow Climate Pact (cfr. su questa logica, J. Hickel, Quantifying national responsibility for climate breakdown: an equality-based attribution approach for carbon dioxide emissions in excess of the planetary boundary).
Gli Stati si stanno adoperando in questi termini? Purtroppo, sembra proprio di no; almeno per l’Italia, dove non si rintracciano fonti di informazione e linee guida, neppure all’interno del SNPA in quanto struttura preposta per legge, che forniscano metodi e quantificazioni dell’equity necessaria a farsi carico delle responsabilità storiche per ridurre i rischi presenti e futuri sul nostro territorio. Del resto, se tale fonte fosse esistita, essa sarebbe stata posta a base della citata “Lettera aperta” della SISC.
Neppure la UE sembra aver definito, quanto meno in forma accessibile e verificabile di approccio storico e contabilità ricostruttiva, se e come adempia all’equity: il documento, intitolato EU climate action policy: Responding to the global emergency, si limita a evocarla, senza null’altro aggiungere.
Lo scenario si profila paradossale. Al cospetto dell’emergenza climatica, negli Stati difetta la condotta materiale più importante e necessaria per affrontare al meglio la sfida (con le parole della cit. sent. costituzionale n. 58/2018, la «condizione minima e indispensabile» per «rimuovere prontamente i fattori di pericolo», “fattori” che, in emergenza climatica, compromettono i “global benefit”).
14 Settembre 2022
di Ines Bruno