Elisa Fiorini Beckhauser
L’Accordo di Parigi sul clima come fonte a tutela dei diritti umani nella giurisprudenza del Supremo Tribunale Federale brasiliano
Recenti orientamenti giurisprudenziali in Brasile hanno evidenziato importanti novità nella qualificazione delle fonti del diritto climatico (si v. le diverse rassegne di Maria Antonia Tigre in Climate Law Blog e, in particolare, il caso “IEA v. Brasile”, in cui si chiariscono, per la prima volta nel panorama comparato, i confini tra questioni giuridiche ambientali e questioni giuridiche climatiche).
L’ultima di queste si riscontra nel giugno 2022, quando il STF (il Supremo Tribunale Federale brasiliano) ha attribuito all’Accordo di Parigi sul clima del 2015 la natura di trattato a tutela dei diritti umani.
È la prima volta che una Corte suprema qualifica in termini di tutela dei diritti umani una fonte internazionale pattizia in materia climatica. Ancor più interessante è il fatto che la decisione sia stata assunta in sede di Ação de Descumprimento de Preceito Fundamental (l’ADPF n. 708), una particolare forma di accesso alla giustizia con funzioni di accertamento di violazioni di precetti fondamentali dell’ordinamento giuridico e dichiarazione degli obblighi costituzionali dei poteri pubblici.
L’ADPF è prevista dall’art. 102 §1 della Costituzione Federale del 1988 (CFB), ma è regolata dalla legge n. 9.882/1999. Si tratta di uno strumento di controllo concentrato di costituzionalità utilizzato per «prevenire o riparare la violazione di un precetto fondamentale, derivante da un atto dell’autorità pubblica» nonché per accertare l’inosservanza del precetto fondamentale da parte di «una legge o da un atto normativo federale, statale o municipale, compresi quelli precedenti alla Costituzione». La delimitazione del suo oggetto è concettualmente legata al termine “precetto fondamentale”. Di esso non esiste una definizione legale, dato che la legge impone al ricorrente l’onere di indicare quale sia il “precetto fondamentale” reputato violato. Tuttavia, a seguito della giurisprudenza maturata, il termine vuole indicare un principio o una regola essenziale del sistema normativo, non necessariamente esplicitato dalla Costituzione, ma prevalentemente connesso al riconoscimento di diritti fondamentali e alle garanzie poste a loro tutela.
L’ADPF ha natura sussidiaria e residuale, per cui può essere proposta solo nel caso in cui altri meccanismi di controllo concentrato di costituzionalità non siano esperibili, come l’azione diretta di incostituzionalità (ADI), l’azione dichiarativa di costituzionalità (ADC) e l’azione diretta di incostituzionalità per omissione (ADO). L’oggetto può riguardare tanto atti amministrativi quanto atti normativi anche precedenti la CFB del 1988, nonché decisioni giudiziarie altrimenti non impugnabili.
Ai sensi dell’art. 103 CFB, i soggetti legittimati a presentare un’ADPF sono: il Presidente della Repubblica, i Presidenti del Senato federale o della Camera dei deputati, i Presidenti delle Assemblee legislative o i Governatori degli Stati, il Procuratore generale della Repubblica, il Consiglio federale dell’Ordine degli Avvocati del Brasile (OAB), almeno un partito politico rappresentato nel Congresso nazionale, una confederazione sindacale e, infine, un’entità di classe (ovvero associazioni di categoria) operante a livello federale.
L’azione è promossa direttamente davanti al STF e la decisione ha effetti erga omnes, vincolando tutti i poteri pubblici nell’interpretazione e applicazione del “precetto fondamentale” accertato e dichiarato. Contro la decisione del Supremo Tribunale non è ammessa impugnazione.
L’ADPF n. 708 è stata avviata nel 2020 nei confronti del Governo federale, su iniziativa di quattro partiti politici con il sostegno di organizzazioni della società civile. L’oggetto dell’azione ha investito la decisione federale di tagliare i finanziamenti al c.d. “Fondo Nazionale per il Cambiamento Climatico” (o “Fundo Clima”), istituito dalla legge n. 12.114/2009 come strumento operativo della “Politica Nazionale sul Cambiamento Climatico” (PNMC), disciplinata a sua volta dalla legge n. 12.187/2009.
Di conseguenza, il taglio dei finanziamenti è avvenuto da parte del Governo in contrasto con le suddette leggi istitutive della politica climatica federale. Per tale motivo, se ne è lamentata l’incostituzionalità, in termini di violazione del principio della separazione dei poteri.
Inoltre, sempre il Governo, con Decreto presidenziale del 2019, aveva modificato anche la composizione del Comitato di gestione dell’organo, al fine di ridimensionare al suo interno la rappresentanza scientifica e quella dei lavoratori rurali e della società civile e così enfatizzare la discrezionalità esclusivamente politica del suo agire.
Sul presupposto che simili atti del potere esecutivo disattendessero appunto la legislazione federale istitutiva dell’organo e si ponessero in contrasto con la Costituzione federale e con gli accordi internazionali in materia climatica, sottoscritti dal Brasile, i ricorrenti hanno chiesto l’intervento del Supremo Tribunale Federale, al fine di accertare la condotta incostituzionale e negligente del Governo federale e porre fine alla stessa attraverso la riattivazione delle risorse finanziare necessarie al funzionamento del “Fundo” con la previsione altresì di un piano annuale di mantenimento delle stesse e l’interpretazione vincolante dei “precetti fondamentali” da rispettare nell’attività dei poteri pubblici.
Il 30 giugno 2022, il STF ha definitivamente respinto, a maggioranza di 10 a 1, le argomentazioni del Governo e ha stabilito che il potere esecutivo non può ignorare o disattendere il mandato di funzionamento dell’organo, contenuto nella legge. Ha altresì specificato che il dovere costituzionale di garantire il finanziamento del “Fundo clima” per la mitigazione climatica non deriva soltanto dal rispetto della separazione dei poteri tra legislativo ed esecutivo, ma discende tanto dall’art. 225 CFB, il quale riconosce che tutti hanno diritto a godere di un ambiente ecologicamente equilibrato spettando al potere pubblico e alla collettività difenderlo e preservarlo, quanto dagli impegni internazionali sottoscritti dal Brasile. Infine, ha concluso che spetta comunque al potere giudiziario garantire la non regressione della tutela ambientale.
In definitiva, i “precetti fondamentali”, tracciati con questa sentenza, rafforzano la natura extra-contrattuale, oggettiva e solidale della responsabilità statale nella lotta al cambiamento climatico, fondandola appunto sulla Costituzione federale (art. 225), oltre che sulla legge n. 6.938/1981 (art. 14), sul Codice civile (art. 942) e su principi come quello della non regressione.
Tuttavia, la novità assoluta della decisione risiede nella qualificazione dell’Accordo di Parigi del 2015.
Il Supremo Tribunale Federale ha chiarito che i trattati sul clima costituiscono un tipo particolare di fonte internazionale sui diritti umani, sicché essi, in quanto tali, detengono una natura “sovralegale” nei termini dell’art. 5 §2 della Costituzione federale, ossia godono di una collocazione privilegiata nella gerarchia delle fonti interponendosi tra Costituzione federale e leggi ordinarie. La conseguenza pratica di tale riconoscimento consiste nell’impossibilità di essere derogati o abrogati da altre fonti interne e di assumere rilievo di parametro di legittimità di tutti gli atti di un qualsivoglia potere pubblico brasiliano, compreso il citato Decreto presidenziale del 2019.
L’ordito argomentativo, sfociato in questa importante conclusione, si deve al Giudice relatore del STF, il costituzionalista Luis Roberto Barroso. Nella sua esposizione, il Giudice ha richiamato l’attenzione sullo “stato di cose incostituzionale”, determinato dalla persistente condotta negligente del Governo in materia di protezione dell’ambiente e di lotta all’emergenza climatica. In effetti, il concetto di “stato di cose incostituzionale” descrive la situazione di fatto e normativa, in cui si verificano diffuse, continue e sistematiche violazioni dei diritti fondamentali da parte di organismi pubblici, nei cui confronti occorre agire con soluzioni strutturali altrettanto ampie per eliminare la persistenza del pericolo. Identifica, in altre parole, un fatto illecito permanente di rilevanza costituzionale, un vero e proprio illecito costituzionale, cui porre rimedio attraverso appositi provvedimenti giudiziali contenenti obblighi di facere.
Secondo il Relatore Barroso, poiché gli obblighi di facere contro l’emergenza climatica sono disciplinati dall’Accordo di Parigi, quel trattato non può che essere interpretato come fonte internazionale di tutela dei diritti umani. E questo per varie ragioni: in primo luogo, perché l’art. 5 §2 della Costituzione federale non fornisce un criterio di qualificazione delle fonti internazionali, ma si limita ad affermare che i diritti e le garanzie della Costituzione non ne escludono altri derivanti a qualsiasi titolo dai trattati internazionali sottoscritti dal Brasile; in secondo luogo, perché proprio le fonti internazionali del diritto climatico, a partire dal Preambolo della Convenzione quadro dell’ONU del 1992 sino al Preambolo dell’Accordo di Parigi del 2015, ammettono che gli Stati si impegnano a proteggere il sistema climatico a tutela della presente e delle future generazioni (Convenzione quadro) e nel rispetto e nella promozione dei diritti umani (Accordo di Parigi). Ecco allora che i diritti e le garanzie, esplicitate nella Costituzione, si integrano, nella specifica “materia” della lotta all’emergenza climatica, con i trattati internazionali che la riguardano.
La conclusione è molto significativa e va ben oltre i confini della giurisdizione brasiliana, in quanto esprime un orientamento di apertura all’integrazione dei parametri di tutela dei diritti fondamentali, che contraddistingue l’attuale costituzionalismo liberaldemocratico di molti paesi che, come il Brasile, hanno ratificato l’Accordo di Parigi. In fin dei conti, il STF brasiliano ha operato in una prospettiva simile a quella formulata dalla Corte costituzionale italiana nei riguardi della CEDU, perseguendo, di fatto e alla luce dell’art. 5 §2 CFB, il medesimo obiettivo della «massima espansione delle garanzie» attraverso «lo sviluppo delle potenzialità insite nelle norme costituzionali» (sent. Corte cost. n. 317/2009, punto 7 in diritto). In più, il suo ragionamento è formulato in coerenza con una serie di principi costituzionali, anch’essi presenti non solo in Brasile: dal divieto di regressione ambientale alla tutela giudiziale effettiva dei diritti, alla considerazione delle generazioni future. Ecco perché l’effetto utile dell’Accordo di Parigi non può mai consistere nel ledere, limitare o ignorare i diritti, bensì nel massimizzarne la tutela, rispettandoli e implementandoli con le politiche di mitigazione, esattamente come si legge nel suo Preambolo.
Di conseguenza, la qualificazione di quest’ultimo come fonte internazionale sui diritti umani nel facere contro l’emergenza climatica contribuisce a implementare pure la sua interpretazione in buona fede.
Com’è noto, la Convenzione di Vienna del 1969 sull’interpretazione dei trattati impone agli Stati di eseguire in buona fede qualsiasi obbligazione internazionale: il che assume rilievo nei rapporti interstatali ai sensi dell’art. 26 di quella Convenzione. Essa, però, stabilisce pure che qualsiasi fonte internazionale pattizia debba essere interpretata sempre in buona fede ma «secondo il senso ordinario da attribuire ai termini del trattato nel loro contesto ed alla luce del suo oggetto e del suo scopo»; e questo anche all’interno della giurisdizione statale, ai sensi degli art. 31, soprattutto nella parte in cui si precisa che si terrà conto della «prassi successivamente seguita nell’applicazione del Trattato».
Se il “senso ordinario” dei due Preamboli della Convenzione quadro e dell’Accordo di Parigi è difficilmente contestabile, la circostanza che la “prassi” di applicazione sia stata ora eretta a “precetto fondamentale” di natura costituzionale, di fatto riconducibile ai “precetti fondamentali” pro rights appartenenti tanto alle tradizioni del costituzionalismo liberal democratico quanto ai “principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili” (art. 38 n. 1.c dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia), rende il precedente brasiliano inconfutabilmente persuasivo sulla corretta qualificazione (rectius, in buona fede) dell’Accordo di Parigi. Si pensi, per tutti, ai principi “no Harm” e “neminem laedere”, indubitabilmente riconducibili alle “nazioni civili”. Nel momento in cui una giurisdizione assegna un significato specifico all’interpretazione di un trattato e lo fa nell’ottica dei diritti umani per evitare danni e concretizzare “no Harm” e “neminem laedere”, tutte le altre giurisdizioni statali, chiamate ad “applicare” le fonti climatiche, avranno difficoltà a ignorare o contestare simile acquisizione, se non negando dignità al primato stesso dei diritti umani e promuovendo, di fatto, un irrazionale favor per il danno e la lesione.
In definitiva, disattendere, da parte di altre giurisdizioni statali, questo “precetto fondamentale” brasiliano di interpretazione in buona fede dell’Accordo di Parigi, significherebbe ammettere che “no Harm” e “neminem laedere” possano essere tranquillamente ignorati nella lotta contro l’emergenza climatica: un esito tutt’altro che da “nazione civile”.
Nel celebre scritto Legge e giudizio, il giovane uditore giudiziario Carl Schmitt si interrogava sul potere decisorio del giudice, ancorandolo, prima ancora che ai dogmi formalistici della “volontà” del legislatore, all’ “altro giudice” ossia alla correttezza dell’argomentare emergente dalla prassi giudiziale relativa a un testo. Lo proponeva proprio ai fini del consolidamento della buona fede interpretativa. Di fronte a un trattato universale come quello di Parigi, l’ “altro giudice”, cui ispirarsi per la buona fede, è ovunque, perché la situazione di minaccia, alla quale il testo di Parigi fa riferimento, è ubiqua e planetaria, riguardando tutti dappertutto.
6 Settembre 2022