L’indipendenza giudiziaria è nuovamente compromessa in Ungheria

Lo scorso dicembre il Parlamento ungherese ha approvato la quattordicesima revisione della Legge fondamentale del 2011 con 135 voti favorevoli e 53 contrari, comprendente due differenti modifiche proposte dal Governo e successivamente esaminate dalla Commissione parlamentare per la Giustizia. Si tratta di un importante sviluppo giuridico e politico che rivede i criteri per la nomina del Procuratore Capo e dei giudici, aumentando il ruolo del Parlamento nella scelta del primo e modificando i requisiti per l’eleggibilità’ in termini di età anagrafica nel secondo caso.
Con riferimento alla modifica dell’articolo 29 della Costituzione, disciplinante la figura del Procuratore Capo, è utile fare un passo indietro per comprendere appieno l’essenza della modifica suddetta. In assenza di particolari differenze rispetto al ruolo assunto dal Procuratore Capo negli altri ordinamenti europei, anche in Ungheria questa figura è sempre stata considerata un organo indipendente, incaricato di perseguire i reati. Il concetto era e rimane chiaramente espresso al comma 1 del già citato articolo 29, sebbene i cambiamenti intervenuti abbiano messo in discussione la natura indipendente del Procuratore Capo.
Sino all’approvazione della riforma di cui ci stiamo occupando, il dettato costituzionale dell’articolo 29 non appariva espressamente contraddetto nei commi immediatamente successivi (A. Arato, 2012). Difatti, l’incarico assunto dal capo della Procura era tutelato da un processo di nomina meno discrezionale o, quantomeno, basato su una selezione tale da rendere meno probabile l’assunzione del ruolo da parte di soggetti la cui indipendenza potesse essere oscurata dall’organo elettivo. In altre parole, il comma 4 dello stesso articolo costituzionale prevedeva un sistema di elezione che, pur non essendo completamente immune da possibili influenze governative, introduceva un significativo filtro preliminare: il ruolo di Procuratore Generale poteva essere ricoperto solo da pubblici ministeri già in carica, per un mandato di nove anni. L'elezione era affidata all’Assemblea Nazionale, che avrebbe votato su proposta del Presidente della Repubblica fino al raggiungimento della maggioranza dei due terzi.
Tuttavia, a seguito della riforma proposta dal Governo ungherese, il processo di nomina che proteggeva la suddetta indipendenza è stato rovesciato. A partire dal 1 gennaio 2025, l’iter di designazione del Procuratore Capo ha subito una modifica significativa riguardo ai soggetti candidabili. Infatti, il Presidente della Repubblica avrà la possibilità di proporre all'Assemblea Nazionale non più solo nomi appartenenti alla categoria dei pubblici ministeri, ma anche quelli di qualsiasi cittadino.
In questo caso, stupisce soprattutto l’assenza di requisiti che, se inseriti nel testo della norma costituzionale, avrebbero avvalorato un processo di nomina più attento al rispetto di determinate caratteristiche professionali richieste nella maggior parte del Paesi europei (D. Kosař - K. Šipulová, 2018).
A titolo di esempio, un caso interessante, che si presta ad una comparazione con la legge ungherese, è quello spagnolo. La Legge Organica 50/1981, che integra il contenuto dell’articolo 124 della Costituzione spagnola, stabilisce che per la nomina del Fiscal General del Estado sia necessario che il candidato proposto sia un giurista spagnolo di riconosciuto prestigio con più di quindici anni di effettiva pratica professionale, che non abbia assunto nei cinque anni precedenti incarichi come capo di un Ministero, della Segreteria di Stato o di un Dipartimento di un Governo autonomo. Inoltre, si richiede che non sia stato eletto alla Presidenza di un Ente locale e non abbia avuto lo status di deputato, senatore o membro del Parlamento europeo o di un'Assemblea legislativa di una Comunità autonoma nei cinque anni antecedenti. Inoltre, la legge spagnola assume una posizione maggiormente cautelativa anche nel processo di nomina del Procuratore Generale, garantendo il coinvolgimento dei tre poteri dello Stato. La procedura inizia con la proposta di un candidato da parte del Governo, il quale viene sottoposto al parere del Consiglio Generale del Potere Giudiziario (CGPJ), organo autonomo di governo della magistratura; benché non vincolante, questo parere rappresenta un passaggio fondamentale per valutare l’idoneità del candidato. Successivamente, il candidato è chiamato a presentarsi davanti alla Commissione Giustizia del Congresso dei Deputati per un’audizione finalizzata a esaminarne la preparazione, senza che sia tuttavia richiesta l’approvazione parlamentare. A conclusione dell’iter, il Re formalizza la nomina su proposta del Governo.
Nel caso dell’Ungheria, si è deciso di procedere sulla scia di quelle discipline che non vedono l’essenzialità nel legame tra carriera e futuro incarico. Queste ultime sono state richiamate dalla stessa Commissione parlamentare per la Giustizia all’esito dell’esame della proposta di modifica costituzionale presentata al Parlamento lo scorso novembre, poi approvata. Invero, nel testo del suddetto disegno di legge, da cui ha avuto inizio l’intero iter di revisione costituzionale di cui si discute, si giustifica la quattordicesima riforma della Costituzione alla luce della prassi nazionale e internazionale. Si darebbe concretezza, da un lato, ad un modus operandi presente in Ungheria, per il quale due delle tre persone che hanno ricoperto la carica di Procuratore Generale dal 1990 non erano magistrati del pubblico ministero al momento dell’elezione. In altri termini, la proposta emendativa suddetta ha voluto regolarizzare una prassi che, prima della modifica costituzionale in questione, risultava in violazione dello stesso articolo 29 della Costituzione che, come detto, richiedeva espressamente che l’incarico di Procuratore Generale fosse assunto da un già pubblico ministero. D’altro canto, l’emendamento costituzionale ha voluto allineare la normativa interna alla prassi di quei Paesi europei, quali Paesi Bassi, Polonia, Danimarca, Svezia, in cui la nomina del Procuratore Generale non è subordinata al fatto che questi abbia un passato da procuratore.
In tema di modifiche, il Parlamento ha anche proceduto a modificare la disciplina costituzionale riguardante i magistrati, in linea con la proposta proveniente dall’esecutivo. L'emendamento costituzionale aumenta l'età minima per assumere l’incarico di giudice da 30 a 35 anni a partire dal 1 marzo 2025; e a partire dal 1 gennaio 2026 permette loro di rimanere in carica fino al settantesimo anno d’età, a differenza del limite fissato a 65 anni d’età per le altre categorie professionali. In questo senso, la scelta di procedere con due differenti date è imputabile alla necessità di consentire una transizione graduale, permettendo ai giudici e alle istituzioni di adattarsi al nuovo limite di età senza causare interruzioni repentine o squilibri nel funzionamento del sistema giudiziario, come accaduto in precedenza. La ratio perseguita con questa modifica, citando la stessa Commissione Giustizia nella relazione presentata al Parlamento a seguito della propria valutazione della proposta, sarebbe quella di «contribuire ad un ulteriore rafforzamento della formazione professionale dei giudici, migliorando la qualità del processo decisionale giudiziario».
Il cambiamento, anche in questo caso, è significativo se si considera il punto di partenza della riforma. L’articolo 26 considerava il trentesimo anno d’età come l’inizio della carriera giudiziaria, senza alcun preciso riferimento temporale alla fine della stessa: la formula scelta dal legislatore ungherese prevedeva che l’incarico da magistrato sarebbe rimasto tale sino «al conseguimento dell’età pensionabile», riferendosi dunque all’età generalmente prevista per ogni lavoratore ungherese.
Tuttavia, è bene evidenziare come la stessa opera di modifica in oggetto sia frutto di un iter di riforme in materia durato oltre 10 anni. In altre parole, non è la prima volta che si procede in tal senso, riformando gli articoli 25-28 della Costituzione ungherese relativi all’ordinamento giudiziario (S. Benvenuti, 2012). In particolare, già nel 2012 l’Ungheria era stata nel mirino della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (e della stessa Corte Suprema nazionale) per aver drasticamente abbassato l'età pensionabile dei giudici dalla soglia fissa di 70 anni a 62 anni tramite una legge, che si inseriva in una serie di riforme legislative promosse dal Governo ungherese in quel periodo (articolo 230 della Legge n. CLXII del 2011). La conseguenza fu la revoca di oltre un quarto dei giudici della Corte suprema e circa la metà degli allora presidenti delle Corti regionali o provinciali. In quell’occasione la Corte di Giustizia UE (C-286/12) aveva giudicato la mossa dell’esecutivo «una discriminazione non giustificata fondata sull'età […] in violazione degli articoli 2 e 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78».
Al momento, le istituzioni europee non hanno rilasciato dichiarazioni ufficiali riguardo alla riforma in questione. Tuttavia, considerando le precedenti preoccupazioni espresse dal Parlamento europeo sull'indipendenza della magistratura ungherese, è improbabile che le istituzioni UE non prendano posizione su una modifica di tale portata. Due anni fa, con una propria relazione, il Parlamento europeo aveva già manifestato preoccupazioni riguardo all'indipendenza della magistratura in Ungheria, sottolineando che le riforme in tema attuate dal Governo avevano compromesso l'autonomia del sistema giudiziario, minando la separazione dei poteri e lo Stato di diritto. Si contestava la procedura di nomina dei giudici, responsabile di non riuscire a garantire trasparenza e di poter essere influenzata da considerazioni politiche. A questo proposito, si richiamava la riforma costituzionale del 2011, che interessava sia la composizione che le funzioni delle Corti. In quell’occasione il numero dei giudici della Corte Costituzionale fu aumentato da 11 a 15 e la durata del loro mandato estesa da 9 a 12 anni. Inoltre, si decise che il Presidente della Corte Costituzionale, precedentemente eletto per tre anni dai suoi pari, sarebbe stato nominato dal Parlamento per la durata residua del suo incarico come giudice costituzionale.
Nella medesima relazione, il Parlamento europeo riprendeva le parole che il relatore speciale delle Nazioni Unite rivolgeva al Governo ungherese nel 2021, specificando come l’azione dello stesso si stesse orientando verso una direzione apparentemente volta a sottoporre il potere giudiziario alla volontà del legislativo, violando il principio della separazione dei poteri. Nella stessa occasione, evidenziava come la decisione di ignorare il parere negativo del Consiglio Nazionale della Magistratura sulla nomina di alcuni vertici del potere giudiziario poteva essere vista come la volontà dei rami legislativo ed esecutivo di interferire nell'amministrazione della giustizia.
A questo punto, alla luce dei precedenti appena esposti, sembrerebbe che una considerazione finale sull’attuale riforma non possa non considerare la realtà ungherese degli ultimi anni. Come sottolineato da gran parte dell'opposizione politica, anche quest’ultima riforma costituzionale risulterebbe in continuità con l’impostazione finora assunta, volendo rafforzare il controllo del Parlamento sul processo di nomina dei magistrati e del Procuratore Capo. Riforma, questa, che se considerata congiuntamente alle meno recenti modifiche del sistema giudiziario, risponde all’allarme sull’effettiva tutela dello Stato di diritto ungherese. A tal proposito, è di dicembre 2024 la decisione della Commissione UE di sospendere oltre 1 miliardo di euro di fondi destinati all'Ungheria a causa di violazioni dello Stato di diritto, dovute a carenze nella lotta contro la corruzione, conflitti di interesse e alle suddette problematiche che compromettono l'indipendenza del sistema giudiziario.
In questo senso, in attesa di nuove dichiarazioni provenienti dalle istituzioni europee sulla riforma in oggetto, è interessante richiamare un recente parere della Commissione di Venezia sul sistema giudiziario polacco e le misure necessarie a ripristinare lo stato di diritto del Paese. Difatti, date per certe le similitudini tra gli scenari politici dei due Paesi (G. Delledonne, 2020), è utile evidenziare come le preoccupazioni assunte dalla suddetta Commissione si sposino con facilità alla situazione ungherese. Nel caso della Polonia, la Commissione ribadisce che, dal 2015, l’indipendenza del sistema giudiziario sia stata progressivamente compromessa. Tra le principali criticità, evidenzia le nomine irregolari di giudici al Tribunale Costituzionale, le riforme legislative che hanno ridotto l’autonomia della magistratura, rendendola più esposta alle pressioni politiche, e le decisioni dello stesso Tribunale, che hanno messo in discussione la supremazia del diritto europeo.
Riconoscendo gli sforzi del nuovo governo polacco nel promuovere un piano di riforma per il ripristino dello stato di diritto, la Commissione sottolinea l’importanza di procedere alla rimozione dei giudici nominati irregolarmente, attraverso riforme che garantiscano il rispetto dei principi di legalità, certezza del diritto e proporzionalità. In questo senso, si invita il nuovo esecutivo a evitare misure eccessivamente drastiche, che rischierebbero di creare nuove criticità anziché risolvere quelle passate: il ripristino dello stato di diritto, infatti, deve avvenire in piena conformità ai principi democratici, scongiurando strumentalizzazioni politiche e interferenze indebite nel sistema giudiziario. Allo stesso tempo, è essenziale preservare la stabilità istituzionale, sia a livello nazionale che nei rapporti con le istituzioni europee.
Il richiamo al parere suddetto, se proiettato nella realtà ungherese, permette di confermare le criticità e i timori già rilevati nel corso della presente trattazione: quello a cui si sta assistendo, attraverso le varie operazioni di ingegneria costituzionale operate dall’esecutivo, appare un meccanismo di limitazione della diversità politica presente nel Paese, a cui si aggiunge un costante tentativo di politicizzare gli altri poteri, in particolare quello giudiziario.
Di conseguenza, ciò potrebbe continuare a comportare una riduzione dell'indipendenza della magistratura e un incremento dell'influenza del Governo. Lo stesso Governo, che dopo aver compiuto l’importante passo di dare al Paese la prima Costituzione non comunista nel 2011, continua a rendersi autore di una serie di emendamenti della sua stessa opera.